Secondo un recente sondaggio l'Italia è
ormai il paese più euroscettico dell'eurozona; la maggioranza degli
italiani non nutre molta fiducia nella moneta unica e auspicherebbe
un ritorno a una valuta nazionale. Uno scenario ribaltato rispetto a
qualche anno fa in cui il nostro paese era considerato tra i più
entusiasti dell'unione monetaria. Contemporaneamente si sta
assistendo a un analogo slittamento del ceto dirigente da una difesa
sempre più tiepida a una vera e propria critica dell'euro che in
alcuni casi giunge al punto da auspicarne la fine. Il Movimento
Cinque Stelle, dove già da qualche tempo serpeggiavano posizioni
sovraniste, ha abbracciato ormai apertamente la campagna anti-euro,
mentre la Lega Nord di Salvini, che guadagna consensi nei sondaggi,
ha fatto dell'opposizione a Bruxelles il proprio cavallo di
battaglia. Persino nel PD, partito tradizionalmente pro-euro, si
fanno largo posizioni sempre più critiche nei confronti dell'area
valutaria europea.
Sta diventando chiaro ai più che
l'euro così com'è non può reggere a lungo. La rigidità dei
vincoli impedisce agli stati di reagire con efficaci politiche
anticicliche al collasso economico sempre più incombente. Del resto
una riforma o revisione dei trattati appare improbabile, perché si
scontrerebbe con gli interessi della casta finanziaria e del governo
tedesco, che sono quelli che dettano la linea delle politiche
economiche europee. Una riforma dell'eurozona che possa sortire
qualche effetto significativo dovrebbe somigliare più a una
rivoluzione. Per cominciare agli stati dovrebbero essere concessi
limiti di deficit molto più alti di quelli attuali, attraverso i
quali ciascun governo possa aumentare la spesa pubblica e ridurre le
tasse, in modo da rilanciare la domanda. Per non parlare di misure
ancora più rigide, come il Fiscal Compact, che andrebbero
semplicemente abolite. Del resto questo provvedimento potrebbe non
essere sufficiente per i paesi mediterranei, a causa degli svantaggi
competitivi dovuti al cambio fisso. Questo mette costantemente fuori
mercato le merci dei paesi dell'Europa del Sud che sono privi della
leva valutaria e si trovano così costretti a ridurre il costo del
lavoro alimentando la spirale deflazionistica. Perciò si
richiederebbe l'ideazione di meccanismi correttivi che trasferiscano
risorse dai paesi più competitivi a tutti gli altri. Ma pensare che
la Germania accetti misure del genere, andando a minare il proprio
vantaggio competitivo, appare lontano da qualsiasi realismo.
Sicuramente la deflazione dell'eurozona danneggia la stessa industria
tedesca, la quale vede calare la domanda dei paesi europei che
costituiscono la maggior parte del suo mercato. Ma piuttosto che
accettare correttivi del genere, politicamente poco digeribili, tanto
varrebbe per il governo della Merkel tornare al marco e accettare una
rivalutazione.
Si potrebbe pensare che la BCE potrebbe
ricorrere nuovamente al “whatever it takes” di Draghi, per
salvare la moneta unica ed essere disposta a fare concessioni prima
impensabili. Ma perché questi siano più di semplici palliativi che
si limitino soltanto a rimandare la questione di pochi mesi,
occorrerebbe che la Banca Centrale invece di continuare a prestare
soldi alle banche, alimentando bolle finanziarie, intervenisse come
“prestatore di ultima istanza”, finanziando, invece, gli stati.
Ma per far questo dovrebbe modificare in misura rilevante il proprio
statuto. L'unione monetaria sembra un congengo ideato proprio per
evitare qualsiasi cambiamento radicale. Essa è una burocrazia
verticistica priva di qualsivoglia controllo democratico dominata da
un ceto che si ostina a seguire teorie macroeconomiche palesemente
errate e smentite dai più autorevoli studi scientifici, oltre che
dal riscontro empirico. Dall'epoca dei Trattati di Maastricht, che ne
hanno sancito l'inizio, ad oggi, nulla è mutato, se non in un
ulteriore irrigidimento di norme folli e senza alcuna logica
economica. Credere che un manipolo di burocrati che finora non ha
fatto altro che decantarne le lodi possa all'improvviso sconfessare
la propria creatura, vuol dire non avere alcuna cognizione della
realtà.
Mentre i sacerdoti dell'euro continuano
a oliare la macchina della propaganda (sebbene una così larga fetta
di opinione pubblica sia contraria alla moneta unica sui media
mainstream quasi mai si accenna a un dibattito serio sul tema) e a
proporre astrusi palliativi di nessuna o scarsa efficacia, nei paesi
più colpiti dalla crisi monta il malcontento. In Francia già da
diversi mesi il Front National di Marine Le Pen è in testa ai
sondaggi e non ha mai nascosto che se vincesse le elezioni guiderebbe
il paese transalpino fuori dall'euro. In Grecia Syriza sembra avere
buone possibilità di vincere le elezioni e si rifiuta di applicare
ulteriori misure di austerità e secondo qualcuno potrebbe anche
decidere di tornare alla dracma. In Spagna i due partiti storici di
potere, il Partito Popolare e il PSOE, attraversano un'emorragia di
consensi senza precedenti, a tutto vantaggio della neonata coalizione
di PODEMOS, già primo partito iberico, che prevede nel proprio
programma l'abbandono dell'eurozona e la cessazione di tutte le
politiche di austerità. Insomma, sembra che sempre più la domanda
sulla possibile fine dell'euro non sia se, ma quando.
In tutti questi paesi, comunque, a
guidare la rivolta sovranista sono partiti che hanno allo stesso
tempo rigettato le politiche liberiste promosse in questi anni e
propongono programmi con una forte impronta sociale. In Italia,
invece, la questione è più complessa.
I partiti che si oppongono
ufficialmente all'euro sono il Movimento Cinque Stelle e la Lega
Nord; ad essi va aggiunta qualche voce della minoranza del PD. Di
questi, il primo non mostra di avere le idee molto chiare circa le
politiche da adottare in caso di ritorno alla Lira. Casaleggio ha
affermato qualche tempo fa di voler tagliare la spesa pubblica,
mentre Grillo pare riproporre le stesse teorie dell'avanzo primario
che hanno devastato l'Italia, ma con una moneta diversa. Questo
partito non sembra voler proporre un deciso affrancamento dalle
politiche neoliberali che in questi anni hanno clamorosamente
fallito, come del resto testimonia la scelta di allearsi, a livello
europeo, col partito ultra-thatcheriano dell'UKIP di Nigel Farage.
D'altro canto non pare esserci, nei Cinque Stelle, una proposta
coerente di politica economica, ma si procede per suggestioni, spesso
contraddittorie. Lo stesso cavallo di battaglia del “reddito di
cittadinanza” rischia di essere seriamente controproducente, in
quanto garantirebbe un reddito improduttivo, che cioè non crea
occupazione e che sarebbe perciò soltanto foriero di inflazione. La
Lega Nord, invece, una proposta ce l'ha. Però, anch'essa, non fa che
rispolverare vecchie ricette neoliberali di epoca reaganiana, con una
obsoleta “flat tax” (ovvero aliquota unica) che dovrebbe produrre
crescita del PIL. Nella crisi economica più lunga da oltre un
secolo, limitarsi a ridurre le tasse non produrrebbe gli effetti
sperati. Peraltro, facendolo con un metodo iniquo, ovvero abolendo la
progressività della tassazione, cosa che, oltre ad essere
incostituzionale, avrebbe scarsi effetti sui consumi, porché
avvantagerebbe principalmente i ceti più abbienti. Gli unici
approcci che si avvicinano ad essere keynesiani si trovano nella
minoranza del PD. Ma sarebbe credibile che un partito che ha
traghettato l'Italia nell'euro, e che si è fatto promotore delle
politiche di austerità (da Ciampi a Prodi) possa gestire
un'“eurexit” e un rovesciamento dei paradigmi economici finora in
voga?
È necessario, infatti, non solo
interrogarsi sull'eventualità di un'uscita dall'euro, ma anche sulle
modalità della sua gestione, e sul tipo di politica da adottare con
il ritorno a una sovranità monetaria. Se si guarda al passato
recente, quello che accadde all'Italia nel '92 può essere un'utile
lezione. Anche allora l'Italia aderiva a un'unione monetaria, lo SME.
In quell'anno lo SME crollò, per l'impossibilità di mantenere un
tasso di cambio fisso tra le monete, ma i governi non mutarono
politiche e applicarono misure di austerità, tutte volte a ridurre i
deficit di bilancio e il debito pubblico, a forza di privatizzazioni,
tasse e tagli della spesa pubblica. Nonostante il boom delle
esportazioni delle aziende italiane, le quali godettero del
riallineamento del cambio, la crescita italiana fu fortemente frenata
da quegli interventi. Fu così che si arrivò al Trattato di
Maastricht e all'euro che diedero la mazzata finale all'economia
italiana, un'economia fino ad allora, nonostante tutto, e a dispetto
di quanto dicono certi “moralizzatori” della finanza pubblica,
tra le prime in Europa e nel Mondo.
Quello che bisogna capire è che l'euro
è stata una scelta sciagurata dei ceti dirigenti e una imperdonabile
leggerezza degli italiani che si sono lasciati trascinare in questa
follia credendo a tutta la favolistica inventata dei media. Ma pensare
che la sua fine produrrà magicamente benessere e progresso vuol dire
svegliarsi da un sogno per cader vittime di un altro. Finché non si
recupera non solo la sovranità monetaria, ma anche un approccio in
politica economica che rimetta al centro lo Stato, sarà impossibile
che l'Italia torni a essere una delle principali economie del
continente. Il primo e importante passo da compiere, per ribaltare il
paradigma politico-economico finora in voga, sarebbe quello di
potenziare la spesa pubblica e non, come una volgare pubblicistica
induce a fare, tagliarla, ridurla, “riqualificarla”, o qualsiasi
altro sinonimo vogliamo utilizzare. Lo Stato dovrebbe invece attuare
un piano per la piena occupazione, che intervenga per assegnare un
impiego pubblico ai disoccupati. Una riduzione delle tasse
(soprattutto indirette) che è senz'altro auspicabile, produrrà
scarsi o nulli benefici se non è preceduta da un potenziamento della
spesa pubblica che la riporti ai livelli che merita un paese civile.
Uscire dall'euro è doveroso, ma non basta. È solo la precondizione
per attuare una rivoluzione copernicana della finanza pubblica che
recuperi i principi dello Stato keynesiano produttore di redditto e
di ricchezza. L'unico vero strumento contro la crisi.
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