Quello della meritocrazia è un mito
del capitalismo che diventa uno slogan politico buono per tutti i
partiti. Ne ha fatto un vessillo la stampa con i suoi giornalisti di
punta che periodicamente lanciano campagne per chiedere “più
merito”; gli economisti ne esaltano le presunte virtù salvifiche
per l'economia e i politici ne promettono ad ogni comizio. Ne è
stato promotore Renzi che ha ripetuto queste due parole, “merito”
e “meritocrazia”, in modo quasi ossessivo nel corso della sua
ascesa politica.
L'istanza della meritocrazia è
semplice: gli incarichi direttivi siano affidati ai più capaci!
Siano premiati i migliori! La scuola selezioni gli allievi più
meritevoli! Si faccia questo e tutto andrà per il meglio!
La parola meritocrazia è in
realtà sinonimo di un'altra, che i suoi alfieri preferiscono non
usare: aristocrazia. Aristocrazia significa proprio “governo
dei migliori” e indica una società in cui il potere è affidato
agli individui considerati più validi. Un'aristocrazia non deve
essere per forza ereditaria, come anche lo è stata in passato, ma
può essere anche elettiva, o, infine, meritocratica, cioè
selezionante sulla base di alcuni sistemi di valutazione. La
meritocrazia è la forma moderna di aristocrazia. Forse l'unica
differenza tra quella attuale e quella antica è che mentre
quest'ultima premiava di più il coraggio e le virtù morali, la
meritocrazia ha un'accezione quasi esclusivamente tecnica, mira cioè
a valutare le abilità professionali degli individui e il loro
rendimento indipendentemente dal loro profilo psicologico.
Nella definizione di meritocrazia (o di
aristocrazia) è già contenuta la domanda cui è difficile (se non
addirittura impossibile) dare una risposta valida: chi sono i
migliori? Quali caratteristiche devono essere premiate? Per alcuni
potrebbe essere il coraggio, per altri l'onestà, per altri ancora
l'intelligenza o magari l'affidabilità. Dato che si tratta di
caratteri personali molto diversi non possono essere paragonati e
misurati in modo oggettivo. È preferibile un uomo intelligente ma
vile, o uno sciocco ma coraggioso? È preferibile un dirigente
estremamente preparato nel suo campo ma egoista o uno poco preparato
ma altruista? È difficile trarre una regola generale. Ma anche
presupponendo che si possano isolare una o poche qualità sulla base
delle quali si sceglie di valutare i vari candidati, è tutt'altro
che semplice trovare un metodo certo a questo scopo. Probabilmente le
nozioni teoriche acquisite possono essere misurabili, ma come fare
per l'intelligenza? Solo questa, infatti, permette di applicare
queste nozioni ai casi pratici con profitto. A cosa serve, ad
esempio, un avvocato che conosce tutto il codice a memoria, ma non sa
tenere un'arringa?
Il sistema di misurazione
dell'intelligenza più accreditato è il Q. I. I fautori della
meritocrazia si avvalgono di esso per selezionare tra allievi o
candidati. Questo criterio però valuta solo una parte
dell'intelligenza, quella di tipo logico e matematico. Ma cosa dire
di tutte le altre facoltà intellettive? L'abilità nelle relazioni
umane, le capacità comunicative, l'intuito nel comprendere stati
d'animo propri e altrui, la fantasia (che non ha a che fare tanto con
la pura logica matematica, ma con la logica associativa) sono tutte
particolari forme di intelligenza che il Q. I. non è in grado di
valutare. Eppure esse sono necessarie per svolgere molti compiti
nella quotidianità. Ogni individuo le possiede, seppure a diversi
gradi. In realtà la mente umana non funziona a compartimenti stagni,
ma queste diverse facoltà si intersecano tra di loro e al momento di
esprimersi diventano quasi indistinguibili. Uno scienziato, ad
esempio, deve poter contare anche su una buona dose di fantasia, se
vuole trovare soluzioni efficaci ai problemi e fare nuove scoperte.
Ma un pittore, che è associato all'immaginazione artistica, deve
conoscere le regole della prospettiva, che riguardano la logica
“classica”. La separazione tra le varie facoltà è astratta e un
prodotto dell'evoluzione culturale, non qualcosa di “naturale”.
Di conseguenza, il Q. I. non solo fallisce nel valutare
l'intelligenza considerata nel suo complesso, ma potrebbe persino
nella misurazione di quella parte specifica che gli è più
congeniale, perché anche questa si avvale di tutte le altre.
Se quindi è impossibile valutare
oggettivamente l'intelligenza (figuriamoci altre qualità come la
lealtà, il coraggio, la bontà ecc.) le fondamenta stesse della
meritocrazia sono alquanto instabili.
Sarebbe sicuramente più onesto, da
parte dei sostenitori della meritocrazia, ammettere che ciò che essi
vogliono premiare è un particolare tipo di
merito, in genere quello che ha a che fare con capacità
tecniche e professionali. Sfortunatamente per loro (e fortunatamente
per il genere umano) un metodo certo e obbiettivo per farlo non
esiste e non potrà mai esistere, perché quasi tutte le attività
richiedono un'interazione di diverse qualità. Ma anche se esistesse,
questo metodo dovrebbe considerare una certa facoltà a scapito di
tutte le altre. Anche ammesso, quindi, e non concesso, che la
valutazione di questa facoltà possa essere oggettiva, non lo sarebbe
affatto la preferenza accordata a essa rispetto a tutte le altre.
Questa preferenza scaturisce da un pregiudizio e da una motivazione
ideologica, invece che da una presunta imparzialità. L'intento che
si cela dietro l'ideologia artistocratico-meritocratica è quello di
promuovere una data idea di società e di respingerne altre. Gli
individui selezionati non sono perciò “i migliori” o “i
meritevoli” (parole che, di per sé, non hanno alcun significato)
ma quelli giudicati più idonei a realizzare una certa organizzazione
sociale. La meritocrazia promuove un produttivismo esasperato e
sottopone tutti i bisogni umani alla tirannia dell'economia e del
mercato. Il fine deve essere quello di produrre più ricchezza,
concepita soltanto in termini di beni commerciabili e di denaro –
quindi tutto quello che non è misurabile dal denaro viene giudicato
privo di valore: gli affetti, l'empatia umana, ecc. Gli individui
devono essere appetibili per gli acquirenti (le imprese) e come le
merci devono possedere certi requisiti che ne determinano il valore.
Chi non si accorda con le necessità della produzione e del mercato
viene escluso, e su di esso peserà, come se non bastasse, il marchio
infamante di “inetto”.
I dettami della meritocrazia sono stati
applicati con grande solerzia nell'educazione, proprio lì dove hanno
fatto più danni. Negli Stati Uniti è usato il sistema del Q. I.,
dei cui gravi difetti si è già detto. In Italia, per fortuna, esso
non si è affermato, e tuttavia sentiamo ripetere dal Ministro
Giannini, come da molti suoi predecessori, che ci vuole “più
merito” nella sistema scolastico. Le direttive del Ministero, da
diversi anni ormai, tendono a “collegare scuola e impresa”,
snaturando completamente il nostro sistema educativo, instillando
l'idea che la scuola debba servire non a permettere lo sviluppo di
ogni persona secondo le sue attitudini e le sue scelte in armonia con
la società, ma a “formare” nuovi tecnici e dirigenti per le
imprese; i pedagogisti ormai hanno smesso di parlare di “conoscenza”
come uno dei fini principali della scuola e ripetono ossessivamente
la parola “competenze”, o il suo corrispettivo inglese, “skills”.
La scuola, per la pedagogia meritocratica, deve produrre le
competenze che servono al produttore-consumatore per adattarsi al
mercato globalizzato.
Questo genere di organizzazione sociale
più che premiare il merito incoraggia il conformismo, la furbizia,
il cinismo, l'individualismo, l'avidità, il disincanto. Questo, in
definitiva, è il merito che gli illuminati sostenitori della
meritocrazia si affannano a elogiare e la cui promozione il governo
ha fissato come proprio obiettivo prioritario.
Ci piace concludere con le parole del
sociologo inglese Michael Young:
La
società senza classi sarà quella che avrà in sé e agirà secondo
una pluralità di valori. Giacché se noi valutassimo le persone non
solo per la loro intelligenza e cultura, per la loro occupazione e il
loro potere, ma anche per la loro bontà e il loro coraggio, per la
loro fantasia e sensibilità, la loro amorevolezza e generosità, le
classi non potrebbero più esistere. Chi si sentirebbe più di
sostenere che lo scienziato è superiore al facchino che ha
ammirevoli qualità di padre,
che il funzionario statale straordinariamente capace a guadagnar
premi è superiore al camionista straordinariamente capace a far
crescere rose? La società senza classi sarà anche la società
tollerante, in cui le differenze individuali verranno attivamente
incoraggiate e non solo passivamente tollerate, in cui finalmente
verrà dato il suo pieno significato alla dignità dell'uomo. [...]
Il bambino, ogni bambino, è un individuo prezioso, e non soltanto un
potenziale funzionario della società. Le scuole non devono essere
vincolate alla struttura occupazionale, non debbono limitarsi a
fornire individui idonei a svolgere le mansioni considerate
importanti in un particolare momento, ma debbono dedicarsi a
incoraggiare lo sviluppo di tutte le qualità umane, siano o non
siano queste del tipo richiesto da un mondo scientifico. Alle arti e
alle abilità manuali deve essere dato altrettanto risalto che alla
scienza e alla tecnologia. (M.
Young, L'avvento
della meritocrazia,
Edizioni di Comunità, Roma, 2014, pp. 194-195).
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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