L'euforia delle elezioni amministrative
appena concluse, che più che una prassi democratica sono in verità
un evento mediatico, trattate quasi come una gara sportiva, ha
invertito il mezzo e il fine. Le elezioni non sono più uno strumento
(tra l'altro molto sopravvalutato) che permette al popolo di decidere
del proprio destino, ma un avvenimento che di per sé segna le
“tendenze”, che piacciono tanto ai sondaggisti. Exit-poll,
proiezioni, sondaggi e tutte le indagini statistiche che stabiliscono
cosa l'elettore voterebbe prima ancora che lo faccia, indicano la
mediatizzazione di un rito istituzionale, nel quale previsione e
condizionamento si confondono.
L'anticipazione del futuro è tipica
della nostra epoca, bisogna sapere cosa accadrà prima ancora che
accada e rendere il futuro un momento del presente, mentre sia l'uno
che l'altro sono sottratti alla volontà individuale.
La politica è ormai un programma di un
palinsesto televisivo, nulla di più. Al di fuori dell'iperreale,
quale incidenza ha veramente sulla società? Se la vita di ogni
persona è affidata del tutto al mercato, essa ha ben poche chance di
essere qualcosa di più del marketing elettorale fatto da
statistiche, sondaggi e slogan, che insegue i “gusti” degli
elettori-consumatori, opportunamente orientati e pre-selezionati dal
mercato stesso. La politica è la pianificazione collettiva
dell'esistenza sociale. L'economia capitalistica postmoderna, invece,
esclude qualsiasi pianificazione che non sia quella orientata alla
vendita e alla massimizzazione dei profitti. Si può prevedere ciò
che sarà, ma dovrà stabilirlo non il politico, non l'elettore, ma
il mercato, questo tiranno assoluto che viene paradossalmente
definito “libero”. Al “popolo sovrano”, celebrato da leggi e
costituzioni, non resta che decidere sul superfluo, scegliere tra ciò
che non conta e non avrà effetti di rilievo, perché tutto il resto
è già stato deciso senza consultarlo.
I protagonisti di queste elezioni, il
Partito Democratico e il Movimento Cinque Stelle, così come gli
attori non protagonisti e le semplici comparse di questa farsa, si
sono perfettamente adattati all'ininfluenza cui l'economia ha
condannato la politica. La loro capacità è stata quella di ricavare
uno spazio in questo nulla. Il PD si è assunto il compito di
liquidare qualsiasi barlume di critica del capitalismo. Questo
compito è stato portato a termine con successo. Proprio questo
successo lo ha condotto alla crisi, una prima, iniziata con Bersani e
conclusasi con l'ascesa di Renzi, e probabilmente una seconda che sta
cominciando ora. Il suo compito ormai si è esaurito, l'accettazione
del “cambiamento”, ovvero del passaggio dallo stato sociale al
neoliberismo più estremo, si è ormai quasi conclusa, di qui la
difficoltà per esso di trovare nuovo slancio. L'intervento di Renzi
è per lo più una postilla in questo processo, un mutamento del
lessico che elide gli ultimi retaggi del passato. Ma portare sempre
oltre questa “rottamazione” diventa via via più difficile una
volta che tutti i tabù sono stati infranti e non resta più niente
della “vecchia politica” pianificatrice da distruggere e
dileggiare con furia iconoclasta. I lavoratori si possono licenziare
e buttare via come le merci che devono produrre a ritmo crescente,
l'anarchia del mercato è entrata in qualsiasi settore, la lingua si
è anglicizzata e mediatizzata. Resta ben poco, ormai, da rottamare.
Semmai il problema diventa quello di mantenere un simile stato di
cose una volta morta l'illusione dell'Eden capitalistico che tanto
successo riscosse negli anni Ottanta e Novanta. Il prodotto
inevitabile della disillusione è la frustrazione e
l'insoddisfazione. Nonostante l'incapacità dell'individuo di oggi di
tradurre politicamente e in un contesto pubblico questa
insoddisfazione esiste sempre il rischio che possa tracimare oltre la
soglia consentita. Il problema allora diventa quello di orientare e
manipolare non tanto il consenso, di cui il potere odierno ha ben
poca necessità, ma il dissenso. E a questo problema risponde in modo
più avanzato il Movimento Cinque Stelle. Fin dalla sua comparsa, e
anzi proprio per costituzione, fa a meno del “convincere” e del
“credere”, presupposti irrinunciabili della Prima Repubblica, cui
persino il più cinico politicante non poteva fare del tutto a meno.
Il Movimento Cinque Stelle non ha bisogno di persuadere nessuno, non
ha alcun progetto da spiegare, al contrario, esso assorbe ciò che
trova già pronto, senza nemmeno preoccuparsi della coerenza interna.
Chi vi aderisce non deve credere in nulla; l'atto costitutivo dei
Cinque Stelle nasce proprio dalla rinuncia alle ideologie. La
protesta è perciò disinnescata già in partenza. Essa è più
l'espressione di un malcontento immediato e irriflessivo che una
minaccia per l'ordine corrente. Il furore viene orientato verso ciò
che è immediatamente individuabile e nello stesso tempo scarsamente
rilevante. È proprio questo suo essere “minaccia innocua” per
usare un ossimoro, che rende il Movimento Cinque Stelle tanto
mediaticamente visibile quanto politicamente inefficace. Questo
composto di accettazione dell'esistente e protesta inoffensiva ne
spiega la vittoria e l'esito delle ultime e forse delle future
elezioni.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
Immagine tratta da: https://it.wikipedia.org/wiki/Matteo_Renzi
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