Le
recenti discussioni sull'articolo 18, o su quel che ne rimane,
confermano quanto resista la diffusa opinione, presso i media e gli
economisti mainstream, che il problema della disoccupazione
vada risolto intervenendo sul piano delle protezioni dei lavoratori.
Un eccesso di protezioni giuridiche e sindacali scoraggerebbero le
aziende ad assumere, poiché queste non avrebbero la sicurezza di
poter licenziare all'occorrenza; tutto questo creerebbe una
situazione stagnante in cui le imprese non investono e l'economia è
in recessione. Ma nonostante i dati e numerosi e comprovati studi
scientifici dimostrino quanto questa mitologia sia sbagliata, essa
sembra essere ancora radicata presso il ceto dirigente e la vulgata
dei media ed è stata di fatto accettata persino dai sindacati.
Il
livello di protezione non incide sul tasso di disoccupazione. Anzi,
ridurre le tutele può addirittura rivelarsi controproducente (cfr. http://alzailpugno.it/index.php/en/interviste/17-intervista-al-prof-guglielmo-forges-davanzati) in
quanto si è visto che la produttività può risentirne in modo
apprezzabile. Non è certo l'eccesso di tutele, la causa della
disoccupazione, che ormai ha raggiunto il livello record in Italia,
sebbene quello delle tutele sia tra i più bassi al mondo (Fig. 1).
In una situazione di crisi come quella attuale le imprese
difficilmente saranno portate ad assumere, anche presupponendo una
minimizzazione delle garanzie contrattuali. L'errore è quello comune
di chi vede la questione sempre e solo dal lato dell'offerta. Secondo
questa visione supply siders se c'è poco lavoro vuol dire che
esiste qualche fattore esterno al sistema che impedisce alle aziende
di investire; burocrazia, tasse, livelli salariali, tutele
contrattuali, ecc. In realtà, come ci insegnano non solo la
documentazione empirica ma anche il semplice buon senso, in un clima
di sfiducia dei mercati e in una condizione recessiva dell'economia,
le imprese non investono perché sanno che i consumi restano bassi, e
del resto le banche non concedono finanziamenti. Il vero problema,
invece, risiede nella domanda aggregata. È su quest'ultima che si
dovrebbe innescare un circolo
virtuoso dell'economia e favorire
l'occupazione. Ma questo significherebbe, ovviamente, dover usare la
leva della spesa pubblica, e innalzare significativamente il deficit
pubblico e, appare chiaro che, nell'era della spending review
e del patto di stabilità, ciò è considerato tabù. Così non resta
che allinearsi al coro dei fantasiosi cantori del mercato flessibile
– che si tratti della cosiddetta “flexicurity”, delle “tutele
crescenti” o quant'altro produca la prolifica immaginazione di
costoro, poco cambia – e invocare la liberalizzazione selvaggia dei
contratti lavorativi, gettando ulteriore benzina sul fuoco. Infatti,
in una situazione di deflazione, ridurre le garanzie, o quel poco che
ne rimane, porterebbe, direttamente o indirettamente, a un ulteriore
crollo dei salari, e questo non può che causare un ulteriore calo
della domanda. Non c'è stato, invece, nessun beneficio per
l'occupazione, come mostra il grafico (Fig. 2). L'introduzione di contratti di
lavoro flessibili non ha apportato miglioramenti su questo piano. Nei primi anni dell'euro si è avuto
un afflusso di capitali, a causa del tasso fisso della valuta che
rassicurava le banche, Ma dallo scoppio della crisi, il livello dei
senza impiego è cresciuto vertiginosamente e non si è più fermato
(mentre in altri paesi fuori dall'eurozona si assistiva a
un'inversione di tendenza) fino a raggiungere il 13% (ufficiale)
attuale.
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Figura 1 |
Il dato
della disoccupazione, tirato fuori solo quando fa comodo a certi guru
neoliberali, viene usato pretestuosamente, per avallare riforme (o
sarebbe meglio dire controriforme) che nulla hanno a che vedere con
essa. Il vero fine è soltanto il continuo attacco nei confronti del
lavoro, organizzato secondo un piano stabilito dalle élite, e che si
è concretizzato nel nostro paese a cominciare dagli anni '90, con la
riforma Treu, la prima ad avere introdotto massicciamente la
flessibilità in Italia.
Cerchiamo
di analizzare le varie tappe di questo piano.
- Formare un ceto politico compiacente, che si assuma l'incarico di scardinare l'impianto legislativo a tutela del lavoro. Questo compito è quello che ha ricoperto in Italia il centrosinistra degli anni '90, abiurando la propria tradizione lavorista.
- Far prevalere presso i sindacati una linea non conflittuale e concertativa, che riduca la lotta e i conflitti e cerchi sempre l'accordo.
- Condurre una martellante campagna mediatica che decanti le presunti virtù salvifiche della flessibilità e dipinga a tinte fosche l'antico e superato “posto fisso”.
- Stabilire un tasso di cambio fisso della moneta, mettendo fuori mercato le merci delle industrie dei paesi mediterranei che in questo modo sono incentivate a disinvestire e a delocalizzare la produzione.
Figura 2 |
Questo
piano ha comportato una progressiva erosione dei salari e una caduta
dei consumi.
Ma
il vero motivo per cui le élite capitaliste e i loro istrioni
continuano a propugnare leggi sulla flessibilità non è il contrasto
della disoccupazione, ma la guerra di classe condotta contro i
lavoratori.
Come
infatti ci insegna Marx, in una situazione di espansione della
produzione capitalistica si ha una caduta tendenziale del saggio del
profitto, per cui, i mercati si saturano, e non è più possibile
assicurare gli stessi margini di profitto di un tempo. Così le
imprese disinvestono, cercando di ridurre i salari, delocalizzando la
produzione laddove trovano manodopera a bassissimo costo e
licenziando. Soltanto un intervento della finanza pubblica potrebbe,
keynesianamente, scongiurare una crisi, permettendo alle imprese di
tollerare alti livelli occupazionali e assorbendo la manodopera in
eccesso attraverso impieghi pubblici. Questa situazione, dunque,
implicherebbe un crescente intervento dello Stato nell'economia (che
è l'antitesi della concezione neoliberale) che potrebbe condurre
anche a nazionalizzazioni di alcuni comparti produttivi. Ma, tutto
ciò, capace di garantire il pieno impiego attraverso il sostegno
pubblico all'occupazione, spaventerebbe le classi capitalistiche.
Come faceva notare Kalecki, il capitalista è finanche disposto a
rinunciare a una parte dei propri guadagni, pur di non dover
fronteggiare una classe operaia forte e agguerrita. È infatti chiaro
che, in un'ipotesi di piena occupazione, si moltiplicherebbe il
potere contrattuale dei lavoratori e i capitalisti si troverebbero a
fronteggiare una situazione sociale densa di scioperi e conflitti,
con i salari in continua crescita.
Bisognava
costringere i governi, invece, per rendere innocua la classe
lavoratrice, a tagliare la spesa pubblica e a mantenere i deficit di
bilancio a livelli minimi, e il metodo che è stato escogitato per
questo fine è proprio l'unione monetaria con i trattati europei
annessi. In questa situazione, che imbriglia gli Stati ossessionati
dai propri bilanci, la flessibilità viene presentata come unico
metodo per arginare la crisi, quando in realtà può soltanto
aggravarla.
Immagine e grafici tratti da:
Aiuto... riusciremo mai ad uscire da questa situazione?
RispondiEliminahttp://www.4minuti.it/news/editrice-europea-srl-disoccupazione-nuovo-record-storico-0078098.html