Un
giovane senzatetto è stato assolto in Cassazione per aver rubato del
cibo per un valore di 4 euro per potersi sfamare. La sentenza ha
ribaltato quella della Corte di Appello che invece aveva
precedentemente condannato l’uomo per furto.
Molti
troveranno di che scandalizzarsi per un verdetto che dovrebbe essere
del tutto scontato. Come si può condannare un uomo per la sua
povertà e che per giunta non ha creato alcun danno che non sia
impercettibile? Eppure è proprio questo che è successo nel
precedente grado di giudizio, come in molti altri casi di persone che
hanno trovato giudici di diverso avviso. Dovrebbe stupire tanto più
in una società che dichiara la sua fede indiscussa per i “diritti
umani”, ma che tuttavia via non include la soddisfazione del
bisogno biologico della fame nel novero di questi diritti.
Le
società occidentali non considerano accettabile la censura (a
ragione), il mancato rispetto di diritti formali, come il suffragio
universale e la divisione amministrativa dei poteri (non sempre a
ragione) dividendo in modo manicheo il mondo tra “dittature” e
“democrazie” cioè tra paesi che si attengono al formalismo
occidentale e paesi che decidono, in modo spesso legittimo o almeno
non meno legittimo, di adottare modelli differenti. Tuttavia, non
ritengono altrettanto inaccettabile che una persona chieda
l’elemosina per strada: oppure ritengono inaccettabile solo il
fatto che questa persona “danneggi il decoro urbano”, ovvero
disturbi la loro coscienza. Per quale ragione? Perché mai morire di
fame e di freddo o essere costretti a dormire su una panchina sarebbe
eticamente meno grave che essere imprigionati per aver parlato male
del governo? Certo, nel primo caso non c’è un esecutore materiale
diretto che esegua, con decreto ufficiale, la condanna; ma cambia
qualcosa? Pur sempre esistono individui che con le loro azioni
provocano consapevolmente la miseria di molti altri. Pur sempre i
meccanismi sociali e politici agiscono in modo autonomo, ma non del
tutto autonomo e completamente sottratto al controllo dei singoli.
Nell’un caso, si tratta dell’apparato burocratico, nell’altro
del mercato. Mercato coadiuvato spesso dagli stati “fondati”
sulle carte dei diritti.
Si
faccia attenzione: non si tratta di una questione di compassione e di
pietà umana. Le ostentazioni di questa compassione e le varie
associazioni di beneficenza sono piuttosto comuni in questa che è
l’epoca economicamente più iniqua che la storia ricordi, seppure è
reale, oltre che molto preoccupante, la tendenza anaffettiva degli
individui postmoderni, in grado di accettare la marginalità e
l’indigenza nelle loro città senza troppi traumi emotivi, di
vedere sui teleschermi immagini alla massima risoluzione di persone
dilaniate dalla guerra o distrutte dalla povertà, con una commozione
superficiale che può presto trasformarsi in ilarità al successivo
programma di intrattenimento. Ma anche questo fatto rivela qualcosa
di più della semplice “disumanità”. Si tratta di un preciso
modello antropologico di individuo (in particolare quello
occidentale).
Il
sociologo Marc Augé ha usato il neologismo di non-luoghi
per descrivere gli spazi sempre più diffusi ed estesi dell’attuale
paesaggio urbano delle metropoli (ma ormai anche dei piccoli centri).
Si tratti di luoghi “desocializzati”, luoghi nei quali la gente
non si intrattiene, non entra in contatto (se non per ciò che è
indispensabile); luoghi che non hanno più una valenza nei rapporti
umani, ma solo in quelli commerciali o produttivi. Sono spazi
“freddi”, nei quali non si esprime la socialità e la
partecipazione alla comunità dell’individuo. Spazi che servono
soltanto per il transito di merci o persone e in definitiva per il
rapporto di scambio e per il consumo. In questi spazi ciascuno, pur
se immerso in una folla, è perfettamente isolato, separato
dall’altro pur in condizioni di prossimità fisica. Ognuno è
chiuso nel suo privato, perché il consumo è un’attività
omologante ma che avviene individualmente e isolatamente. Tutti fanno
la stessa cosa (eccetto, forse, nella scelta della marca di telefono)
ma ciascuno per proprio conto. In questa condizione non è possibile
maturare quella che Bauman chiama “negoziazione delle differenze”.
Non è possibile entrare in comunicazione empatica. L’isolamento ci
impedisce di provare emozioni più che superficiali e passeggere per
un altro individuo, che è a tutti gli effetti un estraneo,
perché è estraniato
da noi.
Si
capisce bene, allora, che in una società del genere, è solo
l’individualità completamente privatizzata – e perciò alienata
– che può esprimersi. È fatto divieto sacro e assoluto di
ostacolare l’espressione privata di questa individualità (anche
nei luoghi pubblici) che deve essere “libera” di desiderare e di
consumare, mentre, invece, tutto ciò che presuppone una socialità,
un rapporto non meramente commerciale tra soggetti, è giudicato un
disturbo della sacralità del privato. Ecco perché “dà fastidio”
il barbone che chiede l’elemosina, e quando uno di questi individui
ai margini della società dei consumi reclama attenzione, ci
costringe cioè a una reazione emotiva e infrange l’estraneità
nella quale lo abbiamo relegato, quando insomma vìola lo spazio
comune privatizzato (o il “luogo pubblico non civile”, per usare
il lessico di Bauman) è visto come l’autore di un’aggressione
persino peggiore dei patimenti che egli sta subendo. Un’aggressione
considerata meritevole di essere portata in tribunale e giudicata
sulla base del formalismo della legge.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
Immagine tratta da: http://www.tpi.it/mondo/stati-uniti/l-america-si-riscopre-povera
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