Un recente sondaggio dell'Agenzia SWG
rileva un dato molto interessante. Il 32% degli italiani si definisce
anticapitalista, mentre solo un quarto degli intervistati si dice
pro-capitalista. Inoltre il 36% si dichiara per “un modello
post-capitalista basato su un economia più armonica, solidale e
condivisa”, il 26 a favore di “un modello comunitario basato su
forme di impresa meno incentrate sul profitto” e soltanto il 23 si
dice favorevole a un modello capitalistico; ma anche tra questi il 13
vorrebbe un maggior controllo dell'economia da parte dello Stato. È
un risultato sorprendente considerato il contesto nel quale è
maturato.
Questa sfiducia nel sistema economico
dominante, mai così egemonico dal punto di vista politico e
culturale, prolifera nella pressoché totale assenza di una proposta
alternativa, con i vari partiti di opposizione occupati in questioni
più o meno irrilevanti (le unioni civili quelli “di sinistra”, i
campi nomadi e i centri di accoglienza quelli “di destra”, i
vitalizi quelli “né di destra né di sinistra”). In ogni caso
mai nessun attore politico osa mettere in discussione l'economia nel
suo complesso o accenna una qualche critica al capitalismo, cosa
invece piuttosto comune fino a trenta o quarant'anni fa.
Lo scenario può apparire per molti
versi paradossale. In una fase di massima debolezza economica del
capitalismo dal dopoguerra a oggi, si ha una situazione di massima
forza dal punto di vista politico. Ovvero, nonostante una crisi senza
precedenti in Italia e in Europa, e per intensità e per durata, mai
si è stati così lontani come oggi dalla possibilità di un
rovesciamento dei rapporti economici e del modo di produzione in
vigore. Nello stesso tempo però non c'è un consenso alla base di
questa egemonia: non è la sanzione del successo degli apparati di
propaganda del potere, se con ciò si intende la persuasione
collettiva della bontà del sistema. Questo ci dice due cose:
innanzitutto è l'ulteriore conferma che tra fattori economici ed
esiti politici non c'è un rapporto meccanico di necessità. Una
disfunzione economica del sistema può tradursi in funzione politica,
e viceversa. Se si guarda alla caduta dello storico avversario del
capitalismo occidentale, ovvero l'Unione sovietica si scopre un
andamento inverso: a una stabilità e funzionalità sul piano
economico è corrisposta una crisi politica, che in seguito (ma solo
in seguito!) è andata a intaccare anche la sfera materiale della
produzione. La crisi economica non apre necessariamente nuovi spazi
per le forze di dissenso (dissenso ovviamente “sistemico”) come a
lungo ha creduto un anticapitalismo ingenuo. Ma la grande novità di
questi tempi è che non è il consenso ideologico a consolidare
l'egemonia. Questo, lungi dall'essere cresciuto, si è costantemente
ridotto negli ultimi vent'anni. Risulta evidente il fallimento del
capitalismo sul piano delle promesse di affrancamento dell'individuo.
Il mito del successo individuale, che fino agli anni Ottanta poteva
ancora sedurre, nonostante l'opposizione culturale allora ben
presente, ha oggi perduto mordente. Non che l'individualismo non sia
ancora, e forse persino meglio, radicato nella società. Ma non porta
più con sé quell'ottimismo, quella spinta vitale, quella fede quasi
religiosa nell'individualità desocializzata. È invece un
individualismo del “si salvi chi può”, accompagnato dalla
rassegnazione, dallo sconforto, dalla depressione. La competizione
spietata non avviene più tanto, per le classi medie, all'insegna
dell'ambizione personale, ma della paura. È il terrore
dell'esclusione sociale e della perdita il vero motore, non la
fiducia in un avvenire migliore attraverso l'affermazione
individuale.
La mutazione del paradigma può essere
rappresentata da due figure che hanno segnato il consolidamento
politico del capitalismo negli anni Ottanta. Da una parte il
Presidente americano Ronald Reagan, dall'altro il Primo Ministro
britannico Margaret Tahtcher. Entrambi sono dei sostenitori
dell'economia neoliberista, entrambi propugnano uno “Stato minimo”
e un mercato deregolamentato, entrambi esaltano l'iniziativa
individuale e screditano la cooperazione sociale, ma c'è una
differenza. Mentre Reagan è il cantore dell'edonismo capitalista che
esala il suo ultimo respiro, il “colpo di coda”
dell'individualismo ottimista, spensierato e spietato, che ha il suo
punto di riferimento nei giovani arrivisti agenti di borsa di Wall
Steet, la Thatcher è invece a pieno titolo profeta del nuovo
capitalismo postmoderno, che fa della rassegnazione e
dell'accettazione passiva il proprio perno ideologico. Non a caso lo
slogan della campagna elettorale di Reagn era “Make America Great
Again”, “Rendere l'America di nuovo grande”, mentre il motto
del Capo di Governo inglese è espresso dall'acronimo TINA, “There
Is No Alternative”, non esiste alternativa al liberal-capitalismo,
piaccia o non piaccia. Non si tratta più di convincere circa
presunti benefici del perseguire una piena restaurazione neoliberale,
ma di affermare che sia l'unica possibile, che non sia data altra
scelta. Il consenso, ammesso che consenso debba e possa esserci, è
un consenso passivo, che nutre poche illusioni riguardo al modello di
società esistente, ma che lo considera come ineluttabile, alla
stregua di una catastrofe naturale cui non c'è rimedio ma a cui
bisogna adattarsi.
In Italia questo “passaggio di
consegne” può essere individuato nel periodo che va dall'ascesa di
Silvio Berlusconi alla nomina di Mario Monti. Il Berlusconi del primo
periodo, l'imprenditore televisivo e l'esordiente politico atipico
(da distinguere da quello degli anni Duemila) è un entusiasta
fautore delle liberalizzazioni e della “libertà” dagli apparati
burocratici e dallo Stato, che promette un risveglio gioioso dal
grigiore dei burocrati, è il Berlusconi delle reti commerciali e del
“milione di posti di lavoro”, con la sua personalità esuberante
ed egocentrica; Monti, al contrario, arriva quando si è già
consumato il fallimento di un simile paradigma cui egli dà il colpo
di grazia: non promette amenità, ma “sacrifici”, non benessere,
ma “austerità” e “rigore”, non più lavoro bensì impieghi
peggiori eppure inevitabili; “i
giovani devono abituarsi all'idea che non avranno un posto fisso per
tutta la vita”
furono
le sue parole. Significativo è anche il modo in cui queste due
differenti figure sono giunte ai vertici del governo. L'imprenditore
milanese attraverso una campagna elettorale condotta con le armi del
marketing e del venditore astuto, arrivando a gestire il consenso in
modo quasi plebiscitario, l'economista bocconiano, invece, per mezzo
di una nomina “dall'alto” delle istituzioni europee e della
finanza, senza riscuotere successo alle elezioni.
Anche quelle forze che vorrebbero
proporre un'alternativa al modello socio-economico dominante, hanno
finito per cadere nella rete della rassegnazione e del consenso
passivo. O si sono adagiate in una nicchia culturale, nutrendo la
retorica del “meno peggiore” (Meglio Prodi che Berlusconi, più
recentemente negli Stati Uniti meglio Clinton che Trump, come ha
sostenuto il candidato “socialista” Sanders) o non sono state in
grado di perseguire, con la coerenza estrema richiesta in questi
casi, i principi che si erano dati, come è il caso della parabola di
Syriza in Grecia che ha finito per giustificare la tirannia
finanziaria della Troika dopo averla per anni osteggiata.
L'obiettivo delle forze
anticapitaliste, che hanno un potenziale notevole come testimonia il
sondaggio, non può essere quello di scegliere tra due profili quasi
identici, i quali dichiarano a gran voce una contrapposizione
radicale sulle minuzie, ma che presuppongono un tacito accordo sulle
questioni fondamentali, evitando di mettere in discussione il
liberal-capitalismo, né quello di limitarsi alla denuncia degli
orrori e delle promesse non mantenute di quest'ultimo, di cui ormai
forse neppure i suoi più irriducibili propugnatori si curano, ma di
tornare a ciò che hanno smesso di fare, ripensare a un nuovo tipo di
società e mostrarne la concreta realizzabilità. Ribaltando
l'argomento del capitalismo postmoderno che, irridente, elude il
confronto ideologico e bolla come utopistici i progetti antiliberisti
e anticapitalistici di rifondazione della società, bisogna palesare
l'elemento superstizioso nella credenza dell'ineluttabilità
“naturalistica” di un prodotto umano e sostenere il realismo di
un progetto politico che non si rassegna al dato e che invece di
concepire l'agire umano come un risultato esclusivo delle forze
economiche impersonali, sottolinea come anche queste ultime siano la
risultante del primo, e perciò tutt'altro che immutabili.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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