Una
pubblicità di qualche anno fa di una nota marca italiana di moda
alludeva a uno stupro di gruppo su una donna stesa a terra. La
pubblicità suscitò, comprensibilmente, l’ira delle femministe. Si
tratta dell’ennesima prova del maschilismo della società che attua
ancora oggi sulla donna una dominazione di tipo patriarcale – che
giustifica la violenza ed esalta la virilità del maschio – unico
vero ostacolo alla completa emancipazione femminile?
La
questione, in realtà, non è così semplice. Bisogna però essere
chiari. La discriminazione sessuale è una realtà storica, non
un’invenzione, come una reazione a un certo femminismo estremista
tenderebbe a pensare. Dire “la donna in realtà ha sempre
comandato” è una forma di negazionismo storico. In Italia era
un’usanza accettata, fino almeno agli anni Sessanta, rapire la
donna, violentarla e poi chiedere alla famiglia il “matrimonio
riparatore”, che la famiglia accettava per non perdere “l’onore”.
Fino al 1981 la legge italiana ammetteva l’esistenza del matrimonio
riparatore. In particolare, le donne delle classi inferiori
lavoravano tutto il giorno per occuparsi delle faccende domestiche,
della cura dei figli, della cucina e di tante altre mansioni. Non
esistevano giorni di riposo, le festività dispensavano l’uomo ma
non la donna dal suo lavoro domestico, un lavoro massacrante, per il
quale non esistevano quei diritti che gli uomini proprio in quegli
anni stavano faticosamente ottenendo. Molte donne erano soggette a
violenze, fisiche o psicologiche, da parte del marito, del padre o di
altri familiari, senza avere la possibilità di rivalersi in alcun
modo.
L’oppressione
patriarcale ha tenuto per secoli le donne sotto il suo giogo, in un
contesto familiare piramidale con al vertice la figura del
padre-marito-padrone. Questa oppressione veniva esercitata in tutte
le classi sociali, anche se con effetti forse un po’meno dolorosi
nelle famiglie più agiate. Tuttavia bisogna riconoscere che la
dominazione patriarcale dagli anni Settanta ha cominciato a
sgretolarsi e che ormai sta per essere spazzata via dalla storia.
Ovviamente ciò non vuol dire che essa non esista più, che non
esistano tutt’ora episodi di violenza, di sottomissione della
donna, di discriminazione e di sofferenza fisica o psichica inflitta
agli individui di sesso femminile. Ma questi episodi non riguardano
il nuovo corso storico, sono dei retaggi, delle incrostazioni del
passato, anche se, forse, ci vorranno ancora decenni, o magari
secoli, prima che anch’essi scompaiano del tutto.
È
stato lo sviluppo del capitalismo ad abolire il patriarcato. Nella
società “solida” (per usare l’espressione di Bauman)
incentrata sulla produzione, c’era bisogno di braccia per lavorare
e l’economia non poteva permettersi di lasciare inattiva la metà
della popolazione. Inoltre l’evoluzione tecnologica faceva
diventare sempre più obsoleto il ricorso alla forza muscolare e
pertanto rendeva le donne idonee a tutti i tipi di lavoro quanto gli
uomini. Ma questo non fu sufficiente a permettere un totale
superamento della dominazione patriarcale. Solo con la trasformazione
“liquida” della società la necessità di sviluppare un sistema
di vita attorno al consumo ha richiesto di porre fine alle inibizioni
e alla “sobrietà” che precedentemente caratterizzavano i costumi
femminili. La donna doveva diventare consumatrice, quindi doveva bere
e fumare come gli uomini, quindi doveva mostrare e non nascondere il
proprio corpo, doveva divertirsi e godersi la vita senza sensi di
colpa e gli uomini dovevano accettarlo. Ormai la donna non ha
restrizioni nell’esprimersi, in nessun ambito; ma ciò non
significa che possa dirsi finalmente liberata; non significa che una
volta superata la dominazione patriarcale, per lei si aprano le porte
dell’emancipazione autentica.
La
società dei consumi ricorre alla sessualità della donna come
attrattiva per sedurre i consumatori e per esserne sedotta. Il corpo
della donna è ormai linguaggio pubblicitario privilegiato per
rivolgersi alle pulsioni consumistiche. Alla donna non viene più
intimato di coprirsi, ma, al contrario, di spogliarsi, per una marca,
per “essere libera”, per beneficenza, per il proprio uomo, “per
se stessa”, persino per un’università, come avvenuto di recente
con le foto di alcune ragazze che “sponsorizzavano” il proprio
ateneo attraverso la rete. Esiste una forma di dominazione
patriarcale, in questo? No, ne è anzi l’esatta negazione e ne
testimonia la completa distruzione. Il moderno oppressore delle donne
non è il patriarcato, che non esiste più se non come “rudere”
archeologico, è il capitale, che esercita direttamente il suo
dominio. La donna diventa una merce, una merce che è la chiave per
tutte le altri merci. Certo, si tratta di una dominazione forse meno
cruenta della precedente, ma non meno efficace. Eppure, in alcuni
casi, non è escluso che possa servirsi dei retaggi patriarcali,
mantenendoli “artificialmente” in vita, come dimostra il caso
dello spot della marca di moda sopraccitato.
Ma
che strizzi l’occhio a vecchi stereotipi o che la esorti a
denudarsi e a concedersi senza inibizioni, il nuovo potere esercitato
sulla donna non prevede divieti, repressioni, moralismi, ma
l’inserimento in un circuito di scambi attraverso l’esposizione
disinibita e persino narcisistica di sé, spacciata come “libertà”.
Riflettano le femministe le quali, spesso, illudendosi di difendere
una presunta “libera scelta” a esporsi senza reticenze, si
schierano inconsapevolmente dalla parte del capitalismo e del
consumismo senza limiti che mercifica il corpo femminile.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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