Se qualcuno si è fatto illusioni sui partiti cosiddetti populisti in merito alla loro presunta opposizione ai dispositivi economici in vigore deve oggi fatalmente ricredersi.
Molti, nell’euforia di alcuni esiti elettorali, si sono rappresentati una contrapposizione irriducibile e all’ultimo sangue tra due schieramenti, globalisti da una parte e populisti dall’altra. I primi sono espressi politicamente dai partiti, dalle correnti e dagli individui che tradizionalmente hanno gestito e gestiscono il potere politico in Occidente (da Bush a Clinton, da Holland a Macron, da Blair a Cameron, da Merkel a Schultz, da Monti a Renzi); questi sarebbero i rappresentanti del globalismo economico più spinto e i nemici giurati dei populisti, i quali invece formerebbero un fronte variegato e trasversale che però ha in comune l’opposizione intransigente al “mondialismo” dei primi; si va così dalla Le Pen a Salvini, da Farage a Trump, passando per Podemos e Grillo.
Questa narrazione – che è complementare a quella di chi vede nella globalizzazione un momento di progresso e non riesce a individuarne le dominanti istanze de-emancipative – ha una grande carica semplificatrice e come tutte le semplificazioni emana un enorme fascino. Peccato che è falsa.
La storia, come sempre, fa giustizia di tutte queste frettolose e illusorie interpretazioni. La lotta anti-austerità della sinistra greca di Syriza si è dialetticamente mutata, con l’ascesa di Tsipras al governo, nel suo contrario, perché non costruita su una solida base teorica e su una analisi economica all’altezza. Trump, considerato il simbolo della “deep America” dimenticata dalla globalizzazione, appena eletto si è allineato alla politica estera aggressiva e imperialista dei suoi predecessori, minacciando Iran, Cina e Corea del Nord. Marine Le Pen, paladina della destra antimondialista, ha cominciato ad ammainare la bandiera della retorica anti-euro ben prima della netta sconfitta inflitta da Macron. Questa è la strada seguita anche dai populisti nostrani, Lega Nord e Movimento Cinque Stelle. Salvini, che deve la sua ascesa alla folata pseudo-sovranista e alla polemica contro l’Euro, ha cominciato a marginalizzare questi temi dalla sua agenda e ad attenuarne la iniziale intransigenza. Così scopriamo a un tratto che “Stare in Europa sì, ma da pari a pari, non con il cappello in mano” e che non si parla più di uscita dall’euro perché sarà l’euro che “cadrà”, quindi “o faccio finta di niente fino al giorno in cui cadrà, oppure mi preparo un attimo prima e penso a cosa fare il giorno dopo prima che il tetto mi crolli sulla testa”. Del resto la possibile alleanza con Berlusconi, che contro l’euro non lo è mai stato, è già una prova delle reali intenzioni del Carroccio. Nel partito esiste un’anima profonda di leghisti della prima ora per nulla soddisfatti degli ammiccamenti di Salvini a economisti come Borghi o Bagnai; quest’ala, composta da dirigenti di primo piano quali Maroni, Zaia e lo stesso Bossi, non vuole alienarsi il possibile appoggio di banche e industriali e non ha mai mostrato nessun interesse per l’anti-eurismo, che anzi sembra aver finora tollerato con fastidio. D’altro canto lo stesso programma economico leghista è tutt’altro che una dichiarazione di guerra alle oligarchie economiche, con la sua proposta di aliquota fiscale non progressiva a vantaggio dei ceti più ricchi.
Ma il Movimento Cinque Stelle non è da meno. Non si contano le volte in cui Grillo ha cambiato idea sull’euro, a seconda dell’occasione e delle indicazioni demoscopiche, ma, a parte questo, sembra lanciato Luigi Di Maio come candidato incontrastato del Movimento, ovvero uno dei dirigenti meno “antagonisti”, anche nella retorica. Sostenuto da Davide Casaleggio è il volto rassicurante dei Cinque Stelle quando questi devono presentarsi di fronte al potere economico. Di Maio sfruttando l’occasione propizia ha subito chiarito che l’uscita dell’euro resta un’eventualità improbabile, e ha ribadito l’adesione indiscussa all’Unione Europea[5], che comunque non è mai stata messa in dubbio. Al Forum Ambrosetti, di fronte quindi alla platea più globalista ed europeista che si possa immaginare, Di Maio ha avuto cura di specificare che “Non vogliamo un’Italia populista, estremista o anti-europeista” è ha dichiarato la sua ammirazione per il governo di Rajoy, i cui tagli alla spesa sociale e la cui aggressione ai diritti dei lavoratori sono abbastanza noti. Lo stesso programma dei Cinque Stelle, con la proposta del reddito di cittadinanza, sebbene possa apparire come progressiva, è in realtà un ricatto ai lavoratori.
Al Forum di Cernobbio c’erano le due promesse del populismo italiano, con Di Maio anche Salvini. La loro partecipazione non è certo casuale, ma serviva a tranquillizzare le oligarchie la cui egemonia i due demagoghi non sono intenzionati a porre in discussione. Tutti i demagoghi percorrono sempre la stessa parabola: un’iniziale opposizione rabbiosa al potere, più o meno radicale, ma irriflessa, che sfrutta l’insoddisfazione popolare senza chiarirla ed elevarla, che poi si muta progressivamente in piena legittimazione dello stesso man mano che quel potere si avvicina. Questo profilo è quello di Trump, della Le Pen, di Salvini, dei Cinque Stelle (ma anche, in un certo qual modo, di Renzi). Alcuni di questi populismi irriflessi, e La Lega e i Cinque Stelle sono i casi esemplari, toccano in realtà solo marginalmente questioni che potrebbero irritare le oligarchie e incidere sull’assetto socio-economico. Queste questioni, però, sono considerate in modo astratto e isolato, private quindi della loro carica potenzialmente sovversiva. È il caso della sovranità, che viene intesa in senso esclusivamente monetario, come semplice proprietà della moneta, dimenticando la sovranità economica, quella militare e quella popolare. Questi partiti populisti, infatti, possiedono al proprio interno gli anticorpi per disinnescare ogni possibile deviazione anti-oligarchica. Tali anticorpi sono dovuti in primo luogo alla totale assenza di una struttura teorica (e spesso anche burocratica, come nel caso dei Cinque Stelle) che permetta un’analisi adeguata della condizione attuale, e che costringe a puntare tutto sulla rabbia popolare mediatizzata e sul malcontento irriflesso; in secondo luogo alla centralità di questioni mediaticamente rilevanti ma del tutto irrilevanti sul piano dei rapporti economici e del dominio di classe, quali lo sbarco di immigrati o i vitalizi politici.
Dunque, lungi dall’essere un’arma antiglobalista e antioligarchica, tantomeno antiliberista e anticapitalista, il populismo non intende – e non ne sarebbe neanche in grado – modificare l’assetto socio-economico neoliberale, ma vuole soltanto contendere ai partiti attualmente al governo la gestione politica di quell’assetto. Si tratta perciò di una lotta tutta interna al “fronte” (se così si può chiamare) globalista e neoliberale. La vera opposizione a quest’ultimo a livello politico non è ancora nata, e nascerà soltanto quando si smetterà di inseguire la rappresentazione mediatica del popolo e si intraprenderà una vera analisi teorica della condizione attuale, affiancata da una struttura organizzativa solida.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente