È una moda
politica ricorrente quella di richiamarsi a Keynes anche quando
mancherebbero i requisiti minimi per farlo.
Ne è la prova una
delle recenti affermazioni di Renzi che si è presentato come il
propugnatore di una riforma keynesiana che dovrebbe interessare
l'Europa intera. Naturalmente una proposta concreta non è stata
avanzata, ma si continua con la retorica del “rigore” e la solita
demonizzazione della spesa pubblica come causa di tutti i mali.
Il sostegno che il
suo partito ha dato al governo di Mario Monti – un anti-keynesiano
per eccellenza, un sostenitore dell'austerità e persino della
necessità della crisi economica nonché distruttore della domanda aggregata per sua stessa ammissione – non ha impedito all'attuale
Presidente del Consiglio di richiamarsi al grande economista
britannico.
Ma questi
rovesciamenti lessicali non sono una novità. C'è perfino chi ha
avuto l'ardire di definire keynesiano il Ministro Padoan, uomo del
Fondo Monetario, nonché difensore dell'austerità e consapevole vessatore (anche lui come Monti per propria ammissione) del popolo
italiano.
Nell'epoca
dell'austerità e del neoliberismo dominante è lecito appellarsi al
keynesismo, purché se ne tradiscano i principi. Ciò è stato
persino teorizzato, come dimostra la scuola dei cosiddetti
“keynesiani bastardi”, ovvero di coloro che hanno pervertito le
teorie del maestro per insinuarvi i germi dell'economia neoliberale.
Ciò, ovviamente, non allo scopo di attualizzarlo, operazione invece
compiuta con successo dai post-keynesiani, ma di renderlo più
accettabile agli attuali interessi delle aristocrazie finanziarie.
Anche i dirigenti
del Movimento Cinque Stelle, un partito che vuole rappresentare la
protesta contro il sistema politico attuale, hanno fatto propri, più o
meno consapevolmente, i piani neoliberisti delle élite dominanti.
Casaleggio ha dichiarato non molto tempo fa che vorrebbe ridurre la spesa pubblica di ben 200 miliardi di euro. E del resto che cosa
rappresenta la proposta del reddito di cittadinanza, se non la chiara
applicazione della tattica hayekiana? Fu proprio Friedrich Von Hayek,
uno dei padri del neoliberismo, nonché feroce oppositore di Keynes,
a introdurre un'idea molto simile. L'economista austriaco, infatti,
ipotizzava una qualche forma di aiuto per i più poveri al solo scopo di evitare una rivolta contro le élite. Ed è precisamente questo
l'effetto che avrebbe l'introduzione in Italia del reddito di
cittadinanza, quello di acquietare un poco il malcontento popolare,
ma senza risolvere la crisi economica, ma anzi aggravandola, facendo
dei lavoratori le vittime di un ricatto che gli imporrebbe di
accettare qualsiasi condizione di sfruttamento pur di non perdere i
sussidi. E la riforma Hartz in Germania lo ha dimostrato. Una carità
di stato, ma funzionale, ovviamente, ai piani del Capitale. A
nulla vale l'obiezione di semplice buon senso, che nel momento in cui
si riconosce un reddito a degli inoccupati tanto varrebbe farli
lavorare per lo Stato. Il neoliberismo ha vinto anche laddove risulta
stupido.
Stiamo assistendo
a un totale svuotamento di significato del lessico politico ed
economico nel dibattito pubblico. Anche il capo di un partito che ha
da sempre applicato le politiche neoclassiche più ortodosse può
richiamarsi a una scuola che è l'esatta antitesi di queste
politiche. Sembra la conferma della feroce ironia della storia:
l'austerità, l'adesione ai trattati e il perseguimento di riforme
neoliberali sono state il cavallo di battaglia (e continuano a
esserlo, malgrado le dichiarazioni di facciata) dei discendenti del
più grande partito comunista occidentale di sempre, e adesso, quegli
stessi si dichiarano keynesiani.
Una politica
genuinamente ispirata alle teorie di Keynes suonerebbe in questo
contesto come rivoluzionaria e forse perfino sovversiva, poiché
equivarrebbe alla violazione sistematica di tutti i trattati europei
(ma al rispetto pieno e alla attuazione della nostra Carta
Costituzionale) e ad una dichiarazione di indipendenza rispetto alla
dittatura economica di Bruxelles. Ma il sostantivo politico si riduce
a mera tecnica di comunicazione rispetto alle masse. Serve per
compattare la propria base, alludendo a differenze di programmi
inesistenti.
Così ci si può
chiamare democratici, mentre si minano le istituzioni nazionali per
delegare i poteri degli stati a un'autorità dispotica
sovranazionale, come ci si può dire socialisti, notava Marcuse già
nel lontano 1969, e difendere il capitalismo.
Ma avendo
ripudiato Marx, il proletariato e il socialismo (anche nella sua
forma depurata da tutti gli elementi anticapitalistici) neutralizzato
anche lo spauracchio Berlusconi (diventato ormai uno dei sostenitori
del governo degli ex-comunisti che un tempo accusava) al partito
democratico restava ben poco della vecchia simbologia in cui
rimestare per aggregare la propria base. Il richiamo a Keynes sembra
la riproposizione della tattica dei laburisti inglesi. Come questi
ultimi continuano a proclamarsi socialisti e pro-labour, ma
rappresentando di fatto i veri assassini del socialismo e gli
oppressori dei lavoratori, i “democratici” italiani hanno
rispolverato Keynes proprio mentre lo combattono tenacemente.
Sembra sparito nel
dibattito pubblico qualsiasi collegamento, anche vago, tra la parola
e il suo significato, e il lessico politico si fa sempre più
astratto (cfr. La parabola discendente della sinistra. Da Marx a Tsipras). Le ideologie, che tutti dichiarano morte, sopravvivono in
realtà, opportunamente revisionate, come variegati stendardi dell'unico vero potere che non può
mai essere messo in discussione: quello del Capitale transnazionale.
Immagine tratta da:
un levista pro lira?
RispondiEliminai miei complimenti
quelli come te sono mosche bianche
saluti
lelamedispadaccinonero.blogspot.it