I paesi occidentali hanno una posizione
molto ipocrita nei confronti degli extracomunitari, sia gli
“immigrazionisti” che gli “anti-immigrazionisti”. Gli uni,
infatti, diffondono una mistificante retorica del migrante in nome di
un cosmopolitismo astratto e, di fondo, individualista, dimentico
delle reali condizioni in cui queste persone sono costrette a vivere.
Gli altri invece dimenticano i secoli di guerre, oppressione e
colonialismo (tutt'ora in corso) che si è imposto al cosiddetto
“Terzo Mondo”. Se molti paesi sono in una condizione di
sottosviluppo la colpa è anche (soprattutto!) nostra (Italia
compresa), che abbiamo imposto, militarmente o economicamente, gli
interessi del nostro capitalismo su scala mondiale. Solo per questo
gli “anti-immigrazionisti” dovrebbero avere un atteggiamento più
tenero nei confronti degli immigrati.
Coloro che vogliono bloccare i flussi
migratori sostengono che l'immigrazione avrebbe causato quello che
viene chiamato dagli economisti “dumping salariale” cioè una
corsa al ribasso dei salari nel paese di arrivo, poiché i nuovi
arrivati si sarebbero accontentati di condizioni di lavoro nettamente
inferiori. Un'altra tesi che viene solitamente avanzata da costoro è
quella che gli extracomunitari toglierebbero posti di lavoro per gli
italiani,
Entrambe queste tesi, come cercherò di
dimostrare, sono errate.
Per capirlo, facciamo due diverse
ipotesi di lavoro. Nella prima immaginiamo un'economia che va bene,
con un alto tasso di occupazione, alti salari, crescita, ecc. Nella
seconda ipotesi faremo invece il caso di un'economia che va male,
quindi recessione, disoccupazione, bassi salari.
Immigrazione in un ciclo economico
espansivo
Prendiamo il primo caso e immaginiamo
vi affluisca una massa di manodopera esterna al sistema. Questa
manodopera crea una domanda di beni e servizi. Quindi ci sarà un
aumento (indipendente da fattori interni) della domanda aggregata.
Siccome siamo in un'economia che va bene, vi sarà una crescita della
domanda di lavoro da parte delle imprese a cui corrisponde la
crescita della domanda di beni e servizi. Anche se le imprese
copriranno la domanda in eccesso assumendo solo lavoratori
immigrati, non si avrebbe nessun “furto” di lavoro. Perché
quella accresciuta domanda di lavoro da parte delle imprese è dovuta
a un'accresciuta domanda di beni e servizi che a sua volta deriva da
un aumento demografico. Se non ci fosse stato quel “sovrappiù”
di popolazione straniera che avesse prodotto un “sovrappiù” di
domanda di beni e servizi, le imprese non avrebbero risposto con una
maggiore richiesta di lavoro rispetto all'andamento ciclico del
sistema. Di conseguenza, tanti occupati italiani c'erano prima e
tanti occupati italiani ci sono ora (e altrettanti disoccupati).
Anzi, nel caso in cui, invece, come più probabile, la domanda di
lavoro da parte delle imprese dovuta all'aumento demografico fosse
assorbita da lavoratori italiani, oltreché stranieri, questa
situazione porterebbe a un aumento occupazionale dei lavoratori
italiani rispetto all'andamento ciclico del sistema. Gli italiani
dunque, in una situazione di crescita economica, beneficerebbero di
un aumento occupazionale grazie all'immigrazione. Ma che effetto
avranno i salari? Essi diminuiranno a seguito delle richieste più
“esigue” della manodopera straniera? Abbiamo detto che siamo in
un ciclo di crescita. Dunque i livelli salariali tendono ad aumentare
con l'occupazione. Poiché abbiamo visto che i livelli occupazionali
complessivi (di italiani più immigrati) non mutano a causa
dell'immigrazione (anche se possono beneficiarne gli italiani) non si
capisce perché dovrebbero mutare i livelli dei salari. Esiste, al
contrario, una ragione politica, e una economica, perché essi
debbano restare immutati rispetto all'immigrazione. Quella politica è
che in un contesto di bassa (o nulla) disoccupazione il potere
contrattuale dei lavoratori è alto. Quindi i salari tendono a essere
alti. Di conseguenza, esisteranno vincoli contrattuali che
inseriranno gli stessi immigrati in un meccanismo di tutele
(sindacali o giuridiche) in modo che questi non potranno abbassare il
costo del lavoro. Ma esiste anche una ragione economica. E cioè che
in un tale contesto la domanda di lavoro è in eccesso rispetto
all'offerta, perciò il prezzo del lavoro sarà alto. Poiché abbiamo
visto che l'immigrazione non muta i livelli occupazionali, i salari
degli immigrati non si abbasseranno, ma si manterranno allo stesso
livello precedente il flusso migratorio.
Dunque, possiamo concludere, che in
un'economia in crescita l'immigrazione non causa nessun danno e
nessuno squilibrio né al livello dell'occupazione, né rispetto a
quello dei salari. I lavoratori “autoctoni” non saranno
danneggiati in alcun modo, ed anzi è probabile che se ne
avvantaggino sul piano occupazionale.
Immigrazione in un ciclo economico
recessivo
Ma cosa succede se, invece, l'economia
non si trova in una fase di crescita, ma in una di stagnazione o
recessione, con bassa occupazione e bassi salari, come è quella
attuale?
Già in base al ragionamento fin qui
svolto potremmo concludere che le tesi degli anti-immigrazionisti
sono almeno parzialmente errate in ogni caso, poiché quest'ultimo
stadio negativo dell'economia non può essere causato da flussi
migratori. Abbiamo appena dimostrato, infatti, che l'immigrazione in
una fase espansiva non può abbassare né i livelli occupazionali né
i salari. Perciò, se da una fase espansiva, si passa a una
recessiva, si dovranno cercare altre cause.
Ma, si potrà comunque pensare che
l'immigrazione possa aggravare una situazione già compromessa
dell'economia. Cosa avviene, occorre perciò domandarsi, se in una
fase che già di per sé è recessiva, si introduce un flusso
migratorio?
Proviamo ad analizzare i dati. La
disoccupazione è alta e i salari in calo. L'eccesso di offerta di
lavoro dovuto agli immigrati, dobbiamo chiederci, verrà si o no
assorbito dalla domanda di lavoro delle imprese (come abbiamo visto
avvenire in una fase di crescita)? In questo contesto recessivo le
imprese tendono a non investire e quindi a non assumere. Quindi il
maggiore afflusso demografico non sarebbe compensato dall'offerta di
lavoro, e la disoccupazione complessiva (cioè di immigrati più
italiani insieme è bene non dimenticarlo!) tenderà ad aumentare.
Tuttavia, non si potrà dire che gli “autoctoni” abbiano perso il
lavoro a causa degli immigrati. L'aumento della disoccupazione è
soltanto dovuto a un incremento demografico, non ad un maggior numero
assoluto di disoccupati italiani. La condizione di questi ultimi
resterà immutata. Cosa accadrà ai salari? Si potrebbe pensare che
aumentando la disoccupazione (dovuta all'afflusso demografico) essi
si riducano. E senz'altro questa parrebbe una conseguenza plausibile
perché il divario tra domanda e offerta di lavoro si allargherebbe e
il prezzo del lavoro scenderebbe. Inoltre bisogna considerare un
fattore. L'immigrato, che proviene da un contesto socio-economico
diverso, può darsi che richieda un differente trattamento salariale.
E quindi le imprese potrebbero, dato il ciclo a bassi investimenti,
decidere di licenziare lavoratori italiani (più costosi) e assumere
lavoratori extracomunitari per ridurre le spese. E anche questo
sembrerebbe plausibile. Dunque, dovremmo concluderne che gli
anti-immigrazionisti hanno in parte ragione, perché – seppure i
flussi migratori non possono causare di per sé recessione – in una
fase già recessiva possano aggravare la situazione?
In realtà si rischia di fraintendere
la questione se non si individua il contesto globale della
recessione, qual è quello attuale. Questo che abbiamo ipotizzato
accadrebbe in quello che viene chiamato un “sistema chiuso” e
sostanzialmente omogeneo. Ma cosa accade in sistemi aperti non
omogenei, cioè dove si hanno diversi livelli di reddito, di
occupazione e di crescita economica? Cosa accade cioè, se invece di
limitarci a un unica nazione, consideriamo un intero continente, o
addirittura l'intera popolazione mondiale? Accade che le condizioni
di una data area condizionano quelle di un'altra. È quella che viene
chiamata “globalizzazione”. Ogni azienda si trova a concorrere
con quella all'altro capo del pianeta, per questo, se i salari della
prima saranno più bassi della seconda, anche quest'ultima sarà
costretta a ridurli, altrimenti viene tagliata fuori dal mercato.
Stessa cosa per l'occupazione. Se i livelli delle retribuzioni sono
più bassi in un paese diverso da quello di origine, un'azienda vi si
potrà spostare, rilocalizzando comparti produttivi. In sostanza
l'effetto è lo stesso che si avrebbe dall'introduzione di lavoratori
stranieri in un sistema chiuso durante un ciclo recessivo. Con una
fondamentale differenza: che questa condizione è permanente, perché
permangono sempre forti squilibri tra le diverse aree del pianeta. Di
conseguenza, anche se sparissero tutti gli immigrati, in questo
contesto, le aziende non assumerebbero lavoratori italiani, ma
procederebbero molto più realisticamente a delocalizzare la
produzione. Ma anche qualora un'azienda decidesse di non spostarsi, e
di assumere forza lavoro straniera, si troverebbe comunque a dover
competere con altre aziende che possono reperire forza lavoro a un
costo ancora più basso perché, come dicevamo, si tratta di aree non
omogenee. Avranno anche un vantaggio decisivo: che mentre restando
nel proprio paese la manodopera a basso costo è limitata dall'entità
dei flussi migratori, spostandosi essa è illimitata, e questo ne
ridurrà ulteriormente il costo. Perciò, in questo contesto
“globalizzato”, anche in una situazione recessiva gli effetti
dell'immigrazione sull'economia e sull'occupazione sono nulli, perché
la competizione è comunque su scala internazionale. Siamo già in
grado di capire, dunque, che gli effetti destabilizzanti non sono
causati dall'afflusso di forza lavoro straniera in un dato paese, ma
dall'internazionalizzazione della produzione e degli scambi.
Qualsiasi intervento che volesse
limitare i flussi migratori sarebbe perciò inutile sul piano
economico. Sembra, altresì, che l'attenzione posta sulla questione
migratoria, distragga dal vero problema, ovvero, appunto, la
“globalizzazione” dovuta alla liberalizzazione totale dei
mercati, e a normative sovranazionali penalizzanti per il lavoro;
come, solo per citarne una, la Direttiva Bolkenstein, che autorizza
un'azienda straniera nel campo dei servizi a mantenere le regole
contrattuali del paese di origine.
Solo, dunque, un intervento da parte
dello stato, teso a ripristinare la propria autorità sul territorio
in ambito economico, potrebbe porre un freno a una situazione che
pare incontrollabile.
Si dovrebbe procedere su due piani: da
una parte quello legislativo, vincolando le aziende straniere alle
normative contrattuali del territorio in cui si trova. Dall'altra su
quello economico, sostenendo, con una politica fiscale espansiva, la
domanda interna, in modo da permettere alle aziende di poter trovare
sbocco alla propria produzione entro i confini nazionali, senza
l'ossessione delle esportazioni. Questo, e non il controllo delle
dogane, fermerebbe la peggiore forma di immigrazione: quella degli
squilibri esterni.
Inoltre, il sostegno della domanda per
mezzo di una fiscalità espansiva, provocherebbe la fine della
recessione, perché la domanda interna tornerebbe a crescere e si
avvierebbe una nuovo ciclo positivo dell'economia. Nel quale, come si
è visto, l'immigrazione non causa alcun problema.
Fondi per lo sviluppo o
immigrazione?
Gli
anti-immigrazionisti sostengono che invece di permettere l'arrivo di
extracomunitari bisognerebbe sostenere lo sviluppo dei paesi dai
quali provengono, in modo da creare le condizioni perché non siano
più costretti a emigrare.
Tuttavia questa prospettiva appare di
difficile applicazione. I paesi industrializzati destinano
percentuali ridicole del loro PIL alle aree sottosviluppate e i
politici, che devono rispondere ai cittadini che li votano, non hanno
alcun interesse ad aumentarle in maniera significativa. Non è un
caso che anche i politici anti-immigrazionisti che vanno predicando
questa tesi non abbiano fatto nulla di concreto perché ciò
avvenisse. Se destinassimo percentuali importanti del nostro PIL allo
sviluppo (2-3% e anche più) è probabile che ci sarebbe una levata
di scudi da parte di quegli stessi che ora lo sostengono, denunciando
un presunto “spreco di soldi pubblici”.
Ma anche se si riuscisse a destinare
una parte significativa della nostra ricchezza a questo fine ciò
potrebbe rivelarsi controproducente, perché potrebbe rendere le
economie dei paesi sottosviluppati ancora più dipendenti dalle
nostre, avallando un neo-colonialismo che non ha mai portato
vantaggi.
Si potrebbe pensare che per aiutare i
paesi dei migranti si potrebbero istituire accordi per elevare le
tutele del lavoro e i livelli salariali. Ma non si capisce in che
modo questo dovrebbe avvenire. Come si fa a imporre a un paese
straniero delle normative? Appare difficile pensarlo.
Per capire come aiutare le nazioni
sottosviluppate bisogna comprendere quali sono le cause del loro
sottosviluppo. Senza addentrarci in un complesso dibattito, diciamo
solo che ciò che ha impedito un progresso industriale, economico e
sociale in questi paesi è stato proprio l'intervento dell'Occidente
nella loro economia e nella loro politica. Si sono imposte a queste
nazioni liberalizzazioni selvagge dei loro mercati per l'interesse
delle nostre multinazionali, che hanno distrutto le produzioni
locali. Inoltre ogni qual volta che il ceto politico dirigente locale
cercava di emanciparsi e di realizzare politiche pubbliche espansive
i governi occidentali sono intervenuti a impedirglielo, finanziando
guerre e colpi di stato. L'idea degli “aiuti” allo sviluppo più
che un'occasione di crescita per questi paesi appaiono più come un
modo per “lavarsi la coscienza” degli occidentali che hanno
creato la miseria di coloro che ora pretendono aiutare. L'unico modo
per “aiutarli a casa loro” è quello di smettere di esercitare
pressioni politiche sui loro governi, costringere le nostre
multinazionali a non finanziare conflitti locali, e istituire accordi
internazionali per la protezione (invece che la liberalizzazione) dei
mercati di queste aree. I fondi per lo sviluppo sono la versione “dal
volto umano” del colonialismo. Pensare che da soli questi paesi non
siano in grado di risollevarsi. Lo sarebbero, se noi li lasciassimo
in pace rispettando il principio di autodeterminazione.
Ma quello che più ci preme in questa
sede è capire se l'immigrazione possa essere o meno vantaggiosa per
i paesi di origine.
Innanzitutto bisogna considerare la
morfologia del territorio urbano delle aree considerate. Questo è
carente di attività produttive, soprattutto industriali, e presenta
una rete infrastrutturale insufficiente. In queste condizioni l'unico
modo per creare un ciclo economico espansivo è l'impiego di ingenti
capitali pubblici, perché i privati non investirebbero mai in
settori ad alto rischio. Spesso i governi non sono in condizione di
farlo, e perché ostaggio delle multinazionali straniere, e perché i
conflitti continui non rendono possibile lo sviluppo, e perché
patiscono una dipendenza monetaria (con una valuta a tasso fisso
rispetto a un'altra valuta straniera) e non sono liberi di attuare
politiche economiche espansive, e per ignoranza.
Ad aggravare la situazione è la
condizione demografica. Per un paese in crescita costante la
sovrappopolazione non rappresenta un grosso problema (o al più un
problema temporaneo) perché
la popolazione in eccesso sarà
destinata ad essere assorbita dall'incremento produttivo. Ma per un
territorio con gravi carenze infrastrutturali e un apparato
produttivo ai minimi termini non è così. La sovrappopolazione
rappresenta in questo caso un serio problema.
Ma veniamo ora al punto che ci
interessa. Quando una parte della popolazione in eccesso di questi
paesi emigra senz'altro sgrava la restante di un peso. Perché crea
le condizioni per un miglior rapporto popolazione/risorse. Dato che
queste ultime restano più o meno costanti, o non aumentano almeno
quanto la popolazione, una decrescita demografica può senz'altro
alleviare gli effetti della deficienza produttiva. Essa favorisce una
migliore allocazione delle risorse, permettendo una maggiore quantità
di beni e servizi disponibili per abitante. Ciò non può che
favorire anche gli scambi, perché i mercati saranno alleggeriti
dall'eccesso di domanda e i prezzi scenderanno.
Ma esiste un altro effetto benefico sui
paesi di origine dell'immigrazione. I migranti mandano parte dei loro
risparmi, maturati nel paese in cui lavorano, ai propri familiari in
patria. Questi ultimi si trovano così disponibilità di moneta forte
in un'economia debole. Questa potrà permettere una crescita della
domanda e degli investimenti. Ma non solo. Gli emigrati, dopo un
certo numero di anni, spesso ritornano in patria con il denaro
accumulato, e lo impiegano nella creazione di attività produttive e
di occupazione, oltre che di domanda sui mercati. In altre parole
l'immigrazione ha sui paesi di origine lo stesso effetto che potrebbe
avere una politica fiscale espansiva. Essa, più di tante
“beneficenze”, è un valido sostegno allo sviluppo.
Ma quale effetto ha invece sulle
nazioni di approdo? Abbiamo visto che essa non crea svantaggi, almeno
in presenza di una adeguata politica fiscale. Ma esistono dei
benefici?
Quello che spesso ci si dimentica di
considerare quando si tratta il tema dell'immigrazione è la
questione delle pensioni che sta diventando un serio problema per i
paesi industrializzati. In essi, la percentuale di popolazione
produttiva tende a decrescere. Ciò è dovuto a due fattori:
innanzitutto l'innalzamento della speranza di vita, grazie al
benessere e alle cure mediche. A questo prolungamento della vita però
corrisponde una riduzione della natalità (per ragioni che non stiamo
qui a discutere, ma lo prendiamo come un dato empirico assodato).
Dunque la popolazione non attiva (cioè i pensionati) è in aumento
rispetto a quella attiva (chi lavora). I governi spesso rispondono a
questo problema allungando l'età lavorativa, ma questo non fa che
spostare in avanti il problema (se la natalità continua a decrescere
e l'età a prolungarsi) o aumentando le ore lavorate degli occupati.
Questo, ovviamente, incide sulla qualità della vita di questi
ultimi. Bisognerebbe, piuttosto, promuovere politiche di riduzione
della disoccupazione. Ma in che modo l'immigrazione si inserisce in
questo contesto? Gli stranieri giungono nelle nostre città per
trovare lavoro. Essi rappresentano una fascia di età produttiva,
generalmente tra i 25 e i 35 anni. Dunque, il loro ingresso
riequilibra il rapporto popolazione attiva/pensionati. In altre
parole, i paesi industrializzati generalmente soffrono del problema
opposto di quelli sottosviluppati, ovvero tendono alla
sottopopolazione. L'immigrazione non fa che “travasare” l'eccesso
di popolazione da aree più affollate ad aree meno affollate. Nei
paesi di origine questo comporta un migliore allocazione delle
risorse rispetto alla demografia del territorio. Nei paesi di approdo
alleggerisce il peso della popolazione non attiva sulla parte
produttiva. Dunque, in entrambi i casi, riequilibra il rapporto tra
popolazione e beni e servizi prodotti.
Squilibri temporanei
Bisogna riconoscere che, anche in una
situazione di crescita economica, un flusso migratorio improvviso può
causare scompensi temporanei, prima che il sistema si riassesti.
Questo perché esiste un intervallo tra
l'ingresso degli extracomunitari e il momento in cui essi troveranno
un impiego. Nel frattempo, subendo la disoccupazione un momentaneo,
anche se leggero, incremento, questo potrebbe (in caso di un
significativo incremento del flusso demografico) causare una certa
(più o meno percettibile) decrescita delle retribuzioni e
dell'occupazione degli “autoctoni” (o un rallentamento della loro
crescita). A questo problema, però, i governi possono ovviare
facilmente incrementando la spesa pubblica, o riducendo le tasse, in
modo da compensare questo potenziale squilibrio temporaneo destinato
in ogni caso a venir riassorbito dal ciclo espansivo dell'economia.
Conclusioni
Abbiamo compreso che l'immigrazione non
può causare danni economici alla società che la riceve se questa
adotta politiche espansive. Anche in un contesto di politiche
deflattive pro-cicliche, ma in compresenza di un'apertura dei mercati
(ovvero la situazione attuale) l'immigrazione non avrà effetti, ma a
causare grossi problemi sarà l'internazionalizzazione degli scambi e
della produzione che provocherà disoccupazione e dumping salariale.
L'unico problema si può presentare se le politiche deflattive
avvengono in un sistema chiuso, cioè con mercati non
internazionalizzati. In questo caso l'immigrazione corrisponderebbe a
una loro parziale liberalizzazione.
A entrambi i problemi (concorrenza
estera in un sistema aperto, e immigrazione in un sistema chiuso) si
può porre rimedio con l'espansione fiscale, incrementando la spesa
pubblica e riducendo le tasse e invertendo dunque il ciclo economico.
Da una parte, infatti, stimolando la domanda interna le imprese non
avranno la “spada di Damocle” della concorrenza estera, perché
la loro produzione troverà sbocco sui mercati nazionali, con
evidenti vantaggi in termini di occupazione e salari. Questo effetto
può essere ancor più marcato con una legislazione che, nel caso
servisse, proteggesse i mercati interni.
Dall'altra, l'eccesso demografico può
essere assorbito da politiche pubbliche che incentivino l'impiego e
la riduzione della disoccupazione.
Con adeguate politiche fiscali, perciò,
l'immigrazione non provoca effetti negativi, se non leggermente in un
periodo di tempo limitato, ma, anzi, può apportare benefici, sia al
paese di provenienza che in quello di approdo. Nei primi riduce la
sovrappopolazione e permette di ovviare all'insufficiente
circolazione monetaria e alla scarsità di capitali. Nei secondi,
invece, allevia la sottopopolazione, sgravando in parte le fasce
produttive del peso del sostentamento della popolazione non più
attiva.
Non esiste, dunque, una questione
immigrazione da un punto di vista economico, in presenza di adeguate
politiche pubbliche. Il problema si pone solo laddove si parte dal
presupposto, errato, che il governo non possa e non debba intervenire
sul ciclo economico. È vero l'opposto, p u ò e d e v e farlo. Ma
ha bisogno, ovviamente, del pieno controllo sulla moneta e della
Banca Centrale, per attuare i necessari interventi fiscali. Certo, un
cultura di tipo neoliberale non aiuta. Non aiuta nemmeno dotarsi di
una moneta unica, affidata a una Banca sovranazionale e sovrastatale,
come hanno malauguratamente scelto di fare i paesi dell'eurozona. Ma
in questo caso, i guai sono ben altri che quelli potenziali
dell'immigrazione. Il primo passo sarebbe, quindi, quello di
recuperare la piena sovranità economica. Con quest'ultima, infatti,
non esiste problema economico non risolvibile per i governi.
La questione si può porre, piuttosto,
su un piano socio-culturale. Un'immigrazione troppo rapida e
improvvisa può creare tensioni tra gli autoctoni e nuovi arrivati.
Ma occorre intervenire nel controllo dei flussi per regolarne la
velocità e non, come ci si illude spesso di fare, con una
legislazione restrittiva o addirittura una chiusura delle frontiere.
Questa non può che provocare sacche di illegalità perché non
potendo accedere legalmente si cercherà di farlo illegalmente e
offrendo inoltre alla criminalità organizzata (straniera o locale)
ampie opportunità di profitto, speculando sulla disperazione dei
migranti. In Italia ciò è provocato in particolare da una legge che
non permette (ufficialmente) ai migranti di entrare nel nostro
territorio senza avere già un contratto di lavoro. Ipocritamente,
perché è evidente che senza prima arrivare nel nostro paese gli
extracomunitari hanno probabilità pressoché vicine allo zero di
trovarvi un impiego. Allora l'unico modo sono i viaggi clandestini,
gestiti da criminali senza scrupoli.
Legalizzare l'immigrazione in cerca di
impiego, riconoscendo, ad esempio, un periodo di tempo per trovarlo
sottrarrebbe il controllo delle tratte alle organizzazioni criminali.
Lo stato, inoltre, può occuparsi di impiegare direttamente in
aziende pubbliche quella parte di disoccupati (italiani o stranieri
che siano) che non vengano assunti da imprese private.
Altrettanto importante è abolire quei
lager istituzionalizzati chiamati centri di identificazione, dove gli
immigrati attendono in condizioni inumane per un tempo illimitato.
Essi non rappresentano soltanto una violazione della dignità della
persona, ma sono anche un danno economico perché costringono
all'inattività delle persone che potrebbero invece lavorare.
Immagini tratte da:
Tutto ineccepibile.
RispondiEliminaMa la "grande verità" l'hai detta nel commento: recuperare Marx e Keynes e far capire che sono complementari. O almeno possono esserlo.
Ma come fare? Mmt.info e gli altri mmters latitano, barnard fa rizzare i capelli a troppi, bagnai è per un'economia basata sull'export, il m5s è un pollaio, i comunisti dicono che siamo per il capitale e la borghesia, i liberisti dicono che siamo comunisti, gli anarchici non li smuovi manco con le cannonate ecc. ecc.
Altri?
A mio avviso qualche spiraglio c'è, in ambito di teorie macroeconomiche. I circuitisti cercano di fare proprio questo, e anche la MMT in fondo non è troppo lontana. Quello che manca, dal mio punto di vista, è una prospettiva politico-filosofica. Ci mancano i filosofi.
EliminaLe migrazioni sono protagoniste della nostra era. Immensi e fertili territori perdono demografia, mentre bande di violenti imperversano depredando chi rimane. Quale risorsa collettiva può nelle migrazioni? Quale per i singoli? Il "lavoro minorile" e i “bambini soldato” sono fenomeni indotti dall’abbandono territoriale degli adulti. Perché la filantropia occidentale tollera la fuga dalle responsabilità civili, quando avvengono tra i “poveri”? Perché "amare il nemico" si rivela il fallimento più eclatante del cristianesimo? I progetti economici possono riuscire dove le demografie sono costantemente instabili? Interrogativi che cercano risposte in un pianeta dove le negligenze umane guadagnano ineluttabilmente la punizione.
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