30 set 2016

La povertà fastidiosa*

Un giovane senzatetto è stato assolto in Cassazione per aver rubato del cibo per un valore di 4 euro per potersi sfamare. La sentenza ha ribaltato quella della Corte di Appello che invece aveva precedentemente condannato l’uomo per furto.
Molti troveranno di che scandalizzarsi per un verdetto che dovrebbe essere del tutto scontato. Come si può condannare un uomo per la sua povertà e che per giunta non ha creato alcun danno che non sia impercettibile? Eppure è proprio questo che è successo nel precedente grado di giudizio, come in molti altri casi di persone che hanno trovato giudici di diverso avviso. Dovrebbe stupire tanto più in una società che dichiara la sua fede indiscussa per i “diritti umani”, ma che tuttavia via non include la soddisfazione del bisogno biologico della fame nel novero di questi diritti.
Le società occidentali non considerano accettabile la censura (a ragione), il mancato rispetto di diritti formali, come il suffragio universale e la divisione amministrativa dei poteri (non sempre a ragione) dividendo in modo manicheo il mondo tra “dittature” e “democrazie” cioè tra paesi che si attengono al formalismo occidentale e paesi che decidono, in modo spesso legittimo o almeno non meno legittimo, di adottare modelli differenti. Tuttavia, non ritengono altrettanto inaccettabile che una persona chieda l’elemosina per strada: oppure ritengono inaccettabile solo il fatto che questa persona “danneggi il decoro urbano”, ovvero disturbi la loro coscienza. Per quale ragione? Perché mai morire di fame e di freddo o essere costretti a dormire su una panchina sarebbe eticamente meno grave che essere imprigionati per aver parlato male del governo? Certo, nel primo caso non c’è un esecutore materiale diretto che esegua, con decreto ufficiale, la condanna; ma cambia qualcosa? Pur sempre esistono individui che con le loro azioni provocano consapevolmente la miseria di molti altri. Pur sempre i meccanismi sociali e politici agiscono in modo autonomo, ma non del tutto autonomo e completamente sottratto al controllo dei singoli. Nell’un caso, si tratta dell’apparato burocratico, nell’altro del mercato. Mercato coadiuvato spesso dagli stati “fondati” sulle carte dei diritti.
Si faccia attenzione: non si tratta di una questione di compassione e di pietà umana. Le ostentazioni di questa compassione e le varie associazioni di beneficenza sono piuttosto comuni in questa che è l’epoca economicamente più iniqua che la storia ricordi, seppure è reale, oltre che molto preoccupante, la tendenza anaffettiva degli individui postmoderni, in grado di accettare la marginalità e l’indigenza nelle loro città senza troppi traumi emotivi, di vedere sui teleschermi immagini alla massima risoluzione di persone dilaniate dalla guerra o distrutte dalla povertà, con una commozione superficiale che può presto trasformarsi in ilarità al successivo programma di intrattenimento. Ma anche questo fatto rivela qualcosa di più della semplice “disumanità”. Si tratta di un preciso modello antropologico di individuo (in particolare quello occidentale).
Il sociologo Marc Augé ha usato il neologismo di non-luoghi per descrivere gli spazi sempre più diffusi ed estesi dell’attuale paesaggio urbano delle metropoli (ma ormai anche dei piccoli centri). Si tratti di luoghi “desocializzati”, luoghi nei quali la gente non si intrattiene, non entra in contatto (se non per ciò che è indispensabile); luoghi che non hanno più una valenza nei rapporti umani, ma solo in quelli commerciali o produttivi. Sono spazi “freddi”, nei quali non si esprime la socialità e la partecipazione alla comunità dell’individuo. Spazi che servono soltanto per il transito di merci o persone e in definitiva per il rapporto di scambio e per il consumo. In questi spazi ciascuno, pur se immerso in una folla, è perfettamente isolato, separato dall’altro pur in condizioni di prossimità fisica. Ognuno è chiuso nel suo privato, perché il consumo è un’attività omologante ma che avviene individualmente e isolatamente. Tutti fanno la stessa cosa (eccetto, forse, nella scelta della marca di telefono) ma ciascuno per proprio conto. In questa condizione non è possibile maturare quella che Bauman chiama “negoziazione delle differenze”. Non è possibile entrare in comunicazione empatica. L’isolamento ci impedisce di provare emozioni più che superficiali e passeggere per un altro individuo, che è a tutti gli effetti un estraneo, perché è estraniato da noi.
Si capisce bene, allora, che in una società del genere, è solo l’individualità completamente privatizzata – e perciò alienata – che può esprimersi. È fatto divieto sacro e assoluto di ostacolare l’espressione privata di questa individualità (anche nei luoghi pubblici) che deve essere “libera” di desiderare e di consumare, mentre, invece, tutto ciò che presuppone una socialità, un rapporto non meramente commerciale tra soggetti, è giudicato un disturbo della sacralità del privato. Ecco perché “dà fastidio” il barbone che chiede l’elemosina, e quando uno di questi individui ai margini della società dei consumi reclama attenzione, ci costringe cioè a una reazione emotiva e infrange l’estraneità nella quale lo abbiamo relegato, quando insomma vìola lo spazio comune privatizzato (o il “luogo pubblico non civile”, per usare il lessico di Bauman) è visto come l’autore di un’aggressione persino peggiore dei patimenti che egli sta subendo. Un’aggressione considerata meritevole di essere portata in tribunale e giudicata sulla base del formalismo della legge.








*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente



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