Nel
corso di un recente discorso, il Presidente Mattarella ha fatto
riferimento al cosiddetto “Modello 4.0”, intendendo
l’introduzione di nuovo tecnologie nell’economia per rendere più
veloce ed efficiente la produzione. Il Capo dello Stato ha detto che
un simile modello potrebbe creare “forme di dualismo nella nostra
società”. Ha sottolineato, pur riconoscendone i benefici, che
“Mentre,
da un lato, vi sarà un impatto positivo sulla produttività del
lavoro, con un ampliamento anche di opportunità per i lavori più
qualificati, dall'altro lato è
del tutto verosimile
doversi attendere un
effetto riduttivo sulla occupazione totale,
per la probabile diminuzione di posti di lavoro ripetitivo a
vantaggio della robotica. Il saldo netto tra posti di lavoro perduti
e posti di lavoro creati non è una variabile indifferente”.
La
questione di cui si occupa Mattarella non è inedita, e interessa
tutte le società moderne. La meccanizzazione e computerizzazione
della produzione hanno ridotto le ore di lavoro necessarie per unità
di prodotto, questo però non ha determinato, in passato, perlomeno
nelle società europee, forti squilibri e cali occupazionali. Anzi,
nel corso degli anni Settanta l’introduzione delle tecnologie si è
accompagnata a un aumento dell’occupazione e dei redditi da lavoro.
Questo fondamentalmente per due ragioni.
Innanzitutto
perché questo processo è avvenuto in un contesto politico-economico
nel quale gli stati e le aziende esigevano un aumento del capitale
investito e un incremento generalizzato dei consumi. Inoltre, si è
avuto entro una cornice legislativa di forte tutela dei ceti
medio-bassi e dei lavoratori.
Occorre
sottolinearlo, perché i mutamenti tecnologici e lo sviluppo della
tecnica, per quanto repentini, non provocano necessariamente disagi e
“dualismi”. Questi si verificano solo entro un certo tipo di
scenario politico, economico, giuridico e anche culturale, nel quale
non vi è spazio per i due fattori di cui si è detto: ovvero
investimenti (sostenuti spesso dalla mano pubblica) e tutele del
lavoro.
È
evidente che nell'assetto attuale un simile scenario sia del tutto
venuto meno, sostituito dalla deregolamentazione dei mercati e
dall'abolizione delle tutele. Le imprese tendono a disinvestire, non
a investire e gli stati non fanno nulla per opporsi a questa tendenza
e ansi spesso la agevolano. Inoltre gli sviluppi della tecnica sono
giunti al punto da far prevedere in tempi relativamente brevi la
scomparsa di interi settori della manodopera e aree di impiego del
lavoro umano sostituiti da processi produttivi interamente
meccanizzati. Il lavoro sembra spostarsi sempre più dalla manodopera
alle attività tecnico-intellettuali, e anche per queste ultime si
può prevedere una riduzione del monte ore necessarie.
Sembrerebbe
quindi inevitabile la crescita di una massa enorme di disoccupati
esclusi dal lavoro e sostituiti dalle macchine, con tutte le ricadute
sociale che ciò può comportare.
In
realtà, una simile eventualità non è affatto una necessità
“intrinseca” dell'evoluzione dei mezzi produttivi. La tecnica non
è mai una componente “neutra” e una variabile indipendente, essa
opera sempre in combinazione con altre, che ne determinano gli
effetti.
In
un contesto di liberalizzazione totale dei mercati e dei capitali, di
deregolamentazione, di cancellazione delle tutele e di implosione del
controllo statale sull'economia le conseguenze della meccanizzazione
e digitalizzazione sembrano andare nella direzione paventata dai
pessimisti.
Considerare,
però, un simile scenario come inevitabile, ha gli stessi effetti di
una “profezia autoavverante”, la sottovalutazione del potenziale
delle altre componenti (politica, economia, diritto, cultura,
tensioni sociali, ecc.) conduce a sopravvalutare quello della
tecnica. Ciò vale sia per i profeti “pessimisti” che vedono la
tecnica come una potenza distruttrice autonoma da tutto il resto, sia
per gli “ottimisti” che invece ne auspicano la continua
evoluzione come fatto intrinsecamente benefico.
Si
può invece comprendere il ruolo della tecnica nella nostra società,
in rapporto al lavoro, come ad altri aspetti, solo se lo si considera
come interdipendente e sempre combinato con altri. La disoccupazione
“tecnologica”, non è in realtà il risultato del semplice
progresso della conoscenza scientifica e dall'applicazione su larga
scala di mezzi efficienti. È, invece, la conseguenza
dell'interazione del progresso tecnico con lo scenario sociale
complessivo. Più che essere gli assetti sociali determinati dalla
tecnica, è anche e soprattutto quest'ultima a essere orientata dai
primi. Questo significa che l'incontrollabilità della tecnica è una
forma di superstizione che deriva dall'inconsapevolezza del ruolo
giocato dalle altre componenti. Se queste ultime ultime sono
considerate, magari implicitamente e acriticamente, come date una
volta per tutte, è chiaro che la tecnica emerge come potenza
inarrestabile e insensata.
Questo
errore emerge anche nel discorso di Mattarella, il quale vuole
mettere in guardia dalle “logiche protezionistiche del proprio
mercato” e dalla “illusoria difesa dei propri apparati
produttivi”, quasi che la rinuncia alla “sollecitazione della
concorrenza” sia impensabile e inconcepibile.
Prima
si afferma l'immutabilità dell'unico mondo possibile dell'economia
globalizzata, e poi si presentano come
problematici i
risvolti del progresso tecnico, ignorando, e ostinandosi a ignorare,
che questi ultimi non sussistono nel nulla, ma operano in una cornice
che si è già definita come inalterabile e indiscutibile. La
politica, al contrario, dovrebbe adoperare un approccio “laico”,
ai problemi sociali, che cioè sia libero da dogmi e assunti
acritici, quali quelli della religione del libero mercato.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
Immagine tratta da: http://www.ansamed.info/motori/notizie/rubriche/industriamercato/2012/08/02/Renault-piu-25-produzione-motori-Brasile_7282651.html
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