La
sconfitta di Renzi al referendum costituzionale avrebbe dovuto indurre a una riflessione non soltanto il segretario
del PD e la sua cerchia, ma tutto quanto il ceto dirigente italiano
che ha tenuto il governo politico in questi anni, anche se un governo
più simbolico che reale, svuotato delle sue effettive prerogative,
diventato un mero esecutore della strategia delle oligarchie e della
tirannia di mercato.
Questa
sconfitta, e le conseguenti dimissioni di Renzi da Presidente del
Consiglio, segnalano due fatti di cui non si può non prendere atto:
a) l’incapacità attuale della strategia neoliberale e dei suoi
deboli referenti politici di attrarre consenso e b) il fallimento
storico del Partito Democratico e dell’idea sulla quale è stato
fondato.
- L’illusione e il disincanto: il tramonto dell’egemonia culturale attiva
L’esaurimento
dello slancio delle lotte sociali del Novecento, che hanno raggiunto
l’apice del loro successo nel corso degli anni Sessanta e Settanta
del secolo scorso, trascinata dall’avanzata del “blocco
socialista” (col quale si vuole qui intendere tutto l’insieme di
partiti, sindacati e movimenti di ispirazione marxiano-keynesiana,
comunisti, socialisti, socialdemocratici, laburisti) aveva visto il
ritorno del liberalismo e la restaurazione capitalista. In appena tre
decenni, le tutele sociali sono state rapidamente cancellate, i
mercati ampiamente liberalizzati, gli stati-nazione indeboliti,
proprio grazie alla partecipazione del nuovo ceto dirigente erede di
quello socialista.
Questo
processo di restaurazione liberale è stato possibile grazie alla
crisi ideologica del blocco socialista, cui il crollo dell’Unione
Sovietica ha dato il colpo di grazia. Il capitalismo è apparso come
l’unico universo possibile e il neoliberalismo è riuscito a
instaurare un’egemonia culturale come forse mai prima di allora. La
novità era che questa egemonia non riguardava soltanto le classi
dominanti, ma anche quelle dominate, che hanno creduto nella promessa
di emancipazione individuale del liberalismo post-moderno. Questa
egemonia ha potuto esercitarsi grosso modo incontrastata per un
trentennio. Qui però occorre integrare la proficua categoria
gramsciana; bisogna infatti distinguere tra un’egemonia culturale
attiva
e un’egemonia culturale passiva.
Con la prima si intende la persuasione ideologica consapevole e la
conscia rappresentazione di una certa idea di società sottesa da
tale ideologia. Con la seconda invece ci si vuole riferire
all’introiezione inconsapevole delle forme ideologiche e alla loro
riproduzione inconscia e automatica nel sistema sociale. Per molto
tempo le due categorie sono, in linea di massima, coincise. Ciò è
accaduto anche con la restaurazione neoliberale degli anni Ottanta,
Novanta e Duemila. Ma all’inizio di questo decennio vi è stata una
divaricazione. L’egemonia attiva è entrata in crisi e sta andando
via via dissipandosi, mentre è rimasta in vigore inalterata quella
passiva. Ciò ha significato che le masse hanno cominciato a
rifiutare la formulazione esplicita dell’ideologia neoliberale, ma
continuano a subire le forme di integrazione implicite che essa
propone nei comportamenti individuali e collettivi. Questa inedita
divaricazione ha provocato conseguenze altrettanto inedite; a livello
politico, infatti, l’ideologia neoliberale non riesce più a
produrre consenso, non riesce più a sedurre
come in epoca reaganiana (il neoliberismo seduce,
il progetto socialista affascina).
Quel ceto dirigente, quindi, che si è fatto interprete politico
della strategia neoliberale, è entrato in una crisi di consenso
profonda che non sembra trovare sbocchi: si pensi alla situazione del
partito socialista francese, o di entrambi i partiti statunitensi
(costretti a integrare figure “esterne”, come Sanders da una
parte e Trump dall’altra) oppure del PD in Italia affetto da
cronica emorragia di iscritti. Tuttavia, a questa crisi della
proposta politica neoliberale, non ha fatto seguito una capacità di
elaborare una efficace strategia contrapposta delle altre forze. In
questo modo le oligarchie hanno perduto il consenso politico, ma
senza che il loro dominio di classe fosse scalfito. Se manca il
consenso, il dissenso non riesce a organizzarsi e a proporre una
contrapposta idea di società, arenandosi in rivendicazioni del tutto
secondarie e sterili, finendo per disperdersi in mille rivoli. È il
cosiddetto “populismo”, come quello di formazioni quali Podemos
in Spagna o il Movimento Cinque Stelle in Italia. Essi hanno
inconsapevolmente introiettato l’ideologia neoliberale che
impedisce loro di trovare una valida struttura organizzativa e un
progetto politico adeguato. Senza addentrarci in un argomento che
meriterebbe una trattazione separata, basterà citare a titolo
esemplificativo il caso greco. Qui, il ceto politico referente
dell’oligarchia è entrato in crisi, rimpiazzato dal partito di
Syriza che ha raccolto la protesta delle classi greche impoverite ed
esasperate, ma non è riuscito a tradurla in un progetto politico
realistico, a causa del pregiudizio anti-sovranista e della
accettazione acritica dell’euro e dell’Unione Europea.
- Il Partito Democratico: un peccato originale
La
crisi di consenso ha riguardato tutti i partiti d’Occidente
promotori della globalizzazione e della mercatizzazione della
società, coloro che, al netto delle varie e secondarie differenze
nazionali, hanno svolto il ruolo di portare le classi popolari ad
accettare l’ideologia neoliberale, in altre parole, quel ceto
politico che ha cercato di produrre egemonia culturale attiva in
favore delle oligarchie capitalistiche. In Italia questo compito è
stato assunto da vari partiti e formazioni, in particolare quelli
creatisi con l’epilogo traumatico della Prima Repubblica; ma con la
fine del decennio scorso e l’inizio di quello attuale, un nuovo
partito ha monopolizzato
un tale compito, il Partito Democratico.
Il
Partito Democratico nasceva su una tesi: le ideologie sono morte;
tradotto: le ideologie alternative al capitalismo e al liberalismo
sono morte e può esistere l’unica ideologia dell’assenza di
ideologie, cioè dell’ineluttabilità del processo capitalistico di
adeguamento delle strutture sociali al mercato globale. Il Partito
Democratico doveva quindi unificare quel ceto politico italiano che
più coerentemente si era proposto come referente accreditato delle
oligarchie neoliberali. In questo modo, secondo i fondatori, sarebbe
stato possibile raccogliere il consenso delle classi dominate, che
rischiava di disperdersi a causa delle divisioni politiche (anche se
non ideologiche) di quel ceto dirigente. Sembrava dovesse funzionare,
ma i fondatori non avevano fatto i conti con la Storia. Proprio
allora, infatti, l’egemonia culturale attiva, che il PD come altri
partiti in Europa, si incaricava di produrre, veniva a mancare. Il
Partito Democratico faceva il suo esordio proprio quando i suoi
omologhi occidentali (i socialisti francesi, i socialdemocratici
tedeschi, oppure i laburisti blairiani britannici) subivano un
tracollo di consensi. Un tracollo che si sarebbe rivelato non
puramente contingente, ma strutturale, perché era lo stesso modello
dell’egemonia attiva che si era deteriorato.
Essendo
costruito su questa tesi, ormai superata, il PD è un partito che
attraversa un lungo, ininterrotto e strutturale calo di consensi,
come si nota se si guardano i voti assoluti ottenuti alle varie
elezioni e l’incapacità di attrarre le classi popolari disilluse.
Esso continua a gestire il potere politico (formale) per una sorta di
inerzia delle procedure rappresentative e per quella
disorganizzazione del dissenso di cui si diceva. Tuttavia la sua
egemonia delle istituzioni rappresentative (che non è mai stata
egemonia culturale) è sempre precaria, appesa a un filo. Tutti i
segretari avvicendatisi hanno, finora, fallito il loro compito. Da
Veltroni sconfitto da Berlusconi a Renzi mai eletto, passando per
Bersani.
Il
ceto politico del PD, tuttavia, non riesce ancora a comprendere
questa nuova fase storica nella quale si è entrati e a ciò si deve
la sua incapacità di analisi. Si accampano, allora, ragioni
collaterali, eventi scarsamente influenti per spiegare la sconfitta.
Renzi,
nel corso di un’intervista a Repubblica,
alla domanda su quali siano stati i suoi errori, ha risposto: “avrei
dovuto metterci più cuore, più valori, più ideali. Insomma, meno
efficienza e più qualità”. Non ha messo in discussione il
programma politico del suo governo, che ha anzi difeso, ma il modo di
comunicarlo. Renzi crede ancora nel progetto di egemonia attiva,
crede che sia ancora possibile coinvolgere attivamente le masse nella
strategia neoliberista che esse subiscono. Ciò è stato vero per un
certo tempo, ma oggi rischia di rivelarsi clamorosamente
anacronistico.
Del
resto, la cecità del ceto politico neoliberale è la stessa di
quello intellettuale. Ad esempio, molti hanno creduto di attribuire
la vittoria di Trump a una differenza di comunicazione rispetto alla
Clinton, al linguaggio semplice, diretto e “populista” del
miliardario. Ciò può essere in parte vero, ma è soltanto una causa
collaterale e secondaria. La vera ragione della vittoria di Trump non
è in una comunicazione efficace, ma nella disillusione delle classi
impoverite, degli Stati Uniti, come di tutto l’Occidente (come
dimostrano la “Brexit” e l’avanzata delle formazioni populiste)
rispetto all’ideologia neoliberale e alla sua promessa di
liberazione dell’individuo dalle strutture oppressive dello stato e
della burocrazia. Le classi popolari hanno sperimentato sulla loro
pelle le contraddizioni del neoliberismo e hanno pagato e stanno
pagando un prezzo altissimo. È quantomeno dubbio che una efficace
campagna pubblicitaria possa far dimenticare l’austerità, la
disoccupazione, la crisi economica e la sfiducia nel ceto politico
che i dominati hanno davanti agli occhi tutti i giorni, pur non
essendo capaci di comprenderlo con lucidità intellettuale, ma
percependolo
in quella famosa “durezza del vivere” sperimentata
quotidianamente. Che si possa riottenere il consenso delle masse
disilluse con una campagna pubblicitaria, senza cambiare di una
virgola la strategia politica, restando quindi nella dimensione
neoliberale, segnala che mentre le masse si disilludono (senza però
riacquistare la capacità di riaffascinarsi) il ceto politico si
illude.
Il
ceto politico neoliberale, sembra, ad oggi, uno spettatore impotente
e balbettante; la questione centrale, attualmente, non è la
possibilità da parte dell’oligarchia di esercitare un’egemonia
attiva, ma la capacità o l’incapacità del dissenso di
organizzarsi. Sarà possibile che l’integrazione capitalistica
prosegua incontrastata rinunciando al consenso e avvalendosi soltanto
dell’egemonia culturale passiva, quindi dei modelli di consumo,
dell’individualismo, della sfiducia in un progetto alternativo di
società e dell’afasia del dissenso? E il dissenso, da parte sua,
per quanto potrà essere orientato verso partiti populisti
destrutturati incapaci di formulare un progetto politico
anticapitalista senza che presto maturi un disincanto anche nei loro
confronti? E sarà possibile ripensare a una politica, marxianamente,
come “movimento che abolisce lo stato di cose presente” e
progetto di rifondazione sociale? Queste sono, oggi, le domande alle
quali solo la Storia saprà rispondere.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
bravo. ottimo pezzo
RispondiEliminaGrazie
Elimina