Quello della
legalità è un vessillo molto in voga in Italia negli ultimi tempi.
L'appellativo di Sciascia di “professionisti dell'antimafia”, per
riferirsi a certi magistrati, potrebbe essere convertito in
“professionisti della legalità” intendendo tutto quel clero di
giornalisti e scrittori che grazie alla retorica legalista ottengono
un facile notorietà sui media. Si pensi al caso editoriale e
televisivo di Roberto Saviano e alle sue pillole legalitarie
dispensate in libri, articoli e spettacoli per le masse degli
indignati a comando. L' “ondata”legalitaria, infine, non poteva
non fare la sua incursione anche in politica, con l'idea del “fronte
degli onesti” di cui il Movimento Cinque Stelle è il maggiore
interprete.
A cosa si deve il
successo del legalismo in Italia? A un'antropologia basica,
innanzitutto, che divide gli individui in “onesti” e “corrotti”
o “mafiosi”, di facile comprensione e di immediato impatto
emotivo. Nell'era del ripudio delle ideologie (ovvero di tutte le
ideologie tranne di quella del mercato sovrano) e di ogni idea di
totalità filosofica l'antropologia legalista si innesta
perfettamente su questo nichilismo politico. Essa infatti non
interroga convinzioni politiche ma soltanto la “coscienza privata”
dell'individuo, la moralità riferita alla cerchia individuale.
Il legalismo non
contempla una critica della società. L'ambiente sociale è un
fattore neutro, che non influisce nello scontro tra buoni e cattivi,
eroi della legalità e delinquenti che tramano per i propri interessi
egoistici. L'ordine sociale viene accettato come un dato di fatto
immutabile, una pura cornice della lotta tra bene e male, legge e
crimine. Il legalismo, anzi, assume come proprio scopo la scrupoloso
rispetto degli assetti giuridici e considera come foriero di
disordine qualsiasi infrazione di tali assetti; ovviamente è ben
lontano dal valutare i rapporti economici che sono alla base di
questi ultimi, il che implicherebbe una critica e imporrebbe l'uscita
dall'antropologia irriflessiva che si è dato. La battaglia
legalitaria si gioca soltanto sul terreno della moralità privata,
trasposta però in uno spazio pubblico; i mali sociali sono visti
come il risultato dell'agire sconsiderato di alcuni singoli e
dell'infrazione sistematica della legge. Non si comprende che,
invece, l'illegalità è non la causa ma l'effetto: essa è uno degli
esiti dei rapporti socio-economici. Il legalismo invece sacralizza la
Legge, considerata non, marxianamente, come la sanzione giuridica di
dati rapporti di produzione, ma come un ordine benefico in se stesso
e pone l'adesione ad essa come il massimo fine perseguibile. Di
conseguenza quest'ordine è di fatto assunto acriticamente come fisso
e dato una volta per tutte.
In questa
sacralizzazione della legge, che considera il rispetto della norma
come valore in se stesso, la politica, che è invece cooperazione e
conflitto dei gruppi sociali volta alla manipolazione della legge
vista come mezzo e non come fine, scompare nell'etica privata. Se
infatti la legge è a monte e non a valle della scelta individuale,
sua condizione e suo presupposto, non è data altra possibilità che
decidere individualmente in merito all'adesione o meno alla norma. La
vita pubblica così si esaurisce nella coscienza del singolo nel
momento in cui questi sceglie a quale campo appartenere, tutto il
resto non è che un corollario di questa scelta: la vita pubblica è
ridotta alla semplice trasposizione pratica della coscienza privata e
l'intersezione dell'agire dei singoli.
Tuttavia nella
dimensione morale può sorgere una contraddizione. L'etica infatti
esige dagli individui una scelta non solo sul versante privato, ma
anche su quello pubblico e politico. Deve sorgere necessariamente un
“principio di responsabilità”, per usare l'espressione di Hans
Jonas che impone di trasferire il processo decisionale all'ambito
socio-politico, e quindi impone una presa di posizione non soltanto
in merito all'affermazione o negazione della legge, ma anche riguardo
alla sua sua sostanza e al contesto ambientale che ne è alla base.
Così il legalismo, qualora si sviluppi coerentemente l'interrogativo
morale, rischia di entrare in crisi e in contraddizione con i propri
presupposti. Perché questa eventualità non si verifichi è
necessaria un'accettazione religiosa della legge, tale per cui si
consideri come un valore intrinseco e non estrinseco l'adesione alla
norma. È la legge stessa che diventa, in un rovesciamento
dialettico, la legittimazione della morale, e non il contrario.
Ma l'accettazione
religiosa della legge non è altro che l'accettazione irriflessa
dell'ordine liberal-capitalistico. Se infatti la sovrastruttura
giuridica è radicata nel contesto socio-economico, il rispetto
acritico della norma – storico e mutevole, ma trattato come fosse
astorico e immutabile – è un'adesione passiva a questo stesso
contesto.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
Nessun commento:
Posta un commento