Lo stato di
eccezione e la dittatura legislativa inaugurati dal revisionismo
costituzionale sospendono il diritto rappresentativo quale si è
affermato e consolidato nell'Italia repubblicana
La discussione
sulla riforma del Senato si inserisce in un processo di revisione
costituzionale che è in corso da alcuni anni. La riforma promossa
dal governo Renzi prevede la fine del bicameralismo perfetto e
l'abolizione del Senato elettivo sostituito con una camera composta
da sindaci e consiglieri regionali e ridotta da 315 a 100 membri. Il
nuovo Senato non potrà più votare la fiducia al governo e non gli
sarà permesso di legiferare eccetto che su alcuni temi come riforme
costituzionali e trattati internazionali.
In realtà questa
proposta di riforma è solo l'ultima di una serie che si sono
susseguite in Italia. Gli ultimi anni hanno visto un notevole
incremento delle modifiche costituzionali. Dal 1948 fino al 1999 la
Costituzione è stata modificata appena 14 volte. Dal 1999 al 2012,
in soli 13 anni, ben 11 volte.
Fino al '99 le
modifiche riguardavano singole norme, mentre da allora in poi è
stato inaugurato un “revisionismo costituzionale” durante il
quale interi complessi di leggi sono stati soggetti a revisione, come
è accaduto per la riforma del Titolo V del 2001.
Sostanzialmente
gli scopi raggiunti con le riforme della Carta dell'ultimo periodo
sono così riassumibili:
a) Decentramento
amministrativo e indebolimento del potere dello stato centrale
b) Rafforzamento
del potere degli organi esecutivi e indebolimento di quelli
legislativi
c) Subalternità
delle istanze di carattere nazionale rispetto agli assetti delle
istituzioni sovranazionali europee.
Il biennio
1999-2001 è stato un periodo cruciale. In questo lasso di tempo si è
provveduto al punto a), ovvero al decentramento e alla istituzione di
un ordinamento di tipo federale, attraverso le autonomie regionali e
il federalismo fiscale. Sempre nello stesso periodo è stata
approvata l'elezione diretta del Presidente della Giunta regionale
(punto b)).
Con la riforma
dell'aprile 2012 è stato introdotto il principio del pareggio di di
bilancio, seguendo le direttive e le tendenze dell'Unione Europea che
mirano al controllo dei bilanci degli stati membri.
L'ultima riforma
prevista, si confà a b), prevedendo una riduzione dei poteri del
parlamento attraverso la trasformazione di un ramo delle camere da
organo legislativo a pieno diritto a funzione di collegamento tra
stato ed enti locali. In questo modo si otterrà una contrazione
delle procedure di approvazione delle proposte di legge. Queste
ultime finora dovevano essere discusse sia dalla Camera che dal
Senato e se modificate da quest'ultimo rimandate alla prima, fino a
una approvazione del testo finale da parte di entrambi i rami del
Parlamento. Con la nuova riforma in molti ambiti la procedura
legislativa riguarderà soltanto i deputati. Ciò, assieme alla nuova
legge elettorale, che dovrà prevedere un ampio premio di maggioranza
per il partito più votato, non fa che assegnare più forza alle
maggioranze e ai governi, indebolendo invece il Parlamento e le
opposizioni.
Si
può dire che dal '99 sia iniziata una nuova fase della storia
politica italiana. Ovvero uno stato di eccezione e una dittatura
legislativa. Si intenda qui “dittatura” nel senso originario
della parola, ovvero di governo temporaneo in casi straordinari. Il
dictator
era la carica alla quale il Senato romano affidava il potere in tempi
di guerra. Tuttavia il Senato manteneva il pieno controllo nella Roma
repubblicana e poteva stabilire i limiti della dittatura, mentre lo
stato di eccezionalità attuale sfugge e travalica il Parlamento. Le
riforme costituzionali della fase “revisionista” in buona parte
violano se non la forma, lo spirito della Carta. Con la riforma del
Titolo V è venuto meno il principio contenuto nell'articolo 5.
Questo riconosce le autonomie locali, ma con la precisazione che “la
Repubblica è una e indivisibile”. Inoltre una simile riforma
rendendo possibile un diverso trattamento e diverse tutele da regione
a regione, come è avvenuto con la regionalizzazione della sanità,
ha minato l'articolo 3, il quale non solo sancisce l'uguaglianza di
fronte alla legge di tutti i cittadini italiani, ma promuove anche
l'abolizione degli ostacoli che impediscono la piena uguaglianza (non
solo teorica e giuridica, diranno i costituzionalisti, ma fattuale).
Caratteristica dell'ordinamento repubblicano quale uscì
dall'Assemblea Costituente del '48 e che venne attuato negli anni
successivi, era quello che si potrebbe definire un “centralismo
rappresentativo”; ovvero ampi poteri e capillarità dello stato
centrale sul territorio, notevole forza del parlamento e limitazione
del potere dei governi e della funzione esecutiva rispetto a quella
legislativa. In altre parole l'interventismo dello stato nei vari
settori (sociale, economico, culturale, ecc.) veniva realizzato in
un'ottica di ampia rappresentatività e di equilibrio nella garanzia
di una dialettica tra i vari attori in gioco. Con lo stato di
eccezione inaugurata nel '99, questa caratteristica è venuta
meno. Le facoltà statuali si disgregarono e il potere del
parlamento si indebolì notevolmente. Contrariamente a quanto era
avvenuto fino ad allora, le revisioni costituzionali non furono più
la risultante di un'ampia condivisione di tutte le forze politiche,
ma iniziative delle singole maggioranze o, persino, (come nel caso
della riforma del Senato prevista) del governo. Ciò riguarda in più
ampio processo che vede il governo assommare su di sé le funzioni
legislative e il parlamento limitarsi alla semplice ratifica.
Con
la modifica del 2012 che ha introdotto il pareggio di bilancio, un
altro tassello è stato aggiunto alla “dittatura”. Se fino ad
allora lo Stato aveva la facoltà di usare il proprio bilancio per
promuovere politiche confacenti ai proprie istanze e ai principi
della propria carta fondante, questa facoltà ora sarà formalmente
inibita (anche se di fatto lo era già da alcuni anni). Anche il
pareggio di bilancio potrebbe essere considerato incostituzionale o
comunque non rispondente allo spirito della carta fondativa. Gli
articoli 3 e 4 impegnano attivamente l'istituzione pubblica a
promuovere l'eguaglianza sotto tutte le forme e (fatto senza
precedenti) il raggiungimento della piena occupazione (“La
Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e
promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”). Il
pareggio di bilancio invece limita le possibilità di intervento
dello Stato e impedisce l'attuazione di questo principio, in quanto
tutte le politiche volte alla riduzione e all'eliminazione della
disoccupazione si fondano e si sono fondate sui disavanzi pubblici,
come ha ampiamente dimostrato la storia repubblicana.
La
riforma del Senato è soltanto l'ultimo tassello di un processo, che
va avanti da 15 anni, il quale sospende il diritto repubblicano e si
inserisce in una fase di eccezione legislativa che esula dai
principi e dai caratteri fondanti dello Stato italiano. Con l'inizio
di questa fase è stata avviata la transizione da un regime
rappresentativo, che presuppone la dialettica tra i vari gruppi
sociali e politici, a uno autocratico, che tende ad semplificare le
procedure deliberative ed eliminare del tutto quella dialettica per
imporre la volontà esclusiva di certi
gruppi. La logica non è più quella del compromesso e della
mediazione, di equilibrio delle diverse istanze (come in tutti i
sistemi rappresentativi) ma di esecuzione della volontà di
un'oligarchia su tutte le altre e richiesta di maggiore efficienza
del processo deliberativo inteso come mera applicazione di questa
volontà. Ovviamente, nell'attuale contesto, lo stato di
eccezione è indirizzato dalle istanze dei gruppi economici che
lo dirigono e non certo da quelle di movimenti popolari.
In
un tale scenario, la fine di questo stato di eccezione può
essere quindi provocata o da un ripristino del diritto preesistente e
dei principi costituzionali formalmente ancora in vigore (scenario
che pare, attualmente, assai improbabile) oppure dalla
istituzionalizzazione di quelle procedure che oggi si manifestano in
un quadro di eccezionalità e di diritto dittatoriale. Ovvero il
definitivo passaggio verso una forma pienamente e compiutamente
autocratica di governo.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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