È sicuramente un
fatto positivo che il dibattito sull'euro abbia fatto il suo
ingresso, anche se non propriamente trionfale, nei grandi media
italiani, e che l'opinione pubblica italiana sia diventata sempre più
critica nei confronti della moneta unica al punto di auspicarne
l'abbandono.
È positivo che si
ponga finalmente la questione della sovranità nazionale, così a
lungo ignorata dalle sciocche diatribe di una politica misera e
provinciale. Ma occorre, anche, mettere in guardia da facili e
pericolosi corto circuiti all'interno del “movimento sovranista”
(ammesso che possa essere definito movimento quella variegata e
contraddittoria area cui inscrivere chi, con posizioni politiche
anche molto differenti, auspica il recupero della sovranità da parte
dello Stato).
Non bisogna farsi
illusioni: l'uscita dall'euro non assicurerebbe automaticamente alcun
beneficio al paese che decidesse di attuarla. Se non congiunta ad una
politica di radicale rottura rispetto agli ultimi due decenni
rischierà di tramutarsi soltanto in una aggiornata versione
dell'egemonia neoliberale e del dominio assoluto del capitalismo in
Europa. Insomma, l'uscita dall'euro è condizione necessaria ma non
sufficiente per una decisa inversione rispetto alla politica
economica attuale e alla subalternità a voleri transnazionali.
Occorre perciò prendere le distanze da quei partiti, da quei
movimenti e da quei soggetti che propongono il ritorno a una moneta
nazionale, ma senza articolare questa proposta in un diverso modo di
intendere l'intervento dello Stato nell'economia come nelle questioni
internazionali. Il Movimento Cinque Stelle, almeno nella sua parte
più vicina a Grillo, ha incarnato questo pericolo per un certo
periodo; l'uscita dall'euro veniva proposta senza coerenza e
consapevolezza, senza mettere in discussione, di fatto, in alcuni
casi, le politiche di austerità e il dogma dell'avanzo primario,
anche se nella base, bisogna riconoscere, non manca chi tenta il
recupero delle teorie keynesiane. In ogni caso, l'infatuazione per
Grillo e i suoi sembra stia ormai scemando, sostituita da una nuova
infatuazione, quella per la Lega Nord di Salvini, opportunamente
rispolverata. Abbandonati i vecchi cavalli di battaglia del
federalismo e del regionalismo, la Lega ha deciso di presentarsi come
forza di opposizione rispetto all'establishment europeo e all'unione
monetaria. Tuttavia, questa presa di posizione non sembra aver mutato
i vecchi propositi della Lega, ovvero quello di indebolire lo Stato
centrale, favorendo le imprese del nord. Nessuna intenzione traspare,
dal programma leghista, di aumentare la spesa pubblica, né di porre
in atto una legislazione favorevole al lavoro o che, per lo meno, tenti di ripristinare una situazione precedente alla Riforma Treu. E
del resto la Lega ha preso parte a quei governi di centrodestra che,
al pari di quelli di centrosinistra, hanno attuato interventi
regressivi e dannosi per le classi medio-basse, come è il caso della
“Legge Biagi” o della Riforma Maroni sulle pensioni,
anticipazioni di sciagurate riforme successive volte a distruggere il
sistema pensionistico pubblico (ultima la Legge Fornero). Pare perciò
improbabile che la Lega, che non ha mai fatto mostra di rinnegare o
criticare la sua esperienza di governo, cerchi di smantellare
quell'impianto di leggi che essa stessa ha promosso e di andare in
direzione contraria. Piuttosto potremmo assistere a una
riproposizione di quelle politiche del governo Berlusconi, per certi
versi anche radicalizzate. E lo dimostra la proposta di Claudio
Borghi, responsabile economico della Lega, di istituire la cosiddetta
“flat tax”, ovvero un'aliquota unica sui redditi uguale per
tutti. Ciò sarebbe innanzitutto una grave violazione (l'ennesima, ma
non per questo meno grave) della nostra Carta Costituzionale, che
sancisce a chiare lettere all'articolo 53 la progressività dei
tributi. Ma, a parte questo fatto non secondario di natura giuridica,
la proposta avrebbe conseguenze pericolose anche sul piano sociale ed
economico. Non solo perché un intervento del genere, di chiaro
impianto neoliberista e tatcheriano, inasprirebbe le diseguaglianza
su cui già pesa la crisi in corso, ma anche perché non farebbe che
avvantaggiare i ceti più abbienti, senza incentivare la domanda e
permettere una ripresa dei consumi. È evidente che una tassazione
non progressiva sul reddito va a nocumento dei ceti più poveri, i
quali non avranno grandi benefici e quei pochi che avranno non
saranno in grado di innescare una crescita della domanda interna. In
questo modo, il riallineamento del cambio e l'alleggerimento fiscale
anche per le imprese potrebbe anche produrre una crescita di PIL sul
breve periodo, ma andrebbe ad avvantaggiarsi solo il settore delle
esportazioni, senza ripercuotersi positivamente sui consumi interni.
La mancanza di una legislazione a tutela del lavoro vedrebbe sempre
una competizione al ribasso sui salari e, finita una prima fase di
possibile boom dell'export, sull'occupazione. Non è certo questo il
modo migliore di contrastare la disoccupazione. Una riduzione delle
tasse sarebbe benefica solo se si concentrasse soprattutto sulle
imposte indirette (IVA, accise, ecc.) che gravano sulle fasce più
deboli, e perciò sui consumi, molto di più che su quelle più
agiate. Un intervento di detassazione dei redditi può altresì
risultare benefico solo se non rinuncia al principio di
progressività. Ma soprattutto una defiscalizzazione deve essere
accompagnata, per risultare efficace, da un significativo incremento
della spesa pubblica. Solo un intervento diretto dello Stato,
infatti, può invertire il ciclo economico, poiché, come è noto, in
una fase di contrazione dell'economia il privato tende a non
investire. Urgono investimenti pubblici volti a ridurre la
disoccupazione, aumentare le retribuzioni e interrompere la crisi di
domanda che è causa della recessione del nostro paese. Tutto ciò
sembra trascurato dalla Lega, che propone un recupero di una valuta
nazionale, ma senza inquadrarla in una più vasta visione della
politica economica, la quale invece deve essere improntata, pena il
fallimento di qualsiasi governo dell'economia, alle teorie
keynesiane. Sebbene Borghi abbia fatto appello al principio della
piena occupazione, non si capisce in che modo questo debba essere
attuato in base al programma della Lega. Rischia piuttosto di
risolversi in un mero slogan, una trovata di marketing elettorale di
nessun valore politico reale. Viene il sospetto che la polemica
antieurista e antieuropeista della Lega sia usata principalmente in
funzione anti-immigrazione, per scaricare le tensioni e la rabbia
popolare sugli extracomunitari innescando una guerra tra gli ultimi
della scala sociale, siano essi italiani o stranieri, ed impedendo
quindi che questo malcontento possa rivolgersi alle cause e alle
élite responsabili del presente stato di cose.
Manca la
consapevolezza, nell'area sovranista, dello scenario complessivo,
nazionale e internazionale; è più che evidente, o per lo meno
dovrebbe esserlo, che un ritorno alla lira, che però non metta in
discussione i trattati europei, il Patto di Stabilità, il Fiscal
Compact, e via dicendo, condannerebbe qualsiasi governo al
fallimento. Non solo perché esporrebbe il nostro paese ai ricatti
dei mercati finanziari, che abbiamo già visto produrre tristi
conseguenze con la crisi (pianificata) dello spread (che fu
all'origine di un colpo di stato in piena regola) ma anche perché
vanificherebbe le potenzialità della moneta di Stato, ponendo i
vincoli di bilancio un forte freno a qualsiasi politica anticiclica.
Non a caso i paesi che meno hanno sofferto la crisi, come Germania e
Gran Bretagna, sono quelli che meno hanno rispettato tali vincoli e i
più colpiti (i cosiddetti PIIGS) quelli che più vi hanno tenuto
fede. Il rigetto dell'euro non può pertanto essere disgiunto dal
rigetto dell'Unione Europea, quest'organismo antidemocratico che
priva gli stati della loro sovranità.
Un'altra
caratteristica comune a molti sovranisti è quella di voler spesso
ridurre la sovranità a una questione meramente monetaria, quando
invece essa è solo il risultato di una complessità di fattori e di
poteri attribuiti allo stato. La moneta è sicuramente uno di questi,
ma non l'unico. Non bisogna sottovalutare la necessità di un
ordinamento legislativo che permetta al Governo centrale e al
Parlamento di amministrare la società. In questo senso non è
certo di aiuto la deriva federalista che ha caratterizzato il nostro
paese, la quale ha esautorato lo Stato di molti dei suoi poteri inasprendo tra l'altro i divari tra le diverse aree della Penisola,
come è avvenuto con la Sanità regionalizzata. Ma un analogo
discorso può valere per le autonomie di istituzioni che dovrebbero
essere poste sotto il controllo dell'organo esecutivo, come la Scuola
e l'Università, e che invece sono lasciate al loro destino, allo
scopo probabile di aprire la strada a future privatizzazioni. Proprio
le privatizzazioni sono una delle cause della perdita di sovranità
del nostro paese, il quale ha visto uno sconvolgente liberismo
travolgere i patrimoni nazionali e distruggere le cosiddette
“partecipate”. Lo Stato è servito ai capitalisti solo per sanare
le perdite, scaricate sulla collettività, in modo tale che l'investitore privato potesse godere dei profitti, spesso senza fare
investimenti o anzi disinvestendo. Per cui, la sovranità non può
non passare per una (ri)nazionalizzazione di importanti comparti
produttivi, quelli privatizzati (trasporto ferroviario, energia,
autostrade, servizi, ecc.) come quelli travolti da un ondata di
licenziamenti, tagli delle retribuzioni e delocalizzazioni (si pensi
all'industria automobilistica).
Per
finire, ma non meno importante, il recupero della sovranità non può
prescindere da una matura coscienza geopolitica. L'Italia dovrebbe
rompere subito l'alleanza-sudditanza nei confronti degli Stati Uniti,
uscendo dalla NATO e chiudendo le basi militari americane, ponendo
così fine a un'occupazione ormai pluridecennale. Senza una saggia
politica di alleanze nessun paese è libero da ingerenze esterne. E
l'Italia non potrebbe certo cercare nuovi alleati ospitando sul
proprio territorio basi militari statunitensi. Come potrebbe,
infatti, un forte alleato non allineato all'egemonia americana (che
sia la Russia o la Cina o altri dei cosiddetti BRICS) fidarsi di un
governo che è costretto a fornire supporto alle operazioni belliche
nordamericane, spesso osteggiate da quei paesi? Senza libertà da
vincoli militari esterni nessun paese può istituire una rete
vantaggiosa di rapporti internazionali ed essere quindi veramente
indipendente. La sovranità, dunque, va conquistata non solo sul
piano monetario, ma anche su quello economico, legislativo, militare
e, non meno degno di riguardo, culturale, perché l'egemonia di un
pensiero neoliberale e atlantista è una piaga che ormai affligge il
nostro paese da lungo tempo. Il venir meno di uno, o più, di questi
fattori, può compromettere seriamente la riuscita di un progetto di
riconquista della sovranità. Hanno chiaro tutto ciò i sovranisti e
quanti criticano astrattamente “l'Europa”? Purtroppo ci sono
buone ragioni per dubitarne.
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