La nascita di questo blog è debitrice
del tentativo di recuperare due tradizioni di pensiero economico e
politico tagliate fuori dall'egemonia culturale neoliberale, e quelle
che più hanno contribuito, nei decenni passati, al progresso
politico e sociale. L'abbandono di queste tradizioni ha comportato
l'erosione del potere d'acquisto delle classi popolari, una drastica
compressione salariale, la deregolamentazione del settore
giuslavoristico e lo smantellamento delle tutele del lavoro; la fine,
in sostanza, di un sistema di welfare sociale
sostituito da un vago e debole assistenzialismo; lo svuotamento, non
di meno, delle istituzioni democratiche e dei principi
costituzionali.
Da una parte, tutta
la scuola marxista, il suo contributo, teorico e pratico, alle lotte
sociali, alla presa di coscienza da parte dei lavoratori della natura
strutturalmente e inevitabilmente conflittuale della società
capitalistica, facendosi strumento del proletariato di tutto il mondo
per modificare quando non rovesciare i rapporti di produzione. Così
il lavoro si è trovato tutelato sul piano giuridico, oltre che su
quello sindacale, grazie all'azione politica di quelle forze
socialiste o comuniste che hanno portato i suoi interessi all'interno
della dialettica istituzionale e parlamentare.
Dall'altra il
pensiero economico keynesiano, che ha esercitato grande influenza
sulle azioni dei governi europei e occidentali dal dopoguerra fino
alla fine degli anni '70. Esso ha permesso politiche espansive della
domanda, di sostegno ai redditi e all'occupazione e tendenzialmente
votate alla riduzione delle diseguaglianze sociali. Ha permesso di
piegare la logica del capitale privato, attenta ai risultati di breve
termine, a un compromesso accettabile tra le classi dirigenti, il
Capitale e il Lavoro, che ha consentito per alcuni decenni
un'espansione economica ordinata.
Pur non mancando i
tentativi di conciliare sul piano teorico queste due “anime”
della società capitalistica tardo-novecentesca, come testimonia la
riflessione di pensatori come Piero Sraffa o di un precursore come
Michal Kalecki, è sul terreno pratico che si è vista una loro
integrazione.
Proprio le
politiche espansive della spesa pubblica e di direzione dello Stato
della programmazione industriale hanno permesso una consistente
riduzione della disoccupazione, quando non, in alcuni momenti e in
alcune aree geografiche, il raggiungimento della piena occupazione
preconizzata da Keynes, quindi la crescita del potere d'acquisto dei
salari, e dunque il rafforzamento del potere contrattuale della
classe lavoratrice. La quale sul terreno sindacale e politico ha così
potuto concretizzare questa posizione con adeguati strumenti
legislativi e contrattuali.
La crescita degli
investimenti legata al livello occupazionale e salariale era resa
possibile non tanto dalla contingenza dei mercati e delle condizioni
economiche extra-politiche, come vorrebbe una certa lettura
neoliberale, quanto dall'intervento del capitale pubblico e dal patto
“silenzioso” sancito dalle classi dirigenti politiche con il
Capitale nazionale privato e con il Lavoro.
Ovviamente questo
patto è ben lungi dall'essere stato così fluido e privo di tensioni
come potrebbe apparire. Senza un adeguato coordinamento del conflitto
sociale e una idonea organizzazione a livello sindacale e politico
della classe operaia, ben difficilmente si sarebbe potuto realizzare.
Le politiche di sostegno al reddito e di tutela del lavoro, andavano
di pari passo con l'avanzare delle rivendicazioni, del progredire
della forza e della coscienza dei lavoratori.
Il più
insoddisfatto di questa situazione era il Grande Capitale. Non tanto
per un mero calcolo economico. Come ci insegna Kalecki, il
capitalista spesso è disposto a sacrificare una parte del profitto
pur di non scontrarsi con una forte classe operaia. La bassa
disoccupazione, le tutele giuridiche, gli alti livelli salariali,
addirittura l'indicizzazione di questi all'inflazione, creavano le
premesse per rivolte e scioperi sempre più diffusi, oltre a minare
quell'“esercito industriale di riserva” descritto da Marx,
situazione che i capitalisti non vedevano certo di buon occhio. Quel
compromesso, in effetti, che pur aveva dato i suoi buoni frutti e che
aveva portato le società occidentali, ed europee in particolare,
forse all'apice del progresso sociale e politico, si reggeva su un
filo sottilissimo. I suoi limiti risiedevano nella natura stessa del
modo capitalistico di produzione, che vedono il Capitale
inevitabilmente contrapposto al Lavoro, come spiega la teoria
marxiana del plusvalore. La sapienza tattica delle classi dirigenti
politiche, quantomeno nei suoi elementi più illuminati, non poteva
bastare a tenere assieme più a lungo due mondi in conflitto
permanente.
Si
doveva giungere a un bivio: o sarebbe prevalsa la spinta
rivoluzionaria della classe lavoratrice, e quindi l'inaugurazione di
un era post-capitalistica, attraverso una forma di governo di tipo
socialista, oppure, avrebbero vinto gli interessi politici, oltreché
meramente economici, del Capitale, con una conseguente epoca di
restaurazione.
Sappiamo quale
delle due strade ha prevalso. La prima alternativa era improbabile
potesse verificarsi, non solo in virtù della
“socialdemocratizzazione” dei partiti marxisti e dell'esaurirsi
della spinta propulsiva delle lotte, ma anche a causa del contesto
geo-politico internazionale che non permetteva sbocchi rivoluzionari,
come fu chiaro fin da subito (forse in maniera fin troppo
speculativamente disincantata) al Partito Comunista Italiano.
Certo, forse
sarebbe stato possibile rinnovare quel compromesso, come si provò a
fare ad esempio in Italia, con la partecipazione del PCI a un governo
di coalizione. Ma quell'esperienza fu troncata troppo presto per
avere un riscontro fattuale di questa ipotesi, e in modo persino
violento, a dimostrazione della chiusura di quella prospettiva.
L'entrata
dell'Italia nel Sistema Monetario Europeo, ne avrebbe sancito
ufficialmente la fine nel paese del più grande partito comunista
d'occidente, e non solo in quello. L'avvicendamento ai vertici della
Banca d'Italia, e il nuovo corso inaugurato dalla linea
Ciampi-Andreatta, con la ribalta di una politica economica di tipo
monetarista e anti-inflazionistico, costituivano la prova più
lampante della svolta favorevole al Capitale appena avvenuta.
L'eliminazione
sistematica e scientifica (per via giudiziaria quando non in modo
terroristico come nel caso Moro) di quella classe dirigente che aveva
in un modo o nell'altro, e non senza contraddizioni, sostenuto il
compromesso, fece tabula rasa
di ogni velleità di opporsi al nuovo corso. Ciò che ne rimase
furono gli elementi più funzionali al nuovo progetto, ovvero quelli
che nei vecchi partiti erano rimasti fino ad allora nell'ombra, e che
potevano ora occupare le principali cariche istituzionali senza
nessun ostacolo effettivo. Stesso percorso subirono le organizzazioni
sindacali, fagocitate dai nuovi ricorsi storici, incapaci di reagire,
al massimo posizionate su una linea stancamente difensiva. Il
risultato fu quello che oggi vediamo. Ovvero l'erosione inarrestabile
dei salari, la cancellazione delle tutele giuridiche e contrattuali,
la disoccupazione galoppante, il disincanto e la perdita di coscienza
di classe dei lavoratori, la fine delle politiche keynesiane, e il
dominio dell'“austerità” di cui oggi vediamo i malaugurati
frutti.
Venuta a mancare
un'opposizione sociale, oltreché politica, alla restaurazione
capitalistica, anche la dialettica democratica e istituzionale non
poteva non risentirne. Tutto lo spettro parlamentare doveva
appiattirsi sulla visione noeliberale e sedicente “tecnica” o
“post-ideologica”.
Lo
svuotamento delle istituzioni democratiche fu perseguito anche sul
piano formale, attraverso la cessione di sovranità degli stati
nazionali a un organismo sovra-nazionale europeo totalmente privo di
meccanismi di controllo democratico o persino di bilanciamento dei
poteri.
La moneta unica,
salutata dalle ex seconde linee di dirigenti come foriera di pace e
benessere, non avrebbe fatto altro che inasprire le diseguaglianze,
istituzionalizzando le annose pratiche neoliberali improntate ad un
contenimento, sganciato da qualsiasi logica macroeconomica,
dell'inflazione in un contesto deflazionistico, e al rigore di
bilancio in un contesto di asfissia della domanda.
A tutto questo è
da aggiungersi l'incapacità della sinistra (al netto del cosiddetto
“centrosinistra” fraudolentemente presentato come schieramento
progressista), e di quelle forze votate alla difesa degli interessi
della classe lavoratrice, di leggere i rivolgimenti in corso e la
portata dell'ondata restauratrice; di comprendere gli strumenti
adoperati dal Grande Capitale industriale e finanziario; di
intercettare il malcontento popolare e tradurlo in una proposta
politica adeguata alla realtà capitalistica contemporanea.
La dimostrazione di
ciò è l'incomprensione da parte della sinistra del ruolo della
moneta unica. Ci si è illusi che questa potesse convivere con un
diverso tipo di politica monetaria, non capendo che è stata
progettata dalle élite dominanti proprio per impedire
qualsiasi tipo di governo alternativo al monetarismo imperante.
Le élite
capitalistiche hanno ottenuto non solo la protezione dei loro
capitali grazie al tasso di cambio fisso, esigenza maturata a seguito
della estrema mobilità internazionale di essi favorita dal processo
di deregolamentazione dei mercati dell'Unione Europea, ma la moneta
unica è stato anche un efficace strumento di controllo politico
sulle masse. Con essa e con i trattati che la regolano è aumentato
il tasso di disoccupazione, permettendo di ricostituire
quell'“esercito industriale di riserva” funzionale al dominio
capitalistico. Inoltre la rigidità del cambio (sottratto al governo
degli stati che si sono visti privati di strumenti valutari per
proteggere la produzione nazionale) rendendo inattuabile una
svalutazione monetaria ha costretto a una deflazione salariale senza
precedenti.
Diventando
impossibile – in virtù dei vincoli di bilancio imposti dai
trattati – dare stimolo alla domanda interna, diventando
impossibile – in virtù della moneta unica sottratta al governo
degli stati – deprezzare il cambio, l'unica strada praticabile
diveniva quella della competizione su scala globale sul costo del
lavoro, e dunque l'ingresso in una spirale di continua contrazione
dei salari reali. Questi fatti, accertati dalla ricerca economica
oltre che dall'evidenza empirica, sono stati inspiegabilmente
tralasciati dalla sinistra (quella cosiddetta “radicale”) la
quale continua a inseguire il “sogno” dell'integrazione europea,
senza capire che esso è un vestito cucito su misura per le élite
capitalistiche. È altresì evidente come le istituzioni europee
siano prive di qualsiasi meccanismo democratico, essendo lo stesso
parlamento, l'unico organo eletto a suffragio universale, privo di un
reale potere legislativo e persino di veto rispetto alle decisioni
della Commissione Europea. Altrettanto improbabile appare riformare
queste istituzioni proprio a causa della loro completa indipendenza
dagli stati e dalle leggi nazionali come da qualsiasi meccanismo di
controllo democratico. Anzi, la burocrazia europea ha finito per
fagocitare gli stati, rendendoli delle mere propaggini dei suoi
poteri e dei suoi scopi.
Grazie a questo
“golpe silenzioso” le élite hanno potuto esautorare gli stati
nazionali e le carte costituzionali e accelerare il processo
restaurativo senza curarsi minimamente della volontà popolare.
La sinistra
incapace di avanzare una proposta politica di rottura rispetto allo
status quo politico ed economico si è perduta in un astratto
riformismo privo di qualsiasi aggancio alla realtà concreta. Ha
finito per riproporre magari con diversi accenti, le stesse riforme
degli apparati europei delle altre forze politiche, che sempre più
appaiono come il pretesto per non cambiare nulla, più che la
realizzazione della dichiarata volontà di cambiare tutto.
La sinistra ha
abbracciato il sogno europeo forse vedendolo come surrogato
dell'internazionalismo proletario ormai abbandonato; forse credendo
di usarlo contro i nazionalismi. Non comprendendo, in realtà, quanto
questo nuovo internazionalismo capitalistico fosse il più efficace
strumento di oppressione nella società contemporanea. E che l'unico
modo per difendere il lavoro a livello planetario fosse non
assecondarlo, quanto combatterlo con l'arma degli stati nazionali.
Solo partendo da una prospettiva nazionale è possibile portare
avanti un vero internazionalismo di classe.
Quale miglior
esempio della direttiva Bolkestein, che esautora le leggi e i
contratti nazionali, permettendo di sfruttare il lavoratore
privandolo degli strumenti di protezione disposti nel proprio paese?
Non è certo
l'internazionalismo del Capitale che aprirà la strada al socialismo
(uno dei pochi errori di Marx) ma soltanto la capacità delle classi
popolari di usare lo strumento stato per difendersi dall'aggressione
del Capitale internazionale.
Quello che occorre
è ricostruire ciò che Gramsci chiamava “volontà collettiva
nazional-popolare” che permetta alle classi popolari di proteggersi
non solo dalle tensioni interne create dalle élite nazionali, ma
anche da quelle esterne, che esercitano oggi la più potente,
efficace e pervasiva forma di oppressione.
Questa lotta deve
unire non solo le classi operaie nazionali, ma anche quei settori
della piccola borghesia anch'essi soggetti alla selvaggia aggressione
dell'internazionalismo capitalista.
In particolare la
battaglia contro la moneta unica e l'Unione Europea, strumenti di
tirannia contro tutti i popoli europei, i quali possono risollevarsi
soltanto recuperando uno spazio di dialettica democratica all'interno
dei confini nazionali. Va ricostituito una sorta di nuovo Comitato di
Liberazione Nazionale che unisca tutte le anime democratiche e
popolari della nazione opposte a questo nuovo fascismo europeo.
Ciò non significa,
tuttavia, che vada abbandonata una prospettiva rivoluzionaria.
Rinunciare alla volontà di rovesciamento dei rapporti sociali
sarebbe la peggiore vittoria che si possa concedere al dominio
capitalistico.
Va invece ripensato
il ruolo delle classi sfruttate e la funzione dello stato-nazione.
È soltanto,
infatti, con una legislazione favorevole e una politica keynesiana,
come si è prima mostrato, che la classe lavoratrice può difendersi
e strappare importanti vittorie.
Ma queste da sole
non bastano. Abbiamo prima visto come un compromesso sociale può
reggere per un certo periodo ma è destinato presto a rompersi. La
conflittualità lavoro-capitale è inestricabile ed essa prima o poi
presenterà il conto. Tanto più oggi, quando un nuovo patto col
Capitale nazionale è difficilmente riproponibile. Occorre che allora
la classe lavoratrice sappia farsi trovare preparata per affrontare
questa più difficile battaglia.
Il keynesismo,
sebbene spesso sottovalutato dai marxisti, può essere un mezzo per
collegare un governo che opera a favore del lavoro, sia pure in un
contesto capitalistico, con la transizione verso una forma di stato e
di governo socialista.
Proprio infatti il
maggior potere che acquisirebbe la classe operaia, e quindi la
migliorata capacità di organizzarsi, a seguito delle politiche
espansive della domanda (e quindi di tutela dei redditi e di piena
occupazione) le darebbe quella forza anche politica perché da
egemone possa diventare dominante.
Occorre qui
sgombrare il campo da tutte quelle visioni utopistiche e
auto-consolatorie che predicano la rivoluzione come effetto quasi
automatico di una crisi del capitalismo. È vero piuttosto il
contrario, e le vicende di questi anni dovrebbero confermarcelo. Il
peso delle crisi capitalistiche viene scaricato quasi interamente
sulle classi subalterne, le quali perciò possono soltanto
indebolirsi, invece che rafforzarsi, e incapaci di reagire in modo
organizzato restano in balia dei loro aggressori.
Risulta chiaro
infatti come la distruzione degli strumenti giuridici di tutela del
lavoro sia stata perseguita assieme all'“alleggerimento” del
ruolo dello stato e della sua azione economica di stimolo alla
domanda e di sostegno ai redditi medio-bassi. Questa circostanza,
frutto di una chiara volontà politica delle élite, ha posto le basi
per una crisi di portata storica, assurdamente attribuita alla
onerosità dei debiti pubblici degli stati e invece effetto
dell'indebitamento privato.
Per questo,
soltanto in una fase espansiva del capitalismo (cioè quella in cui
lo stato sostiene salari e occupazione) è possibile realizzare una
transizione verso una forma di governo socialista. Essa sarebbe
l'unica possibilità per scongiurare derive restauratrici come quella
che attualmente si sta verificando. Il monito di Rosa Luxemburg
“Socialismo o barbarie” è perciò ancora valido, ma sul medio e
lungo periodo, quando il conflitto sociale non può più essere
contenuto da un intervento keynesiano e urge passare a forme più
avanzate di governo. L'unico modo per garantire una pace sociale
duratura rimane quello di eliminare le vere cause del conflitto,
ovvero le differenze di classe e lo sfruttamento capitalista.
Caro Matteo V. Sin dalle prime righe mi sono reso conto di essere in un blog di alto livello. Questo non tanto per le idee che posso condividere o meno, ma per la cognizione di causa con la quale vengono sostenute.
RispondiEliminaDi certo ritengo, come te, che occorra superare il sistema capitalista per arrivare a un sistema di nuovo tipo in cui non esista plusvalore. Marx è stato di certo un maestro nello spiegare questa problematica, ma ritengo che solo il marxismo di interpretazione comunitarista, ossia quello di Costanzo Preve e Diego Fusaro, possa costituire una piattaforma politica alternativa adatta. Si tratta in sostanza di abolira la proprietà privata dei mezzi economici a favore di una socializzazione integrale condotta dalla figura del lavoratore cooperativo, il tutto incrociato a forme di produzioni locali quanto più possibili autocentrate.
Nutro invece dei dubbi sul keynesismo come "taxi" ce possa condurci nella transizione tra la fase capitalista e quella rivoluzionaria. di certo occorre un nuovo ruolo dello stato, ma Keynes, per quanto poco possa conoscerlo, presenta in questo delle ombre. A suo modo è stato un monetarista, solo in modo diverso e il fatto che oggi i neokeynesiani non si definiscano monetaristi è autoreferenziale (mi riferisco ad esempio ai sostenitori della MMT). Lo sviluppo keynesiano, condotto dallo stato, è uno sviluppo ad emissione monetaria, e fin qui ci siamo, ma pur sempre a debito e non viene mai specificato chi debba essere il detentore di questo debito. Inoltre Keynes ha usato l'immagine provocatoria dei cittadini disoccupati che, piuttosto che esser lasciati con le mani in mano, dovrebbero essere pagati per scavare buche e poi riempirle, solo per far girare quattrini e far ripartire l'economia. Su questo non sono d'accordo, al netto della provocazione metaforica, in quanto se uno stato dispone di risorse per far lavorare i disoccupati allora a maggior ragione ne ha per NON farli lavorare, per esempio scontando dall'imposizione fiscale i soldi che userebbe per lavori pubblici non utili (come appunto quelli per occupare strumentalmente gli inoccupati) o finanziando con sussidi i settori che hanno bisogno, favorendo così in modo più sano una ripresa economica senza fare danni, ad esempio ambientali, con opere che non servono (oggi ve ne sono fin troppe in agenda).
Ma quello che veramente non condivido è l'idea della moneta svalutabile, questo configura una differenza di vedute su questo tema importante, ma ne parleremo ancora.
Complimenti e buon lavoro.
Parto da una delle tue ultime osservazioni "non sono un economista". Benissimo, va tutto a tuo vantaggio. L'economia infatti non è una scienza naturale ma un insieme di convenzioni che hanno effetto solo perché ci si comporta come fossero, appunto, lggi di natura. Per questo motivo è invece doveroso mutare proprio il paradigma. Il problema per noi non deve essere quello di giustificare le proprie idee in base a quanto afferma l'economia intrasistemica, semmai crear un'economia nuova in cui i vecchi economisti si scoprano analfabeti.
RispondiEliminaDetto questo hai ragione sul comunitarismo ma è proprio lì che voglio arrivare, al netto del timore marxista sulla vecchia merda. La decrescita, che deve articolarsi prima di tutto in un accorciamento delle filiere artificialmente lunghe (e quindi calo di PIL ma non dei beni disponibili) e poi in un ridimensionamento dei consumi, e la Comunità che la sostiene non ha alcuna prtesa di efficienza produttiva. Parliamoci chiaro, io non avrei più il frigorifero, ma dovrei condividere la ghiacciaia con altre tre o quattro famiglie, magari genitori, zii e cugini, questo proprio perché le comunità di per sé, non essendoci più una polarizzazione delle produzioni industriali ad alto livello tecnologico e specializzazione, non possono assicurare la quantità e nemmeno la varietà di beni che si hanno oggi. Ma non me ne importa nulla, in quanto non è su questo che si fonda la Comunità, il bene sarebbe solo strumento di vita e non il fine. Il timore di Marx deve essere sventato riscoprendo il vecchio tipo d'uomo, lo zoon politikon aristotelico, mentre il marxismo, alla fin fine, non ha saputo uscir da una dimensione individualistica, cosa che poi ha portato alle degenerazioni della sua proposta iniziale.
A presto!
Capisco il tuo punto di vista, ma onestamente non so quanto sia desiderabile una società di questo tipo. Non so neanche se sia sostenibile e se, infine, non conduca a un regresso culturale oltreché economico, scientifico e tecnologico e quindi a una nuova barbarie. In fondo anche le comuni storicamente esistite hanno subito delle degenerazioni abbastanza inquietanti.
EliminaInfondo questa prospettiva si basa su un assunto: che il frigorifero e altre merci siano la soddisfazione di "bisogni indotti" come sosteneva Marcuse. Ma non mi è chiaro su quale base distinguere tra bisogni indotti e bisogni "reali". In fondo, portando all'estremo questa teoria, si potrebbe dire che gli unici bisogni reali siano soltanto quelli connessi al cibo e al sesso e dunque alla riproduzione biologica dell'individuo e della specie. Ma allora che cos'è che ci rende uomini? Dove va a finire l'aspirazione umana alla conoscenza, ad esempio, o ai cosiddetti "diritti" come il lavoro, la casa, le cure mediche, il riposo e lo svago, l'arte, e anche il desiderio di migliorare la propria condizione individuale e sociale? Anche questi in effetti sono bisogni indotti.
Io penso che bisogna distinguere tra la proprietà delle cose e la proprietà dei mezzi di produzione. Quest'ultima deve essere collettiva, ma non bisogna escludere forme di proprietà privata e di consumo di massa, anche se, auspicherei, di un tipo diverso di consumo, non funzionale al dominio capitalistico di una classe sociale sulle altre, ma al progresso sociale, economico e culturale.
Questo è molto interessante. Condivido naturalmente la parte finale, devono essere private "la casa e le cose" per dirla con un vecchio adagio, mentre i beni economici vanno socializzati (è il punto centrale del programma del movimento in cui milito). Ma per quanto riguarda il discorso sui bisogni indotti sono sempre in difficoltà nel discuterne, non perché sia un'obiezione difficile da gestire ma perché, al contrario, troppo superata. Del resto per rivoluzionare la realtà occorre comprenderne la Totalità, e non le singole Parzialità, e per questo è necessario anche un approccio alle cose che trascenda la materia. E' quindi il livello di una Coscienza risvegliata che aiuta ad eliminare i bisogni indotti e del resto penso possiamo essere d'accordo che se da un lato una parte dei bisogno varia da una persona all'altra, è altresì vero che un furgoncino per muratori tende ad essere bisogno reale mentre la Cayenne è sempre e solo inutile.
EliminaCuriosa la tua posizione sul discorso di civiltà, se vuoi ne parliamo. Io ho sempre pensato che il sistema attuale con la sovrapproduzione sia un ostacolo proprio all'elevazione della persona e alle sue vocazioni. Idem per la cultura. Le civiltà passate, proprio perché libere da bisogni indotti (attenzione bene: non confondiamo i bisogni indotto in termini di consumismo con la legittima aspirazione umana alla scoperta e alla conoscenza!) sono riuscite a progredire meglio e più velocemente dimostrandosi capaci di cose che oggi ci lasciano sbalorditi. E infatti oggi siamo in fase di piena decadenza di civiltà da ogni prospettiva.
Che ne pensi?
Ma che cosa sono questi bisogni indotti? E quali sarebbero i bisogni reali? Io ipotizzo (ma sarebbero utili ricerche più approfondite) che l'origine di questi concetti risalga al dualismo autonomia/eteronomia del pensiero illuminista, in Rousseau e in Kant in particolare.
EliminaDi conseguenza, i bisogni indotti sarebbero quelli che sorgono non dall'individuo ma sono imposti da un agente esterno.
Ora però questo mi pare molto problematico, visto che lo stesso concetto di individuo non è un'entità astratta e preesistente all'ordine sociale, ma esso stesso una sovrastruttura e il risultato di condizionamenti di vario tipo. Di conseguenza mi sembra difficile tracciare una linea tra bisogni indotti e bisogni reali. Anche questi ultimi, in effetti, in quanto pensati come reali, sono il risultato di una "eteronomia" sociale.
A mio avviso bisognerebbe proprio abbandonare il paradigma. Più che definire, allora, una società su una classificazione dei bisogni individuali, sarebbe utile ripensare a concetti come "sviluppo" o "progresso" da un'ottica collettiva. Quindi, invece di commisurare nuovi bisogni, che corrispondono a un'etica della rinuncia (seppure rinuncia non della soddisfazione dei bisogni ma dei bisogni stessi) si dovrebbero ripensare nuovi paradigmi di sviluppo che mettano al centro non l'interesse di una classe rispetto alle altre, ma lo sviluppo armonico dell'individuo e della società (e per far questo ovviamente bisogna abolire le classi e quindi instaurare il socialismo).
Diciamo che su questo non concordo con le tue premesse pur arrivando, alla fine, alla stessa conclusione, ossia alla necessità del socialismo. Del resto, visto che hai parlato della necessità di mutare i paradigmi, posso dire di esser certo che la rivisitazione del concetto di sviluppo in termini di armonia tra singolo e collettivo porterebbe inevitabilmente a una revisione dei bisogni, riducendoli.
RispondiEliminaNon è vero secondo me che l'individuo è una sovrastruttra, al contrario le oligarcie sanno bene ce esso esiste quale entità astratta e da sempre la lotta dei poteri contro i popoli si configura come imposizione dell'In-dividuum quale figura sociele tipo contro lo zoon politikon aristotelico. Qui entriamo in una discussione che ho affrontato innumerevoli volte e che non mi va di approfondire ancora perché ci allontanerebbe troppo dal nostro dal discorso, basti dire che l'individuo, colui che non può più essere diviso, altro non è che il singolo amputato dei propri legami comunitari. Non avendo più accesso alle soddisfazioni e agli appagamenti interiori e immateriali tipici dello zoon politikon, l'individuo muta il proprio agire verso la società da un atteggiamento di sinergia spontanea a uno di predazione. Sottraendo agli altri cerca di soddisfare un continuo bisogno mai del tutto appagato. E' in questo modo che la circolarità di vita che caratterizzava l'uomo antico è stata sostituita dalla spirale di quello moderno ed ecco perché il capitalismo predatorio, col suo corollario di bisogni indotti (indotti non dal mercato, ma dal consumatore!!!!!) si è imposto come perfetto sistema atto a ripdodurre queste dinamiche.
E' un piacere, alla prossima!
Hai posto diverse questioni che sarebbe difficile affrontare qui brevemente.
EliminaProvo a fornire qualche chiave interpretativa.
- Bisogna partire dalla produzione non dal "consumo". Il concetto stesso di "consumo" è controverso. Consumare implicherebbe usare fino al logoramento l'oggetto, mentre nel capitalismo avviene l'esatto contrario. Questo perché la merce non è prodotta per l'uso, ma per lo SCAMBIO. E' una questione che Marx affronta in maniera illuminante parlando del feticismo delle merci. A mio avviso è da qui, che bisogna partire, la chiave sta A MONTE del processo di produzione, più che a valle.
- Dire che ci saranno più o meno bisogni in una società liberata, è una questione che non mi pare dirimente. Il punto è, semmai, se i bisogni che vi saranno potranno essere soddisfatti in modo pieno e non illusorio.
- Sono d'accordo sull'individuo astratto del capitalismo. Il punto è: oggi abbiamo un altra tipologia di individuo? Io penso di no. L'individuo che abbiamo oggi è quello alienato, espresso dal pensiero cartesiano. In una società alienata può esistere soltanto un individuo alienato.
Non può esistere l'individuo "che sarà", il quale appunto "sarà", e quindi "non è".