L'Italia ha fama di essere un
“laboratorio politico” dove si manifestano in anticipo le
tendenze della storia. Eppure oggi la nostra Penisola sembra ferma a
tre o quattro anni fa: il Pd partito di maggioranza relativa in un
governo di coalizione allargata. Lo spettro parlamentare è composto
soltanto da forze organiche al sistema di potere della Seconda
Repubblica, fatta eccezione per il Movimento Cinque Stelle. Tolto
quest'ultimo, tutte le altre (magari con nomi e sigle diverse)
occupano stabilmente le Camere e hanno avuto anche incarichi di
governo. Ma ciò che dovrebbe stupire non è tanto questa stabilità
del potere politico (nonostante ci si ostini a credere il nostro
sistema instabile) quanto il fatto che ad essa non corrisponda una
eguale stabilità economica. La linea politica italiana è rimasta
sostanzialmente la stessa dagli anni '90, quando vi era tutt'altro
contesto. Allora il nostro paese era ancora una delle economie più
progredite d'Europa (sebbene si cominciasse già a intravvedere
l'inizio del declino imminente). Allo stato attuale, viceversa,
l'Italia è stata declassata a membro dei PIIGS, entrando nel novero
dei paesi che più soffrono la crisi economica europea dovuta alle
politiche di austerità. Tuttavia se negli altri paesi, ugualmente o
anche più colpiti, sono nati movimenti e soggetti portatori di
diverse istanze, che invocano un rovesciamento della politica
economica e un contrasto del neoliberismo, ciò non è accaduto nel
nostro paese. Dalla greca Syriza (già al governo) allo
spagnolo Podemos fino al neonato partito portoghese Juntos
Podemos, passando per lo storico Sinn Fein irlandese,
queste forze hanno raggiunto la maggioranza dei consensi o comunque
sembrano orientate a un'affermazione positiva.
Sebbene in esse risiedano numerose
contraddizioni e delle ambiguità di fondo, hanno tutte posto al
centro della loro agenda una proposta più attenta alle classi più
deboli, alla riduzione della disoccupazione e all'aumento dei salari.
In Italia, invece, la questione è più complessa. Si può certo dire
che il Movimento Cinque Stelle sia stato in qualche modo l'archetipo
di questi partiti “leggeri”, ovvero dotati di una struttura
“liquida” e di una partecipazione più flessibile rispetto ai
partiti tradizionali: un tale modello (che però sta mostrando tutte
le sue inadeguatezze, come dimostrano le ultime diaspore e scissioni
del partito fondato da Grillo) si ritrova ad esempio in nuove forze
europee come Podemos. Tuttavia a distinguerlo da esse è il tipo di
politica economica e internazionale. Queste “mine vaganti” della
politica europea in genere hanno adottato una chiara impostazione
antiliberista (no alle privatizzazioni, programma pro-labour)
e di critica alla politica estera perseguita sinora dall'Unione
Europea (atlantismo intransigente e fedele sottomissione agli
interessi americani) giungendo in alcuni casi a ipotizzare anche
un'uscita dalla NATO.
Tutto ciò non è
proprio del Movimento Cinque Stelle, che pure essendosi schierato
contro l'euro (al contrario dei partiti suddetti) non si può dire
abbia assunto una posizione chiaramente antiliberista (espressione
cioè del movimento nel suo complesso e non soltanto di alcune sue
frange). Ha perfino scelto di allearsi, tra i banchi del Parlamento
Europeo, con l'UKIP, il partito inglese ultraconservatore e
thatcheriano.
Le posizioni dei
Cinque Stelle sui temi economici sono molto frammentate. Grillo sul
tema è sempre parso ambiguo, avallando disparate interpretazioni.
Ciò probabilmente per ragioni storiche. Il MCS nasce in un periodo
in cui non ancora si manifestava chiaramente all'opinione pubblica la
disfatta dell'austerità europea e l'urgenza di ribaltarne il
paradigma, mentre era già assai presente l'insoddisfazione nei
confronti del ceto istituzionale. Così tutta la carica di questo
partito si è concentrata nella ribellione contro “la casta”.
Tale ribellione è praticamente il solo fattore coesivo dei Cinque
Stelle. Per il resto si naviga a vista, procedendo in base alle
contingenze particolari e alle trovate estemporanee di Grillo.
Ma come mai, è
lecito domandarsi, in Italia non è nato un partito simile a quelli
di Syriza o di Podemos – i quali, pur ereditando i difetti della
mancanza di una chiara struttura teorica e culturale di riferimento
(un tempo si chiamava “ideologia” prima che questa parola fosse
criminalizzata dai media) hanno assunto una posizione antiliberista e
anti-austerità?
In
parte, come si è detto, ciò è dovuto al contesto storico in cui
nascono i Cinque Stelle, che hanno catalizzato tutta la protesta
“antagonista”, per così dire. In parte, anche, per l'assenza
cruciale di una sinistra non del tutto compromessa con il sistema di
potere vigente. Quel che esisteva della sinistra (che ha partecipato
ai governi di centrosinistra) da un lato è riconducibile all'area
di SEL, monopolizzata dalla linea vendoliana che ha abdicato
pressoché completamente alla critica della società e dell'economica
in favore di un'“etica dei diritti” e di istanze di tipo
individuale (diritti delle donne, diritti delle minoranze, diritti
dei gay, ecc.) dall'altro a quella che faceva capo a Rifondazione
Comunista, la quale si è praticamente suicidata per l'incapacità
dei suoi dirigenti (cfr. “Leragioni del fallimento storico della sinistra italiana”).
In questo modo quel
bacino di consensi è stato o assorbito dal Movimento Cinque Stelle
oppure è rimasto fluttuante nella fazione di maggioranza degli
astenuti.
Ma se
queste sono le ragioni contingenti, bisogna andare alla ricerca delle
cause più profonde di questo fenomeno. Esiste infatti un altro più
radicale motivo per cui la situazione politica italiana versa in un
simile stato. Ed è l'assenza di una classe politica dirigente (d'ora
in poi cpd). Può suonare strano in tempi di retorica “anticasta”
ma in Italia praticamente non esiste più una cpd da diverso tempo.
Con questa espressione deve intendersi un gruppo sociale che ricopre
stabilmente incarichi politici (cosa di per sé non dannosa) e che
provveda alla direzione delle politiche pubbliche in
modo consapevole e come soggetto autonomo.
Ovvero che abbia chiaro l'indirizzo a breve e a lungo periodo delle
politiche pubbliche e che si ponga come intermediario tra queste e le
varie anime della società (poteri esteri o locali, lobby, classi,
cittadini). La cpd trova un equilibrio tra le varie istanze, le varie
anime sociali e le necessità storiche del momento. Quando essa viene
a mancare, una o alcune di queste anime si impongono sulle altre e lo
fanno in modo non mediato, dunque dispotico. È precisamente la
condizione odierna della Penisola.
Attualmente
non abbiamo una cpd, perché è discutibile che siano molto chiare a
chi governa (non si confonda la cpd con la sola funzione legiferativa
e governativa) le conseguenze a breve e a lungo termine degli atti
pubblici intrapresi (salvo, ovviamente, per una ristretta cerchia) e
inoltre non esiste
un soggetto autonomo dirigenziale.
I membri del governo o del Parlamento si limitano semplicemente a
ratificare decisioni prese da altri, gruppi di pressione o capi
partito, secondo un ordine gerarchico informale ma ben preciso e
collaudato. Circa l'80% delle leggi votate dal Parlamento italiano
sono l'applicazione delle direttive europee, le quali seguono
scrupolosamente le richieste delle lobby. Ciò non significa che
anche il restante 20% non sia anch'esso rispondente alla gerarchia.
La
distruzione della cpd italiana ha una data: 1992, ovvero l'inizio
della vicenda nota alle cronache come “tangentopoli”. Questa
distruzione avvenne per via mediatico-giudiziaria e fu mirata: colpì
quegli elementi disfunzionali per la rivoluzione gerarchica
imminente, ovvero i dirigenti politici il cui ruolo non rispondeva
alle esigenti pretese delle élite economiche, in particolare l'area
socialista e craxiana e una parte dell'area democristiana; salvò,
invece, coloro che si sarebbero piegati alla nuova strategia, i
miglioristi del PCI e la “sinistra” DC. Nacque così il
“centrosinistra” degli anni '90. La cpd della Prima Repubblica,
con tutti suoi limiti, era riuscita ad assicurare crescita economica,
bassa disoccupazione, alti salari ed elevati investimenti pubblici.
Tutto ciò non collimava con i piani neocapitalistici. Questo golpe
giudiziario venne rafforzato da una campagna mediatica di
delegittimazione di tutta la cpd italiana (esclusa ovviamente quella
che doveva essere salvata). Distrutta la classe politica, si
orientava l'opinione pubblica verso il nuovo regime. Di conseguenza,
maturò presso gli italiani una diffidenza nei confronti non soltanto
degli elementi boicottati della cpd, ma delle stesse politiche
pubbliche intraprese grazie ad essi. Spesa pubblica, diveniva
sinonimo di sperpero; tutele del lavoro, inutile burocrazia;
partecipazioni statali, inefficienza e clientelismo; deficit e debito
pubblico, sintomo di corruzione. Fu in quegli anni che si posero le
basi per l'austerità. Questa narrazione antistatalista, che non
riconosce la necessità del ruolo dello Stato e dei suoi dirigenti
politici e che vede nella cpd un gruppo parassitario e corrotto, è
ancora oggi largamente accettata. Di essa si è servita il Movimento
Cinque Stelle per la sua ascesa, con la sua retorica “anticasta”
e “antipolitica”. Così, al partito di Grillo viene naturale
attribuire la situazione attuale alla cpd, mentre è piuttosto vero
l'esatto contrario: è generata proprio dall'assenza
di una cpd. Anche questi partiti europei hanno fatto propria una
simile retorica, ma con accenti più blandi e meno totalizzanti di
quelli dei Cinque Stelle. L'endemico e strutturale sbilanciamento di
questi ultimi rispetto ad essa ne impedisce la piena comprensione dei
fenomeni economici e la formulazione di una proposta condivisa contro
l'austerità e contro il neoliberismo.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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