Tanto la nostalgia quanto la
demonizzazione del passato sono atteggiamenti inadatti a
comprenderlo. Se con la prima, infatti, si rischia di mitizzare un
periodo trascorso, caricandolo di un valore che storicamente non gli
è proprio, con l'altra si proiettano le ansie e le paure tipiche del
presente nel passato allo scopo di scongiurarle. In entrambi i casi
si tratta di un processo di transfert,
più che di una lucida analisi storica, che confonde i caratteri
propri di un'epoca con quelli di un'altra. Il problema non è da
poco. Lo sguardo retrospettivo non è mai neutro; esso non solo è
commisto alle determinazioni ideologiche del soggetto che lo compie,
fosse anche il più lucido osservatore, ma spesso è contaminato dai
sentimenti che gli sono propri e che sono tipici di quella data epoca
dalla quale egli si volta indietro a guardare. Ciò vale in
particolar modo per quel passato più prossimo, quello, cioè, che si
fa ancora fatica a distinguere dal presente e che in esso trascolora.
Questo passato così contiguo interroga direttamente l'attualità, in
un modo così chiaro e diretto che spesso è facile confondere l'una
con l'altro.
Il trascorso della
sinistra italiana appartiene a quei temi che, spesso, per il modo in
cui vengono trattati, rivelano più sui soggetti che sugli oggetti
della trattazione. Il Partito Comunista Italiano, in particolare
quello del periodo che va dalla segreteria di Berlinguer al suo
scioglimento e di cui qui ci occupiamo, è per molti versi ancora un
oggetto sconosciuto. Ritardo della sinistra in Italia che non è mai
riuscita ad adattarsi alla mutata cornice storica, se non troppo
tardi, o momento della massima espressione e del massimo traguardo di
questa sinistra, inopinatamente interrotto per gli errori grossolani
dei suoi ultimi dirigenti; oppure: è stato giustamente interrotto,
ma non si è riusciti a porre le basi per qualcosa che ne conservasse
il motivo progressista a causa della nascita del PD, il quale ha
bloccato qualsiasi tentativo in tal senso; o ancora, la nascita del
PD era anch'essa necessaria, la sua conduzione da parte dei suoi capi
del tutto sbagliata.
Queste sono, più o
meno, le convinzioni più diffuse in merito. Diverse, ma tutte
accomunate tra loro dall'idea che la storia italiana degli ultimi
decenni (e, forse, nell'opinione dei loro sostenitori, la storia in
generale) proceda a balzi e singhiozzi, sia fatta di rotture e virate
improvvise, e dipenda in sostanza quasi esclusivamente dalle
decisioni di singoli. “Svolta” è, non a caso, una parola che
ricorre spesso quando si tenta di raccontare questi avvenimenti. Ma
non si afferra che anche queste “svolte” hanno dietro di sé un
processo preparatorio fatto di tante altre piccole "svolte" meno
visibili.
La storia della
sinistra italiana da Berlinguer a Renzi, per quanta differenza possa
esserci tra questi due punti estremi se considerati isolatamente, è
una transizione continua e graduale, che segue due direttive
principali, sempre quelle per tutto questo periodo, e che non
contempla brusche sterzate.
Queste
due direttive sono: accreditamento presso le potenze straniere e i
poteri economici; slittamento dalla questione sociale alla questione
morale. A ben vedere queste due direttive possono essere comprese in
una sola: fuga dal conflitto o, qualora questo sia inevitabile, sua
attenuazione. La seconda direttiva può essere sussunta sotto la
prima, la moralizzazione della politica è funzionale proprio alla
sanzione della tregua, una tregua da perseguire a tutti i costi – e
che infine è divenuta un'alleanza – con i poteri ostili.
A seguito del colpo
di stato in Cile, con il quale il generale Pinochet rovesciò il
governo di Allende, Berlinguer espose la tesi secondo cui i comunisti
non avrebbero potuto governare da soli, ma avrebbero dovuto ricercare
l'accordo con le altre “forze democratiche”. Ciò in ragione del
fatto che nell'area atlantica non era possibile per i partiti
socialisti e comunisti governare senza subire forti pressioni e
tensioni destabilizzanti che avrebbero portato a una situazione
simile a quella cilena.
La strategia
berlingueriana era pertanto fin dall'inizio improntata alla ricerca
dell'accordo “con il nemico”, e all'abbandono di una prospettiva
rivoluzionaria (che il PCI, nei fatti, aveva abbandonato da tempo, ma
che ora veniva teorizzata, seppure non esclusa del tutto o rimandata
ad altri momenti).
Berlinguer cercava
di ottenere dagli americani il riconoscimento di interlocutore
affidabile. Escludendo la possibilità di una transizione socialista
in Italia, e quindi accettando come inalterabili gli assetti
internazionali e l'egemonia atlantica sull'Europa occidentale
(l'eurocomunismo avrebbe dovuto servire proprio a questo scopo)
pensava di rassicurare gli americani e di permettere in questo modo
l'esordio del PCI al governo. Tre anni più tardi, infatti, nel 1976,
Berlinguer riconobbe la NATO come “scudo” protettivo e fattore di
stabilità rendendo ancor più espliciti i suoi intenti.
In questo modo
sperava di preparare il compromesso con l'avversario interno, la
Democrazia Cristiana. Sia l'opposizione politica che quella sociale
del PCI fu pertanto attenuata. Ciò però avvenne in una fase di
avanzamento del movimento operaio. Il “contenimento” delle lotte
sindacali che in quella fase pareva accettabile, si sarebbe rivelato
fatale quando, nel decennio successivo, sarebbe cominciata la
restaurazione sociale. Stati Uniti sul fronte estero, DC su quello
interno e capitale industriale su quello sociale erano i tre
interlocutori-avversari con i quali il PCI di Berlinguer cercava
l'attenuazione del conflitto, per poter approdare stabilmente al
governo. La strategia di Berlinguer, come sappiamo, fallì su tutta
la linea. Gli americani non si fidarono mai del PCI, il compromesso
storico non si concretizzò, i comunisti rimasero esclusi dal governo
e da lì a poco si sarebbe assistito alla controffensiva padronale
che sarebbe infine culminata in una piena restaurazione neoliberale.
Ciò nonostante essa rimase praticamente invariata negli anni
successivi.
Ciò che Berlinguer
aveva (suo malgrado) dimostrato è che gli americani (come i poteri
economici) non avrebbero mai accettato un partito comunista al
governo in Italia, per quante garanzie si potesse dar loro. La vera
svolta sarebbe avvenuta solo nel caso in cui si fosse abbandonata la
strategia berlingueriana, cosa che non avvenne. Al contrario, essa fu
portata alle estreme conseguenza. Se l'esistenza di un partito
comunista conduceva alla scontro diretto bisognava cambiare il
partito e rinunciare al comunismo. Il mezzo finisce per distruggere
il fine: l'occasione si presentò con il crollo dell'URSS.
Nonostante
l'evidente fallimento, Berlinguer non mutò la sua strategia. La sua
idea, rimasta invariata, era quella di creare le condizioni per
permettere al PCI di accedere al governo, a qualunque costo,
rimuovendo tutti gli ostacoli che si frapponevano davanti a questo
obiettivo. La conquista del potere politico avrebbe ripagato tutti i
sacrifici e avrebbe inaugurato un'era di progresso e di migliorie
sociali. Questo era il senso della spostamento dalla questione
sociale alla questione morale operato da Berlinguer: i partiti
occupavano lo Stato e se ne spartivano il controllo; questa
occupazione non solo era un fatto deprecabile, ma impediva il
rinnovamento del Paese, perché qualsiasi programma di riforma
sarebbe stato ostacolato da questa situazione. Pertanto diventava
prioritario e urgente affrontare il cuore della questione morale,
cioè il rapporto tra i partiti e lo stato, la classe politica e la
società civile. La questione sociale, veniva retrocessa o rimandata.
Essa non avrebbe potuto essere affrontata con successo se non avesse
trovato prima soluzione la questione morale, allo stesso modo in cui
il PCI non avrebbe potuto compiere la sua scalata al governo senza
l'appoggio o quanto meno la non interferenza dei poteri interni e
internazionali.
Siamo nel 1981 e
già sono abbozzati – e forse qualcosa di più che abbozzati –
tutti i caratteri della sinistra post-comunista: atlantismo e
moralismo, cioè accettazione degli assetti internazionali e del
dominio NATO (che avrebbe significato partecipazione alle guerre
imperialiste) e moralizzazione della politica, che tradotto dal
lessico berlingueriano significa ridimensionamento e contenimento del
ruolo della politica e dei partiti, ma sostanziale accettazione
dell'egemonia del capitale, “lotta alla corruzione” al posto
della lotta contro le iniquità sociali. Il PDS di Occhetto ereditò
integralmente queste caratteristiche, potendo contare in più su una
maggiore libertà di azione, essendosi sbarazzato dell'ingombrante
appellativo di “comunista”.
Innanzitutto,
infatti, il neonato partito accettava acriticamente la cornice
internazionale, la fine dell'Unione Sovietica e il dominio mondiale
degli Stati Uniti, e anzi lo celebrava come fine del giogo dei popoli
dell'est e della divisione tra Oriente e Occidente. Il crollo del
Muro di Berlino veniva riprodotto in piccolo, per così dire, in
Italia. La liquidazione del comunismo sanciva la conciliazione della
sinistra (almeno della parte maggioritaria di essa) con i poteri
economici e con i centristi, dando avvio alle coalizioni di
centrosinistra.
L'indagine di “Mani
Pulite” rappresentò un'opportunità unica per il PDS. Essa fece
piazza pulita dei suoi avversari politici più temibili. La questione
morale in questa contingenza, pertanto, fu lo strumento con cui il
PDS poteva porsi come guida moralizzatrice dell'Italia e proposta di
rinnovamento. Questa opportunità non venne colta a causa di un
incidente di percorso: Berlusconi.
Ma la strategia
berlingueriana rimase immutata. Anzi, la questione morale, dagli anni
dei DS dalemiani, riceveva una nuova coloritura e trovava nuovo
vigore; poteva contare su un profilo politico più netto, cioè
sull'opposizione al berlusconismo. Il moralismo
dell'antiberlusconismo – a cui il libertinismo berlusoniano era
perfettamente simmetrico e funzionale – svolse lo stesso ruolo di
sempre: la subordinazione della giustizia sociale (quando non la sua
totale rimozione) al contrasto alla corruzione e all'immoralità. La
corruzione è sempre intesa, si badi bene – in pieno stile
berlingueriano – come ingerenza della politica sulla società, come
un eccesso di politica che causa connivenze e nepotismo, la quale
deve essere ridimensionata, e mai, ma proprio mai, come corruzione
dei privati e come mercificazione della vita pubblica quale dinamica
congenita al capitalismo. In altri termini, la politica doveva
lasciar spazio alla “società civile”, ovvero al mercato, al
“libero gioco” della concorrenza. È seguendo questa direttiva
che i DS dalemiani furono i più convinti sostenitori delle
privatizzazioni, come neanche la destra sarebbe mai stata.
Il moralismo ebbe
in questa fase una funzione importante nel sostegno all'europeismo.
L'Unione Europea appariva come garanzia contro “gli sprechi” e le
ingerenze della classe politica italiana corrotta, ovvero
l'espansione della spesa pubblica che aveva consentito la crescita
dei redditi, e un limite alla gestione dei bilanci pubblici.
Per quanto riguarda
l'atlantismo D'Alema ne è stato uno dei più fedeli interpreti, egli
sostituì Prodi che era ancora troppo tiepido nel suo americanismo (e
troppo multilaterale) in un momento in cui non erano ammesse
esitazioni: il bombardamento della Serbia.
La fondazione del
PD vide questo scenario sostanzialmente inalterato. Anzi, i caratteri
del berlinguerismo vennero ulteriormente accentuati. L'alleanza con
gli ex democristiani diventava una fusione, l'americanismo veniva
spinto quasi fino a livelli parodistici, con l'imitazione dello
slogan di Obama durante la campagna elettorale di Veltroni. La
gestione di Bersani apparve divisa tra il coerente prosieguo della
direttiva berlingueriana, il composto di moralismo e atlantismo, e il
tentativo di conservare una vaga simbologia di sinistra e un richiamo
a un'anima “sociale”, peraltro inesistente: operazione
impossibile dopo la fondazione del PD, che aveva precisamente il
proposito di liquidare definitivamente queste componenti, e che
infatti fallì.
Ma il vero
liquidatore sarà soltanto Renzi. La liquidazione di sé è un
processo intrapreso proprio da Berlinguer, con la sostituzione
dell'atlantismo passivo (che diventerà poi attivo)
all'antimperialismo e del moralismo al socialismo e in generale della
convivenza al conflitto. Renzi non ne è che l'ultimo esecutore e
neanche uno dei più importanti. Se il compito di Berlinguer era di
operare la sostituzione nella sostanza della linea d'azione del PCI
lasciando inalterata la simbologia, quello di Renzi è di lasciare
inalterata la sostanza del PD (ormai già definitivamente acquisita)
e cambiare la simbologia, cioè quel che rimane del progressismo
sociale e dei valori passati cui fa subentrare un entusiasmo cieco
nel mercato e un'ossessione del “nuovo”, da intendere come
continua mutazione apparente ma sempre seguendo la direttiva
tradizionale.
L'accordo e la
compiacenza con i poteri economici e finanziari in particolare sono
un connotato tipico di Renzi che egli non si preoccupa di nascondere.
Anche qui abbiamo una radicalizzazione della strategia berlingueriana
dell'accettazione del contesto economico e internazionale e del
tentativo di aggredire la politica. La rapida ascesa di Renzi è
avvenuta all'insegna della cosiddetta “rottamazione”, che è
un'ulteriore declinazione della questione morale. Si tratta di
rottamare la “vecchia politica” che non è più, come ai tempi di
Berlinguer, quella che “assedia” la società civile, dalla quale
è stata cacciata del tutto, ma quella che cerca di conservare una
simbologia antica, seppure estremamente diluita, e che ripropone le
procedure politiche classiche, cioè la mediazione e la dialettica. A
questa “vecchia politica” da rottamare deve subentrarne una
“nuova” del tutto nichilista, priva di ogni nostalgia, che
persegue a tutti i costi la “modernizzazione”, cioè
l'adattamento della società al mercato, e che ripudia le mediazioni
tipiche della forma partito considerate come inutili perdite di
tempo, avvalendosi dei media in maniera spregiudicata.
Il PDS di Occhetto,
i DS di D'Alema, il Pd di Veltroni, quello di Bersani e infine quello
di Renzi, non sono delle svolte, delle improvvise mutazioni
genetiche, ma delle tappe di un processo che prosegue secondo la
stessa linea del PCI di Berlinguer. Esse sono state la
manifestazione, più chiara ed evidente che in altri momenti, dei
risultati raggiunti da questa strategia. Tanto è sbagliato, quindi,
l'atteggiamento di chi ricorda mestamente l'epoca berlingueriana come
“l'età dell'oro” contrapponendola alla decadenza attuale, quanto
quello di chi individua in Renzi un innovatore, l'autore di una
rottura senza precedenti. Sarebbe invece più utile e sensato cercare
di scovare nel passato i germogli delle tendenze attuali. In questo
caso si scoprirebbe che quella pretesa discontinuità è soltanto
frutto dell'immaginazione dell'osservatore contemporaneo.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
Immagine tratta da: https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Berlinguer
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