“Unire
la sinistra” è il vecchio appello da Seconda Repubblica caduto in
disgrazia, che talvolta qualcuno tenta di riportare in auge. Adesso è
la volta di Giuliano Pisapia che propone un cartello elettorale dai
contorni vaghi e sfumati, il “Campo progressista”, l’ennesima
riedizione delle tante “sinistre unite” fallite. Già prima
Bertinotti e poi Ferrero e Vendola provarono a inventarsi nuovi
marchi da apporre all’aggregazione multiforme che chiamavano
“sinistra”. Tutti questi schieramenti hanno fatto la stessa
triste fine.
L’ostracismo
contro le ideologie, in particolare contro la teoria marxista, diede
vita a una creatura deforme, la sinistra postmoderna, una fazione
eterogenea, senza contorni definiti, priva di una tradizione politica
– considerata un pesante fardello di cui disfarsi – con
un’organizzazione evanescente e senza una solida struttura di
partito. Tenuta assieme dal generico appellativo di “sinistra”,
non ha un fine universale, un ideale di rifondazione della società,
ma tanti piccoli scopi particolari da perseguire all’interno della
struttura sociale vigente che non viene mai criticata. Per questo
assumono un ruolo primario i diritti civili, mentre vengono
trascurati, fin quasi a dimenticarli, quelli sociali, sacrificabili
sull’altare delle “alleanze progressiste”. I diritti civili,
infatti, possono essere perseguiti all’interno dei rapporti sociali
esistenti, senza la necessità di giungere a uno scontro con le
classi dominanti, con le quali, anzi, ci si allea.
Non
a caso Pisapia intende proporre questa “unificazione” per poi
allearsi col PD, per “tirarlo” a sinistra. Uno schema tipico
della Seconda Repubblica, e a livello globale del mondo appena dopo
la caduta del Muro di Berlino; il conflitto tra socialismo e
capitalismo doveva essere surrogato dal dualismo destra/sinistra, nel
quale entrambi appartenevano non al “campo progressista” o a
quello conservatore, ma all’orizzonte capitalista da “fine della
storia”, visto come irreversibile e accettato acriticamente da
ambedue gli schieramenti teoricamente contrapposti.
Ma
ormai anche lo schema destra/sinistra è entrato in crisi, per
essersi manifestato per quello che è: una maschera. La “destra”
e la “sinistra” della Seconda Repubblica non corrispondono alla
“destra” e alla “sinistra” della Prima, le quali non erano
soggetti giuridici e politici, ma indicazioni “geografiche” che
dovevano essere opportunamente connotate da aggettivi (socialista,
liberale, comunista, democristiano, ecc.). Lo schema destra/sinistra
postnovecentesco è entrato in crisi in seguito al progressivo
distacco popolare, non essendo possibile scorgervi un’alternativa
reale al capitalismo neoliberale e quindi rivelandosi in farsa, puro
spettacolo.
Ad
esso non è ancora subentrata una rappresentazione politica adeguata,
ma va delineandosi un nuovo conflitto tra il globalismo liberista e
le resistenze nazionali, statali e antioligarchiche le quali però
presentano diverse contraddizioni e sono ancora in embrione.
Compito
della politica, oggi, è dare voce a queste ultime, non attraverso
l’uso demagogico e “populistico” proprio di alcuni capi
partito, ma interrogandole, chiarificandole, criticandole e
traducendole in una teoria, una prassi strategica e un progetto di
società.
La
proposta di Pisapia, invece, ignora tutto questo e si limita a
rispolverare uno schema vecchio e superato, tutto interno alla
risonanza mediatica, incapace di fare i conti con le recenti tendenze
sociali. Il vero scopo (che egli ne sia consapevole o meno) è quello
di ricondurre il dissenso entro il recinto controllato dalle
oligarchie. Ed è questo infatti il vero significato del
“progressismo” postmoderno: a sinistra del PD, ma col PD, ovvero,
la periferia del capitalismo.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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