Il sistema monetario europeo è stato
un progetto salutato dalla classe dirigente alla sua entrata in
vigore come il migliore dei mondi possibili. Attorno ad esso è nata
una ideologia che descrive la moneta unica come garanzia di pace e
prosperità economica.
A tre lustri dalla sua nascita possiamo
oggi dire che questa narrazione si è rivelata del tutto falsa e
completamente sganciata dalla realtà.
Non che non ci fossero stati
avvertimenti in questo senso. La crisi dell'Argentina causata dal
rapporto di cambio fisso col dollaro aveva già dimostrato
l'insostenibilità di un unione monetaria in aree valutarie non
ottimali
Il ciclo Frenkel ben
descrive questa situazione, in cui un paese che si aggancia a una
valuta più forte vede inizialmente una crescita del proprio Pil per
l'afflusso di capitali, poiché gli investimenti diventano sempre più
convenienti grazie alla stabilità del cambio. Ma questa situazione è
destinata a lungo andare a produrre crescenti squilibri in ragione
del forte indebitamento privato della creazione di bolle immobiliari.
La recessione è inevitabile.
Questa parabola è valida anche per i
paesi della zona euro, in particolare per quelli dell'Europa del Sud,
dotati di una valuta fissata a un cambio forzatamente tenuto stabile.
Le bolle immobiliari scoppiate in
Grecia e in Spagna sono la precisa realizzazione del ciclo valutario
descritto da Frenkel. Con il crescente indebitamento privato si crea
una situazione di insolvenza cronica e finiscono per risentirne gli
istituti di credito che sospendono i prestiti.
Il calo del Pil ha indotto i governi
pressati dai trattati e dalle direttive europee a tentare di ridurre
i deficit attraverso tagli della spesa pubblica e aumento delle
tasse. A differenza della situazione argentina quella europea si
contraddistingue per la presenza di una valuta internazionale emessa
da una banca sovranazionale. Inoltre la crisi viene aggravata da
trattati (come il patto di stabilità o il Six pack act) che
irrigidiscono i bilanci pubblici e impediscono agli stati di attuare
politiche anticicliche attraverso un'espansione della spesa pubblica.
In questa crisi le aziende dei paesi
più in difficoltà, come Spagna, Irlanda, Grecia, Portogallo
e Italia (i cosiddetti PIIGS) si trovano a dover affrontare uno
svantaggio competitivo impossibile da superare, poiché pagano un
tasso di cambio che mette i loro prodotti fuori mercato. In
particolare l'Italia, che è il principale competitore del paese la
cui industria ha beneficiato della moneta unica, la Germania.
Nonostante dall'uscita dallo SME fino ai Trattati di Maastricht le
industrie italiane avessero conosciuto un boom delle esportazioni a
danni di quelle tedesche, con la rivalutazione dovuta all'entrata
dell'euro la situazione della bilancia dei pagamenti si è capovolta,
e specularmente quella della Germania (vedi figura 1)
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Figura 1 |
L'attivo
dell'ultimo anno è dovuto non tanto a una ripresa delle
esportazioni, quanto a una riduzione delle importazioni conseguente
al calo della domanda interna.
La bassa inflazione, non ha procurato
alcun beneficio al potere d'acquisto dei ceti medi e bassi, poiché
non è stata seguita da una tenuta dei redditi.
Chi ha invece tratto beneficio da
questa condizione sono stati soprattutto i redditi più elevati che
hanno potuto beneficiare della crescente deflazione; i creditori
hanno avuto per un pezzo il beneficio di una moneta stabile e forte.
Ma di fronte alla crescita delle sofferenze bancarie e delle
insolvenze ha finito per compromettere anche loro. La finanza
speculativa, perciò, si sta ancora espandendo, a danno del credito.
Le industrie importatrici hanno potuto
contare su una riduzione del costo delle merci estere, ma questo
ovviamente non ha certo favorito l'industria nazionale e sostenuto
l'occupazione.
Il grande capitale ha potuto
ammortizzare i danni e persino aumentare i profitti delocalizzando la
produzione e riducendo il costo del lavoro, anche grazie a una moneta
forte. Ma le piccole imprese italiane si sono trovate in difficoltà
sempre più insormontabili.
In questo contesto appare ben difficile
continuare a difendere la moneta unica.
Tuttavia la propaganda neoliberale,
impaurita dall'avanzare della sfiducia nei confronti della moneta
unica sta intensificando gli sforzi.
Ma questa difesa fa leva su argomenti
per forza di cose fragili.
Cerchiamo di analizzare le “sirene”
della propaganda eurofila.
1. La svalutazione crea inflazione.
Forse il principale argomento avanzato in difesa dell'Euro è la tesi
secondo la quale la conseguente svalutazione della nuova moneta
nazionale comporterà un aumento vertiginoso dell'inflazione e quindi
una riduzione del potere d'acquisto.
Questa teoria è chiaramente falsa.
Come mostra il grafico seguente (figura 2)
non c'è alcuna
correlazione tra svalutazione e inflazione. Mutando il tasso di
cambio, cambierà soltanto il prezzo della moneta estera, e quindi
delle merci estere, non di quelle locali. La moneta estera rivalutata
potrà comprare più merci locali e quindi si verificherà un
miglioramento della bilancia dei pagamenti. Inoltre la stessa domanda
interna sosterrà le merci nazionali e quindi l'occupazione.
Figura 2 |
Chi muove questa obiezione ragiona come
se esistesse una tasso di cambio fisso con un'altra moneta. In questo
caso realmente la svalutazione genererebbe inflazione, poiché i
prezzi leviteranno per ammortizzare il maggior costo della valuta di
riferimento.
2. L'emissione di moneta genera
inflazione; la cancellazione
dei vincoli monetari spingerà i governi ad aumentare i deficit
attraverso l'emissione di moneta e questo comporterà inflazione.
Questo argomento si basa su una premessa inaccettabile: che le uniche
variabili in gioco siano la quantità di moneta e i prezzi.
Aumentando la prima aumentano anche i secondi.
In realtà questa lettura trascura
altre due variabili fondamentali: ovvero la velocità di circolazione
della moneta e la quantità di beni e servizi. Un incremento della
massa monetaria, incide su queste ultime due variabili, quindi o la
velocità di circolazione si riduce, o aumenta la quantità di beni e
servizi prodotti, o una combinazione di queste due eventualità.
Molto probabilmente è questo che si verificherebbe se le politiche
pubbliche sostenessero i redditi e l'occupazione.
Ma anche se si verificasse un aumento
dei prezzi questo non sarà per forza un male se ad esso
corrisponderà un più veloce aumento dei redditi. Forme di
indicizzazione delle retribuzioni potrebbero essere un valido
meccanismo di recupero automatico del potere d'acquisto
3. La svalutazione farà contrarre i
risparmi. Ancora una volta si
confonde svalutazione e inflazione. I conti correnti in Euro saranno
ridenominati in valuta nazionale e di conseguenza anche i prezzi si
adegueranno al tasso di conversione. Una svalutazione come si è
visto non farà aumentare i prezzi e quindi non ci sarà nessuna
aggressione ai risparmi.
Per quanto
riguarda gli investimenti in titoli di stato questi frutteranno un
interesse allo stesso modo che con la precedente valuta. Semmai il
problema sarà per chi effettua operazioni finanziarie e vuole
vendere titoli di debito italiani dopo la svalutazione. Ma questo non
ha nulla a che fare con la garanzie del risparmio.
3. I
prezzi delle materie prime aumenteranno e sarà più costoso
importare. Chi muove questa
obiezione trascura che i prezzi delle materie prime sono soltanto una
parte e per altro minima dell'intero costo di produzione. In un paese
industriale come l'Italia la materia prima è comprata per essere
trasformata e quindi il maggior costo resterà quello industriale.
Inoltre il recupero della sovranità monetaria permetterà ai governi
di ridurre le imposte sul consumo (IVA, accise, ecc.) e dunque il
prezzo del prodotto finale potrebbe anche subire contrazioni, senza
che questo danneggi i produttori.
4. La
paura della svalutazione produrrà una corsa agli sportelli e le
banche saranno prive di liquidità.
Anche questo argomento, come per il punto 1, presuppone un contesto
di area valutaria agganciata a un'altra divisa con un tasso di cambio
fisso. In questo caso effettivamente la minaccia di una svalutazione
può realmente produrre una corsa agli sportelli con conseguenze
catastrofiche. Infatti si vorranno convertire i depositi nell'altra
valuta, di conseguenza la moneta nazionale sarà sempre meno costosa,
generando inflazione, peraltro, poiché a seguito del bank
run gli istituti
rimarranno privi della moneta di riferimento, la bancarotta è
inevitabile
Ma
con un cambio floating la
valuta locale non è convertibile, quindi anche in caso di corsa agli
sportelli generata da paura irrazionale non ci saranno alcune
conseguenze sui prezzi né questo causerà bancarotta. Infatti la
moneta locale non sarà convertita in altra moneta e il cambio non ne
risentirà, semplicemente la moneta da elettronica diverrà cartacea.
In
caso di possibile uscita dall'Euro esiste questa eventualità e le
persone accumuleranno Euro. Quando entrerà in vigore la nuova valuta
però dovranno riconvertire necessariamente gli Euro in moneta
locale, poiché questa è stata assunta dal nuovo corso legale.
Avendo risparmiato in moneta forte questo aumenterà persino il tasso
di risparmio privato e quindi il potere d'acquisto. Tuttavia a un
certo momento l'acquisto continuato di valuta locale porterà
quest'ultima ad apprezzarsi e l'Euro a deprezzarsi, riducendo fino ad
annullare del tutto i margini di guadagno. Ma queste operazioni
rientrano nel normale mercato valutario dove gli operatori acquistano
di continuo in una data moneta prima che si apprezzi per poi comprare
moneta debole.
Tantomeno
le banche rimarranno prive di liquidità. I prestiti, i versamenti e
i trasferimenti di valuta infatti non avvengono certo attingendo ad
altri conti correnti. Se una data banca, ad esempio, deve finanziare
un prestito non lo fa attingendo ai depositi dei sui correntisti! Se
così fosse la banca non sarebbe un posto sicuro in cui depositare i
risparmi. Al contrario, l'istituto semplicemente accrediterà la
somma sul conto corrente del debitore senza intaccare i risparmi di
nessuno.
L'uscita
dall'Euro, quindi, non comporterebbe alcuno svantaggio apprezzabile,
mentre farebbe guadagnare competitività all'industria nazionale,
potere d'acquisto ai redditi e produrrebbe una crescita
dell'occupazione. Naturalmente esistono vari scenari a seconda di
come l'abbandono dell'unione monetaria viene gestito dai governi. Ma
in ogni caso i benefici saranno tali da superare gli eventuali
svantaggi.
Occorre
però un'uscita rapida, per impedire una reazione negativa dai
mercati e dalle lobby di pressione. Per questo tutte le soluzioni che
comporterebbero un prolungamento del periodo di transizione
(referendum) sono da scartare. Anche un'uscita concordata con gli
altri paesi, sebbene preferibile sul piano tecnico, potrebbe
imbrigliare il paese uscente in una lunga ed estenuante trattativa.
Quel
che dovrebbe fare un governo di transizione è dichiarare l'immediato
recupero della sovranità monetaria, ridenominando il proprio debito
nella nuova valuta (non occorrono ristrutturazioni, o moratorie)
restituendo alla banca centrale nazionale gli strumenti di intervento
sul cambio e sulla base monetaria e ponendola sotto il controllo del
Tesoro. Per quest'ultima operazione non sono necessarie
nazionalizzazioni (che invece sarebbero auspicabili per il settore
bancario) ma una legislazione che autorizzi i governi a saldi
negativi del proprio conto presso la banca centrale, o quanto meno
che obblighi quest'ultima a comprare i titoli di stato invenduti.
Grafici e immagini tratti da:
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