Ad oggi, lo stato della sinistra in
Italia è a dir poco drammatico. La fine del Democratici di Sinistra
e la loro confluenza nel Partito Democratico, è stato soltanto il
Requiem di un soggetto politico la cui disfatta ha origine
molti anni prima. Dalla liquidazione del P.C.I., le due anime
rimaste, P.D.S., appunto, e Rifondazione Comunista, non hanno saputo
tener viva la fiamma ed entrambi hanno semplicemente prolungato di
qualche anno il definitivo disfacimento della sinistra.
Il Partito Democratico, sebbene la
retorica cronachistica si ostini a iscriverlo in un'area di
“centrosinistra” ha palesemente rotto qualsiasi legame finanche
col più cauto progressismo ed è ormai a tutti gli effetti un
partito liberale e liberista.
Quel che rimane della cosiddetta
“sinistra radicale” è completamente isolato, sia dalle
istituzioni che dalla cultura e dalla società. Sinistra Ecologia e
Libertà, sebbene possa contare su uno sparuto gruppo di
parlamentari, non sembra sia in grado di incidere né sugli equilibri
politici né su un miglioramento più generale della società.
Ciò che è venuto a mancare è,
innanzitutto, un solido e coerente impianto teorico che formi una
linea politica chiara ed efficace. Basti guardare la formazione
vendoliana, la più numerosa della sinistra ormai in via di
estinzione. Rigettato Marx e il marxismo, ci si ispira a una fumosa
“etica dei diritti”. Scompare qualsiasi critica strutturata del
capitalismo e subentrano generiche istanze emancipazioniste, volte
alla tutela delle minoranze (gli omosessuali, gli immigrati, ecc.) ma
in un ottica del tutto “sistemica” che non mette minimamente in
discussione i rapporti di classe, pretendendo di realizzare le
proprie istanze all'interno della struttura sociale data. È assente
una visione olistica capace di inserire le singole rivendicazioni in
una più ampia lotta che tenti di rovesciare o quanto meno modificare
l'organizzazione di classe della società, prerogativa di tutte le
sinistre. Ogni determinata aspirazione emancipativa è considerata in
modo astratto e isolato, senza che possa venire inclusa in una più
ampia e complessa istanza collettiva. A dispetto del nome, è
legittimo domandarsi, che cos'è che rende lecito iscrivere il
partito di S.E.L. nell'orizzonte storico della sinistra italiana?
Domanda alla quale nessuno finora ha saputo dare risposta.
Domina ovunque, ormai, anche tra le
macerie della sinistra, l'ideologia liberale, fosse anche, nel
migliore dei casi, quella di un liberalismo progressivo. Anche questa
circostanza appare incongruente con quella che è la storia della
sinistra italiana ed europea, che si è sempre ritrovata in un'area
socialista, riformista o “massimalista” che fosse.
Con simili presupposti teorici, che per
usare un eufemismo potremmo definire avventuristici, con una simile
incapacità di interpretare l'epoca attuale e di formulare una
precisa proposta programmatica, non c'è da stupirsi che la sinistra
sia ridotta a nulla di più che a una nicchia.
Ma per capire come si è potuti
arrivare a questo punto bisogna andare a ritroso negli anni e
comprendere cosa sia successo a quello che è stato, e che rimane
tuttora, il più grande partito che la sinistra italiana abbia mai
avuto. Cioè il P.C.I.
I primi segni di cedimento teorico e
culturale, possono essere rintracciati nel corso della metà degli
anni '70. In questo periodo osserviamo alcuni “germi” delle
ideologie conservatrici (in particolare quella neoliberale)
infiltrarsi tra le fila del Partito Comunista Italiano.
Questo processo di progressiva
infiltrazione avviene quasi contemporaneamente in due ambiti: quello,
per così dire, interno,
socio-economico, e quello esterno,
del posizionamento nella politica internazionale. Per entrambi questi
ambiti c'è da segnarsi una data cruciale: 1976.
Per quanto riguarda
il primo punto, si assiste, in importanti settori del P.C.I., a un
cedimento della linea teorica marxiana in campo economico.
Sostanzialmente viene accolta da molti esponenti una tesi di tipo
marginalista, avanzata da Modigliani, che si andava affermando negli
anni della cosiddetta stagflazione (ovvero bassa crescita unita a
inflazione) secondo cui per favorire il progresso economico bisognava
che i lavoratori accettassero una riduzione dei loro salari; secondo
i suoi fautori questo avrebbe fatto crescere l'occupazione e ridotto
l'inflazione. Contro questa proposta c'era chi, come l'economista
Augusto Graziani, considerava i salari come una variabile delle lotte
di classe. Secondo Graziani l'aumento dei salari tra la popolazione
occupata avrebbe avuto l'effetto di produrre un aumento dei consumi e
di ridurre la disoccupazione. Tra le file dei cosiddetti
“miglioristi” quest'ultima tesi non venne accettata e venne
accolta l'idea che una riduzione dei salari fosse necessaria.
Ma
come è possibile, viene spontaneo chiedersi, che un dirigente di un
partito comunista possa accettare un simile punto di vista
palesemente conservatore e neoliberale? Per capirlo bisogna
considerare quello che era l'approccio del marxismo italiano
all'analisi macroeconomica. In esso era presente sovente un rigetto
di Keynes e degli strumenti critici offerti da quest'ultimo. Anziché
cercare di compendiare l'opera dell'economista inglese e di cercare
un ponte con Marx (come avevano tentato di fare Sraffa e lo stesso
Graziani) i comunisti spesso si limitavano a rigettare in toto gli
approdi keynesiani. In questo modo, si trovavano non di rado nella
posizione di dover far proprie tesi di impronta neoliberale. Si
ricordi, a questo proposito, la
posizione di Piercarlo Padoan,
attuale Ministro dell'Economia, che negli anni '70 scriveva su
Critica Marxista, il
quale sembrava afflitto dal terrore tutto liberista dell'inflazione.
La diffidenza (o la
sottovalutazione) della sinistra italiana nei confronti di Keynes è
costata la mancata comprensione della realtà capitalistica di quegli
anni e degli strumenti per affrontarla. Una teoria economica che mira
a importanti investimenti pubblici, alla crescita dei redditi da
lavoro, alla piena occupazione, alla riduzione dell'orario
lavorativo, poteva e doveva essere presa in considerazione con la
massima serietà da parte dei comunisti italiani.
Questo fu soltanto
il primo passo del processo di arretramento del marxismo e
dell'affermazione dell'egemonia neoliberale. Pochi anni dopo maturerà
la sconfitta sulla questione della “scala mobile”, la moderazione
salariale imposta dalla Banca d'Italia e, infine, la capitolazione
con la “flessibilità” dei contratti di lavoro.
Quelli che furono
gli eredi del P.C.I.- P.D.S.- D.S. e Rifondazione, non seppero fare
di meglio. I primi si iscrissero a pieno titolo al club dei liberisti
dell'ultim'ora, i secondi, pur criticando le politiche antisalariali,
di fatto finirono per accettarne numerosi presupposti. Come ad
esempio la rinuncia a un fisco espansivo e a un ampliamento degli
investimenti statali. Ancora una volta, il grande assente era Keynes
e Marx era sempre più defilato.
Ma veniamo al
secondo punto, ovvero il posizionamento del P.C.I. nella politica
internazionale. Nel '76, abiurando ufficialmente alla fino ad allora
tradizionale (seppur non priva di tensioni) adesione alla linea
sovietica, Berlinguer pose il suo partito in aperta rotta col
P.C.U.S. e appoggiò la NATO. Questo fu un avvenimento cruciale,
perché segnò il passaggio dei comunisti italiani dal sovietismo
all'atlantismo. Quest'ultimo fu un carattere che avrebbe continuato a
contraddistinguere la sinistra negli anni successivi, soprattutto in
seguito al crollo dell'URSS e alla svolta della Bolognina.
Con la segreteria
di Berlinguer i rapporti con il Cremlino sia erano fatti sempre più
difficili. Sicuramente l'Unione Sovietica non vedeva di buon occhio
una possibile partecipazione al governo del P.C.I., ma c'è anche da
dire che all'interno di quest'ultimo erano già maturate posizioni
filo-americane. I rapporti tra esponenti della corrente migliorista e
la diplomazia americana sono noti e risalgono agli anni '60. Molto
tempo dopo Henry Kissinger definirà Napolitano “il mio comunista
preferito”.
Sicuramente c'era
l'esigenza del P.C.I. di legittimarsi come partito di governo agli
occhi degli americani per rendere possibile il compromesso storico.
Sicuramente c'era il desiderio di emanciparsi dall'Unione Sovietica.
Ma nell'ambiente comunista mancò la capacità di comprendere la
necessità storica del blocco sovietico come garanzia di un assetto
mondiale multipolare – come si sarebbe mostrato in modo tragico a
seguito dei conflitti scatenati dal crollo del Muro di Berlino.
Il P.C.I. non seppe
esprimere una critica indipendente all'U.R.S.S. coerente con una
impostazione marxista, ma finì per adagiarsi sulla tradizionale
condanna di stampo liberal-democratico. Berlinguer non seppe trovare
nemmeno un'equidistanza tra i due blocchi, e il suo partito avrebbe
presto finito per essere assorbito del tutto nel campo atlantista.
L'“eurocomunismo” fu un progetto fumoso destinato presto a
implodere su se stesso.
La storia
successiva della sinistra sarà all'insegna dell'americanismo più
intransigente. Questo è dovuto all'incapacità di individuare
alleati diversi da quelli imposti dalla cultura neoliberista, gli
Stati Uniti, per costruire una piattaforma internazionale di tipo
antimperialista. La categoria dell'antimperialismo è completamente
dimenticata, oggi, dalla sinistra, o da quel che ne rimane.
La svolta del '91,
sancì ufficialmente quello che era ormai già evidente da alcuni
anni: il passaggio del P.C.I.-P.D.S. al campo liberale e atlantista e
il totale rigetto del marxismo. Quel che ne emerse non fu un partito
socialdemocratico riformista: il “centrosinistra” nato negli anni
'90 fu autore della più monumentale opera di privatizzazioni della
storia non solo d'Italia, ma forse d'Europa, ai cui governi aderì il
partito di Rifondazione.
Quest'ultimo è
stato segnato dalla linea di Fausto Bertinotti, la quale cercava di
destreggiarsi goffamente tra il tentativo di ricostruzione di una
forza che potesse dirsi comunista e le improponibili alleanze nei
governi di “centrosinistra”. Costanzo Preve definiva
efficacemente Bertinotti un “dilettante culturale e un
professionista della politica”. Come tale riuscì ad emarginare per
molto tempo le correnti non favorevoli alla sua linea, ma ebbe una
consapevolezza teorica improvvisata. Il pacifismo, la non violenza,
la difesa delle minoranze, erano più delle trovate estemporanee e
dei cedimenti al sentire comune dei tempi che conseguenze di una
lucida struttura teorica. Sopratutto, il marxismo dichiarato mal si
coniugava con una spregiudicata ed opportunistica pratica politica,
che in nome di un antiberlusconismo di moda e fine a se stesso
accettava improvvide alleanze. Rifondazione era contraddistinta ormai
agli occhi di tutti dal velleitarismo e dalla inettitudine
nell'incidere sulle dinamiche sociali.
Quel che è mancato
nella sinistra italiana, praticamente dal Dopoguerra, fu l'ideazione
di una teoria marxista originale coerente con le proprie premesse e
adatta alla realtà italiana. La triade sacra del Partito Comunista
Italiano, Marx, Lenin e Gramsci, da sola non bastava a fornire gli
strumenti per interpretare le specifica situazione della Penisola
quale fu quella successiva al conflitto bellico. In fondo tutti e tre
questi pensatori vivevano e scrivevano in contesti molto diversi da
quello in cui operava il P.C.I. togliattiano (e berlingueriano poi).
Non avevano assistito al secondo conflitto mondiale, né avrebbero
conosciuto quello che sarebbe stato l'assetto geopolitico scaturente
da esso e la particolare situazione dell'Italia. Lo stesso Gramsci,
che cercò di adattare il marxismo-leninismo alla specificità
nazionale, si trovava a osservare una società proto-capitalistica,
per larga parte molto arretrata. Quelle degli anni '50 e '60, invece,
era profondamente mutata e diventata una potenza industriale. Né
tanto meno gli equilibri geopolitici erano così netti e consolidati
come dopo Yalta.
Togliatti si trovò
a dirigere un partito comunista in un capitalismo compiuto, di un
paese posto sotto l'influenza degli Stati Uniti nel contesto
internazionale di una guerra fredda globale tra est e ovest. Uno
scenario che Gramsci non avrebbe potuto prevedere.
Così, tra il
marxismo leninista nella teoria, e una prassi realistica e
gradualista per necessità si creò uno iato. Il quale poteva essere
colmato solo da una originale lettura della società italiana del
tempo, che non escludesse un progresso all'interno del capitalismo,
pur mirando al suo superamento. Urgeva una raffinata analisi teorica,
ma gli intellettuali comunisti non ebbero né la libertà, né
l'intraprendenza per ripensare alle categorie marxiste, ostaggio
com'erano della secca alternativa tra l'adesione acritica alla linea
togliattiana e l'esclusione dai circuiti della cultura. Non riuscendo
a sanare questa frattura tra teoria e prassi, tra il comunismo
teorico e il riformismo pratico, accadde che fu quest'ultimo a
prevalere venendo risucchiato dalla corrente di pensiero egemonica.
Di conseguenza, la teoria neoliberale finì per sostituirsi del tutto
al marxismo che rimaneva astratto e non dialettizzato e perciò
inefficace. Quel che ne seguì fu il logico corollario. Ancora oggi
la sinistra, dalle sue “riserve”, pare del tutto impreparata a
una elaborazione teorica. Clamoroso è il fraintendimento, ad
esempio, del ruolo dell'euro e dell'Unione Europea, strumenti del
capitalismo finanziario per abbattere i salari e per trasferire
ricchezza verso le élite e che la sinistra ha abbracciato
fideisticamente sostituendoli all'internazionalismo proletario.
Pubblicato anche sull'intellettuale dissidente
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