La fine del
governo Berlusconi e l'inizio del governo “tecnico” di Mario
Monti hanno segnato l'avvicendamento tra un regime
liberal-democratico, almeno nella forma istituzionale, e una
dittatura economica. Berlusconi, qualunque giudizio se ne voglia
dare, è stato l'ultimo capo di governo italiano espressione del voto
popolare. È stato l'ultimo caso in cui gli elettori hanno potuto
scegliere i propri rappresentanti indipendentemente dagli interessi
delle lobby transnazionali e della Troika. Il colpo di stato
finanziario che ha portato alla nomina di Mario Monti ha segnato, di
fatto, la fine della storia repubblicana della Penisola. D'ora in
poi le istituzioni politiche saranno svuotate di qualsiasi
significato e sottoposte al controllo di quelle economiche mondiali.
I nuovi capi di governo, da Letta in poi, sapranno che per governare
quel che conta non è tanto l'appoggio del parlamento e del popolo
(che al massimo bisogna preoccuparsi di blandire) ma della Troika,
della Cancelleria tedesca, dell'alta finanza, della Commissione
Europea, dei cosiddetti “mercati”. Si è trattato di un passaggio
cruciale, sfuggito ai cronisti concentrati sulle minuzie della legge
elettorale, come anche agli osservatori e agli studiosi di politica,
avvinti da un sonno profondo, dediti a speculazioni di nessuna reale
importanza. Quello che è avvenuto, e che si leggerà sui libri di
storia del domani, può essere assimilabile in un qualche modo al
passaggio dalla Grecia democratica a quella filippica e alessandrina,
o dalla Roma repubblicana a quella imperiale: l'estinzione, o lo
svuotamento (come fu per il Senato romano) delle istituzioni
rappresentative; il passaggio da un sistema rappresentativo a uno
autocratico. Con la differenza che, oggi, non si sostituisce un
potere politico con un altro potere politico, a mutare non è
soltanto la forma in cui è amministrato lo stato. Vi è una
mutazione antropologica, in cui i gruppi di interesse economici si
sostituiscono del tutto a quelli politici. Certo, è innegabile che
gli interessi materiali abbiano influenza da sempre sulla sostanza
degli atti politici di qualsiasi governo; ma in passato hanno sempre
avuto bisogno della mediazione di qualche figura politica e di un
apparato burocratico. Il quale è diventato mano mano così
indispensabile da riuscire a reclamare una certa indipendenza e ad
imporsi, almeno in qualche misura, sui forti interessi dei grandi
attori economici.
Quello cui
assistiamo negli ultimi anni, invece, è l'esautorazione delle forme
politiche da parte di quelle economiche. Istituzioni politiche
vengono soppiantate da istituzioni economiche, o quantomeno vengono
poste sotto il controllo diretto di potentissime lobby. Il gergo
politico, di conseguenza, è cambiato, si è adeguato. Non si parla
più di deludere gli elettori, ma di “scontentare i mercati”. Le
leggi e i decreti avanzano non sulla base delle promesse contenute
nei programmi elettorali, ma del “Ce lo chiede l'Europa”, dove
per “Europa” si intende la regolazione dei bilanci degli stati da
parte di trattati sovranazionali che sfuggono del tutto al controllo
dei cittadini europei e dei loro rappresentati nazionali. Non è più
il volere popolare o il voto del parlamento a stabilire la durata del
governo, ma degli indici economici adeguatamente manipolati dagli
economisti, considerati indipendentemente dal reale benessere
nazionale, ma solo in funzione delle necessità dei “mercati” e
delle direttive europee, quasi che adeguarsi ad essi sia un valore in
sé. Ma da tutti gli indici, ovviamente, si esclude quello che
esprime il valore della disoccupazione reale, ovvero il più
“democratico”.
Berlusconi è
stato il primo politico ad applicare le tecniche della comunicazione
pubblicitaria e del marketing alla politica, ma la sua
amministrazione ha avuto il torto di essere ancora improntata al
vecchio modo di gestione della cosa pubblica, ovvero quello di chi
deve soddisfare, per lo meno in parte, o anche solo dare la
sensazione di farlo, le richieste popolari. I governi Monti e Letta
hanno fatto un passo in avanti, su questo piano; hanno compreso che
conta molto di più eseguire gli ordini della Troika e coltivare le
relazioni diplomatiche con i soggetti internazionali che muovono i
fili. L'“innovazione” di Renzi, sempre che di innovazione si
possa parlare, è stata quella di unire il linguaggio spiccio della
pubblicistica e delle tecniche del marketing alla esecuzione rigorosa
dei dettati di Bruxelles. Ovvero da un lato rassicurare le lobby
internazionali sulla messa a punto di leggi che rispecchino nel modo
più puro i loro interessi, dall'altro rappresentare agli occhi delle
masse questa esecuzione come risultato di un attivismo di governo che
si opporrebbe alle “caste” politiche nazionali nullafacenti.
Punto di volta della comunicazione renziana è il verbo (in
particolare il verbo “fare”). Nel suo gergo il predicato è
assoluto, coniugato all'infinito e non legato a nessun complemento.
Il linguaggio viene spogliato e ridotto ad una crudezza scarna, in un
contrasto stridente con i virtuosismi lessicali dell'odiato
“politichese”. Ma l'essenzialità del linguaggio renziano cela
una astuzia mefistofelica. L'assenza di estensioni del verbo e di
specificazioni del sostantivo priva il messaggio di qualsiasi
concretezza, consegnandolo a una fumosa e ambigua allusività
emozionale, che impatta sul pubblico a livello pulsionale. Proprio
mentre si rappresenta come diretto e essenziale, lontano da inutili
giri di parole, esso in realtà mistifica e confonde, e lo fa in
virtù della su stessa struttura. Nel nuovo modo di comunicare viene
azzerato l'oggetto del discorso e il verbo da solo esprime tutta la
finalità del messaggio. Esso non è più una particella del
discorso, ma uno stimolo uditivo per suscitare reazione emotiva e
associazioni libere nella testa del destinatario. “Fare”,
“Costruire”, o, concessione al livore popolare, “rottamare”,
non importa cosa o chi, come o perché. L'oggetto della politica non
è dato sapere. Esso viene deciso in una sala convegni esclusiva, o
in uffici di oscuri burocrati oltre i confini nazionali. Quel che
conta, questo il vero referente della comunicazione renziana, non è
più il soggetto dell'azione, ma l'azione stessa. Non importa da chi
e in quale forma essa sia pianificata, ma soltanto che si realizzi.
Il linguaggio di Renzi si adatta, quindi, perfettamente al nuovo
corso: ovvero quello che accetta la politica come semplice
continuazione con altri mezzi dell'offensiva contro i popoli e contro
i lavoratori delle élite capitaliste.
Immagine tratta da:
http://www.giornalettismo.com/archives/1375319/fiducia-renzi-fiducia-governo-renzi-senato/palazzo-chigi-insediamento-del-presidente-del-consiglio-matteo-renzi-17/
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