![]() |
Disoccupazione in Europa (2013) |
Uno Stato è libero e sovrano quando ha l’egemonia sulle armi e la monetaNiccolò Machiavelli
Le analisi moralistiche sulle cause della crisi italiana (che trascurano al solito di inquadrarla nella più ampia crisi europea) si saldano con quelle di una scuola economica neoliberale altamente in voga, malgrado la sua infondatezza scientifica e il suo fallimento storico, presso l'attuale ceto politico dirigente.
Le prime,
sostengono che i motivi di questa crisi vanno individuati nella
corruzione dilagante delle istituzioni pubbliche che avrebbe posto
gli interessi particolari al di sopra di quelli nazionali. Vi
è una chiara impronta ideologica in questa lettura che ignora quanto
i cosiddetti interessi nazionali
non siano in realtà che una particolare declinazione di quelli
più specifici di determinati attori economici e politici.
Il secondo tipo di interpretazione, su un piano economico, sostiene
che le cause vanno ricercate in un “eccesso” di stato e di
politiche pubbliche che avrebbero imbrigliato l'economia e i mercati
impedendo lo sviluppo e l'afflusso di capitali. Questa posizione è
riassumibile nel motto reaganiano “Lo stato non è la soluzione ma
il problema”.
La saldatura tra queste due interpretazioni è quasi naturale. Lo
stato, gli apparati pubblici sono corrotti, tendono a favorire le
proprie clientele, di conseguenza bisogna limitarne il potere,
estrometterli dalla direzione dell'economia e impedirne la
programmazione di una politica industriale giudicata inutile nel
migliore dei casi (come teorizzato dall'ex ministro Bersani).
Questo “moralismo neoliberale” è clamorosamente contraddittorio.
È indimostrato che l'alleggerimento dell'apparato burocratico
comporti una riduzione della corruzione delle “caste” politiche
(non si parla mai di “casta”, nei media, per riferirsi alle lobby
private e ai gruppi di pressione) come se nell'economia privata
vigesse il regno della moralità. Gli scandali bancari dell'ultimo
periodo (e non solo) dovrebbero dimostrare l'esatto contrario.
Del resto è evidente che una riduzione della spesa pubblica, più
che limitare gli episodi di corruzione e di clientelismo, semmai li
aggrava, perché la carenza dei fondi favorisce l'accaparramento
degli stessi da parte dei soli soggetti più forti e influenti. Ma
questa visione ha soprattutto il difetto di non andare alla radice
del problema. Le cause della corruzione non sono figlie soltanto di
determinate scelte politiche o di contingenze culturali, ma sono
insite nella natura stessa della società capitalistica. Più che
essere il ceto politico dirigente a usare il proprio potere
burocratico per esercitare pressioni sul capitalismo privato è vero
semmai il contrario, cioè è il Capitale a determinare quelle che
saranno le scelte politiche. Questo tende a eliminare ogni sorta di
ostacolo alla propria espansione, per garantirsi margini di profitto
non decrescenti (cui tenderebbe, come ci insegna Marx).
La tradizione neoliberale continua testardamente a sostenere la
riduzione delle spese dello stato e il pareggio dei bilanci pubblici,
sebbene sia storicamente evidente che le crisi del capitalismo
vengano superate attraverso l'ampliamento, invece che il
contenimento, dei disavanzi. Nazionalizzazioni, piuttosto che
privatizzazioni. Concentrazione dei capitali pubblici laddove quelli
privati non andrebbero mai. È ovvio che solo laddove siano state
attuate politiche keynesiane, come dimostrano gli Stati Uniti
roosveltiani o la Gran Bretagna dell'immediato dopoguerra, il
capitalismo ha potuto superare le proprie crisi. Il taglio degli
investimenti pubblici in nome di una moralizzazione della società
non può che portare all'aumento delle diseguaglianze sociali, alla
svalutazione salariale, alla crescita della disoccupazione,
all'impoverimento di massa e tutto questo non scoraggia di certo la
corruzione.
Occorre pertanto domandarsi se non sia vero piuttosto il contrario;
cioè se la crisi italiana non sia figlia della destrutturazione
dello stato, se il declino economico e sociale non sia ricollegabile
al declino politico.
L'Italia
ha sempre pagato nella sua storia la propria debolezza politica.
Sebbene sia stato un paese avanzato sul piano economico e culturale,
punto di incontro delle più importanti rotte commerciali mondiali,
con una innovativa classe borghese imprenditoriale pre-industriale,
quanto culla dell'arte e sede di un ceto intellettuale progredito e
raffinato, non ha mai saputo consolidare a livello politico la
propria egemonia. Il prevalere di un diffuso corporativismo a tutti i
livelli, (dalle leghe comunali alle Arti e i Mestieri) ha sempre
esercitato una forte e invincibile opposizione alla formazione di
qualsiasi potere centrale. È mancata nella penisola una forte
monarchia capace di imporsi tanto sulle nobiltà locali, quanto sui
gruppi corporativi. Quando c'è stata l'unificazione, e la
costituzione di uno stato nazionale, è stata pagata a duro prezzo,
con il saccheggio delle finanze dello Stato borbonico e la
deindustrializzazione del Meridione da parte del Regno Sabaudo.
Lo sviluppo italiano nel secondo Novecento (mai immune da forti
squilibri) e l'affermazione dell'Italia come potenza mondiale negli
anni '60 e '70 vedono il costituirsi di un forte stato centrale,
guidato da un intelligente ceto politico dirigente (senza volerne
nascondere i limiti e le contraddizioni) che ha saputo
orientare gli interessi del capitalismo nazionale. Saranno proprio la
decimazione e la sostituzione di quel ceto politico e l'indebolimento
dello stato a decretare la fine del “miracolo” italiano.
Questo
processo avviene in tre fasi. Una prima risalente alla fine degli
anni '70, forse l'apice dello sviluppo italiano, e il cui inizio può
essere fissato con l'omicidio Moro. Questa fase vede la sconfitta di
quella linea di dirigenti (più o meno trasversale ai partiti
politici) che si opponeva a un'entrata sine conditio
dell'Italia nello SME e la fine
del keynesismo economico della Banca d'Italia con l'affermarsi di una
linea monetarista e anti-inflazionistica. Con la sostituzione (per
via giudiziaria) di Baffi con Ciampi si inaugura la nuova politica
della banca centrale, strenuamente filo-tedesca. D'ora in poi
l'Italia andrà verso successive rivalutazioni monetarie e a
inasprimenti fiscali che culmineranno negli anni '90.
Una
seconda fase è individuabile nella vicenda di Tangentopoli
in cui viene eliminato per via giudiziaria un ceto politico
ingestibile, non legato direttamente agli interessi del grande
capitale internazionale e ai piano franco-tedeschi. Ciò coincide
sostanzialmente con la liquidazione del Partito socialista non
proprio entusiasta dell'entrata nell'euro e di una parte della DC e
segna l'avvicendamento tra le prime e le seconde linee di dirigenti.
In questa fase nel PCI domina la linea atlantista e si impone la
corrente migliorista. Sarà proprio quel ceto migliorista che si
affermerà con l'eliminazione del Psi.
La terza fase è segnata, invece, dalla guerra contro Berlusconi e i
suoi governi, e si conclude con la sua destituzione operata
attraverso un vero e proprio colpo di stato che ha creato il governo
collaborazionista di Monti. Con quest'ultima fase giunge a compimento
il processo di avvicendamento delle seconde linee.
Il risultato di tutto ciò è stato la scomparsa degli elementi meno
agevolmente condizionabili e manovrabili dai poteri economici e
finanziari transnazionali e di conseguenza la destrutturazione dello
stato italiano, la privatizzazioni delle aziende partecipate, la
deindustrializzazione dell'apparato produttivo e le politiche
anti-salariali.
L'accettazione totale e incondizionata dell'ECU prima e dell'Euro
poi, con le clausole fortemente penalizzanti per l'industria italiana
contenute nei trattati, che fu il dogma delle ex seconde linee di
dirigenti politici (da Amato a Prodi, da Veltroni a D'Alema, sotto la
“supervisione” di Napolitano, passando per i governi “tecnici”)
la totale subalternità rispetto all'egemonia militare della NATO e
all'imperialismo americano (inaugurato dalla malaugurata svolta
berlingueriana del '76), rappresentano la specifica colorazione del
declino italiano degli ultimi trent'anni.
Sono proprio l'indebolimento di quel ceto politico dirigente, in nome
della guerra alla corruzione e all'illegalità, la sua sostituzione
con elementi del tutto organici agli interessi delle élite
capitalistiche internazionali e il conseguente “dimagrimento”
dell'apparato statale, all'origine della crisi italiana, la quale,
però, è da inscrivere all'interno della più ampia crisi
dell'Europa e dell'Unione Europea.
L'autorazzismo,
con il gusto tutto italiano dell'autoflagellazione e del dileggio
verso se stessi in favore di una xenofilia che descrive tutto quanto
si trovi al di là delle Alpi (o dell'Oceano) come il Paradiso
Terrestre, rappresenta la declinazione nella Penisola della più
ampia legittimazione culturale di un moralismo neoliberale che
santifica il capitalismo nord-europeo e colpevolizza la pigrizia
dei popoli mediterranei; e non è difficile comprendere, alla luce di
ciò che è stato detto, quanto questa retorica sia responsabile
della più lunga e imponente crisi economica dell'Italia e
dell'Europa.Immagine tratta da:
http://it.wikipedia.org/wiki/Disoccupazione_nell'Unione_europea
Nessun commento:
Posta un commento