La parola
democrazia è usata e abusata nella pubblicistica politica come anche
negli studi accademici. Con essa si è soliti riferirsi al sistema
politico-istituzionale occidentale, cioè in particolare quello
dell'Europa e del Nord America. Si tende a considerare un dato di
fatto indiscutibile che nei paesi di quest'area esistano governi che
mutano negli anni ma che permanga una democraticità di fondo delle
istituzioni.
L'uso del lessico
politico è spesso irriflessivo, non è mai sottoposto a una seria
critica storica e filosofica e viene accettato per lo più in modo
quasi del tutto inconsapevole. Basterebbe anche un'analisi appena più
profonda dell'ordinario per scoprire come la parola “democrazia”
sia usata del tutto a sproposito.
Dovrebbe
risultare piuttosto evidente che il “potere del popolo” non
esiste nell'attuale sistema politico occidentale. L'esistenza del
suffragio universale, vero feticcio della politica occidentale, di
per sé non garantisce il potere del popolo. Garantisce soltanto la
rappresentanza,
che è una forma di legittimazione del governo in carica, una delle
tante possibili. Questa rappresentanza attraverso l'elezione non
coincide col potere del popolo e nemmeno con una sua qualsivoglia
influenza decisionale. Di democratico non c'è nulla, nemmeno sul
piano formale. Sarebbe più corretto definire invece questo sistema
un'oligarchia
rappresentativa, dove
oligarchia
sta a indicare il potere dei pochi sui molti e rappresentativa
sta per legittimazione dei pochi per mezzo dei molti attraverso
un'elezione.
Un carattere
originale delle pseudo-democrazie odierne è la separazione tra
gruppo sociale dominante e governo politico. Il gruppo dominante può
non esercitare direttamente il governo, ma ciò non toglie nulla al
suo dominio sociale che ne può persino venire rafforzato. Il governo
politico è esercitato da una classe nazionale di burocrati e
politici di professione distinta (ma non per questo in contrasto)
rispetto alla classe oligarchica internazionale. Proprio questa
separazione permette di perpetrare la finzione del potere del popolo
che elegge di volta in volta certi membri di questa classe invece che
altri, credendo così di esercitare la sua sovranità, mentre l'élite
dominante, che è economica e non politica, resta immutata e non
scalfita dal rito delle elezioni.
La ragione di
questa illusione e del successo della maschera democratica
dell'oligarchia (un'oligarchia anche più potente di quelle del
passato) sta nel retaggio liberale che non persegue il controllo
politico della società, ma al contrario, lo scioglimento o
l'indebolimento di questo controllo politico. Il fondamento del
governo, secondo tale concezione, si esprime in procedure di tipo
politico-istituzionale “chiuse”, che cioè delimitano una sfera
di intervento del governo la quale resta pressoché immutata. La
concezione liberale considera infatti che necessitino di disciplina
soltanto i mezzi politico-normativi, ma non quelli materiali ed
economici. È questo, tra l'altro, il motivo per cui le teorie
politiche nelle pseudo-democrazie sono spesso normativistiche. Si
crea così una sfasatura tra l'“ufficialità” della prassi
istituzionale e la realtà dei conflitti sociali e materiali.
C'è
da dire che questo orientamento è stato mitigato dal socialismo, che
ha costretto in alcuni casi i governi a estendere in parte la zona di
intervento. Resta però il fatto che i gruppi sociali dominanti
dispongono di mezzi infinitamente superiori (che sono andati
crescendo negli anni) rispetto a quelli dei governi “democratici”
limitati per natura. La potenza di questi mezzi finisce
inevitabilmente per influire anche sulle procedure normative
(influenza che i teorici normativisti fingono di non vedere). Bisogna
considerare infatti la reale
procedura di deliberazione politica dei parlamenti e dei governi
“democratici”. Riassumendo, si può dire quanto segue:
- Le classi
dominanti costituiscono e finanziano gruppi di pressione e “think
tank” che elaborano e giustificano linee programmatiche
nell'interesse di dette classi.
- Le classi
dominanti sovvenzionano anche i principali partiti politici (tutti
autodefiniti “democratici”).
- I gruppi di
influenza non si estendono solo alla politica, ma anche all'editoria,
ai media, alle università, che spiegheranno al pubblico la necessità
di adottare quelle linee programmatiche
- I gruppi di
influenza espongono ai capi-partito le linee programmatiche che hanno
elaborato e la necessità di adottarle.
- I gruppi di
influenza, sulla base di quelle linee programmatiche, redigono dei
documenti politici che invieranno ai tecnici del governo.
- I tecnici, sulla
base di questi documenti, redigono proposte di legge.
- Le proposte di
legge arrivano sul tavolo dei parlamentari che dovranno presentarle
in parlamento.
- Gli altri
parlamentari ricevono dai loro partiti l'ordine di votare a favore di
quelle proposte (che molto spesso essi non hanno neanche letto).
- La proposta
viene votata e diventa legge. I rappresentanti eletti dal popolo
hanno votato una legge contro il popolo.
Quanto descritto
riguarda una comune procedura reale deliberativa. Ne esistono
tuttavia anche di interdittive, quali: mancanza di finanziamenti per
candidati che non rispettano le linee programmatiche, campagna
mediatica sfavorevole o oscuramento, ricatto finanziario contro i
governi che non si attengono alle linee (fuga di capitali, crollo del
valore dei titoli di stato, ecc.).
È difficile
vedere in tutto ciò anche un solo barlume di democraticità. Il
popolo che avrebbe il potere quale potere ha? Quello di eleggere dei
rappresentanti, che però sono già stati preselezionati dalle
dinamiche suddette. Anzi, proprio il meccanismo dell'elezione a
suffragio universale inibisce qualsiasi effettiva universalità; gli
eleggibili devono ottenere consenso e per farlo devono passare
attraverso le procedure di cui si è detto (reperimento di fondi,
campagne mediatiche, ecc.). Certo, non è impossibile che nel
processo deliberativo entrino istanze autenticamente “popolari”,
ma molto difficile. La pseudo-democrazia scoraggia questa
eventualità. Se si guarda la breve descrizione dei meccanismi
deliberativi e interdittivi si nota facilmente che non sono di tipo
normativo, o lo sono soltanto in una seconda fase, ma soprattutto
economico. È la pervasività economica e non il controllo politico,
alla base della pseudo-democrazia e ciò rende inutili tutti i
dibattiti normativistici che trascurano questo fatto, ragionando per
categorie astratte che basano i procedimenti decisionali su una
supposta indifferenza di tutti i soggetti.
Bisogna però
sgombrare il campo da qualsiasi ipotesi “cospirazionista”. Quanto
descritto appartiene alla quotidianità e alla normalità delle
procedure. Non si tratta di una “eccezionalità”, di un
“tradimento” della “democrazia” ma è inscritto nel suo
stesso modo di funzionamento. Un sistema politico che limita la sfera
di intervento del governo ma non quella dei gruppi sociali dominanti
porta inevitabilmente a un governo subalterno rispetto ai gruppi
medesimi e quindi non potrà mai essere democratico.
Tutto
ciò è piuttosto risaputo nelle conferenze organizzate dai gruppi di
influenza e ai “rappresentanti del popolo” che vi partecipano.
Secondo quanto riportato dal giornalista Paolo Barnard nel 2012
l'allora Ministro Elsa Fornero, al World Pension Summit ebbe a
dichiarare: “I
cambiamenti portati dalla riforma delle pensioni del governo Monti
erano necessari per compiacere i mercati finanziari, altrimenti i
mercati avrebbero devastato l’Italia”. Pare difficile pensare che
un governo del genere possa essere definito democratico. L'ex
Presidente della Commissione Europea Manuel Barroso disse, in
un'intervista al Telegraph, che “La
ragione per cui abbiamo bisogno dell’Unione Europea è proprio che
essa non è democratica”. Considerando che circa l'80% delle leggi
italiane sono applicazioni di direttive europee, questa affermazione
è abbastanza rivelatrice del nostro sistema politico.
Si
deve tuttavia ammettere che nei decenni passati gruppi sociali non
dominanti hanno potuto esercitare una certa influenza nel processo
decisionale. Non si trattava, nemmeno allora, di una democrazia, ma
le particolari condizioni storiche e socio-economiche e certi
apparati politici hanno permesso a interessi e volontà non
oligarchiche di affermarsi. In Italia il contesto socio-economico per
quarantacinque anni fu quello emerso dalla Resistenza. In questo
sistema un capitale nazionale doveva giungere a un compromesso con
una classe lavoratrice e questo compromesso poté essere garantito da
una ceto di dirigenti politici. Attualmente, invece, il capitale si è
internazionalizzato, i lavoratori indeboliti e disgregati, il ceto
politico post-bellico esaurito e azzerato. Le basi quindi del
compromesso sono venute meno. I gruppi sociali dominanti
internazionali non hanno interesse a un nuovo compromesso e lavorano
per restringere ulteriormente la sfera di intervento di governi. Ecco
perché l'attuale fase storica appare ad alcuni come “involuzione
democratica”, sebbene non si tratti di una degenerazione di un
meccanismo intrinsecamente “sano”, ma di un adattamento politico
a mutate condizioni storiche.
Le
premesse per una reale democrazia, dunque, si creeranno solo quando
cadrà definitivamente la maschera della pseudo-democrazia e vi sarà
una presa di coscienza collettiva riguardo al carattere oligarchico
del sistema di governo vigente, quando maturerà una capacità
politica di contrasto di questa oligarchia e quando si capirà che il
controllo politico per essere realmente democratico e popolare deve
estendersi alla sfera economica e non ritirarsi da essa.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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