Le riforme delle pensioni negli ultimi
vent'anni in Italia sono state un fattore decisivo nel processo di
smantellamento dello Stato sociale, di polarizzazione della società
e di privatizzazione delle funzioni statali. Con il passaggio al
sistema contributivo e la parziale privatizzazione del sistema
previdenziale si è avuta una riconfigurazione dei rapporti di forza
a vantaggio del capitale, in particolare di quello finanziario.
Questo processo, che è passato
attraverso una certa gestione del consenso politico, ha imposto un
fatalismo diffuso che vedeva la ristrutturazione del sistema
previdenziale (che rientra nel più ampio fenomeno di compressione
dell'apparato statale) come necessità derivante da tendenze
incontrollabili dell'economia e dall'indebitamento pubblico.
Per quanto si sia cercato di mascherare
questo fatalismo dietro un velo di tecnicismo risulta evidente in
esso l'elemento ideologico; in realtà non è l'economia a essere di
per sé incontrollabile, ma è la rinuncia della politica alle sue
prerogative di intervento che la fa apparire tale. Neanche
l'indebitamento pubblico è un problema insolvibile, qualora lo Stato
conservi gli strumenti di azione politico-economica (la cui
dismissione, invece, è stata spinta fino alla rinuncia del monopolio
della moneta).
Ma una mitologia in particolare è
servita allo scopo di creare consenso attorno a questo nuovo dominio
economico, soprattutto per ciò che riguarda il sistema
pensionistico.
Le pensioni, si è detto, sono
eccessive, perché sottraggono ricchezza alle generazioni future, che
non potranno ricevere un reddito accettabile quando saranno diventate
inattive. Inoltre, la “generosità” dello Stato verso i
pensionati dilapiderebbe le ricchezze disponibili per gli anni
avvenire. Pertanto, il ridimensionamento del sistema previdenziale
sarebbe una questione di etica pubblica, ispirato a un
“principio di responsabilità”, come direbbe Hans Jonas, verso il
futuro.
Il carattere ideologico di queste
proposizioni si evince dalla totale assenza dal discorso invalso
presso i mezzi di comunicazione di massa di un analogo criterio nella
distribuzione della ricchezza tra le classi. Ammesso che questa sia
strutturalmente ridotta rispetto al passato, che quindi non possa
essere incrementata e che si renda necessario un suo razionamento,
perché non si richiede un'identica redistribuzione dai ceti
privilegiati (in particolare l'aristocrazia finanziaria) verso quelli
più deboli?
Oltre a questo c'è, peraltro, una
mistificazione anche sul piano tecnico. L'attuale generazione, da
questo punto di vista, non ha alcun debito con la prossima, giacché
quest'ultima dipenderà soltanto dalla ricchezza che sarà in grado
di produrre (eccetto per le “fondamenta” del sistema economico,
come la rete infrastrutturale e per il risparmio privato che non è
legato direttamente a scelte di politica economica). Ciò vuol dire
che i futuri pensionati percepiranno un reddito solo dai futuri
lavoratori e non da “riserve” monetarie accumulate attraverso i
contributi. Tutto dipenderà, quindi, dalla capacità dell'apparato
produttivo dei prossimi anni di generare ricchezza sufficiente. Il
sistema pensionistico non comporta alcuna “ipoteca” sul futuro,
ma è soltanto un metodo di ripartizione della ricchezza prodotta tra
la popolazione attiva e quella inattiva.
Pertanto la mitologia del “conflitto
generazionale” è una finzione che serve a mascherare il conflitto
reale di classe, quello che vede un'aristocrazia finanziaria,
coadiuvata dal grande capitale industriale, muovere guerra alla
classe media risparmiatrice e agli strati popolari già impoveriti.
“Conflitto generazionale” è, in un
certo senso, una contradictio in adjecto,
esso può darsi, al più, sul piano culturale, ma non su quello
economico. L'elemento conflittuale della società continua ad essere
quello di classe, come dimostrano le tendenze polarizzatrici che
riemergono (dopo che, negli anni dello stato keynesiano, sembravano
superabili in favore di un tendenziale livellamento) e che
interessano tanto le generazioni più giovani quanto quelle più
anziane.
Può
darsi piuttosto una competizione
tra generazioni limitata al controllo di alcune posizioni di potere
(inserita nella polemica dei media come scontro tra meritocrazia
e gerontocrazia) come
si dà competizione nel capitalismo, ma essa non è interclassista e
non riguarda la struttura o la conformazione particolare
dell'organizzazione sociale nel suo complesso, i rapporti di forza e
la distribuzione della ricchezza.
Il
principio generazionale
resta un artificio retorico e ideologico che cerca di occupare il
vuoto lasciato nei discorsi dalla scomparsa del principio
di classe, il quale tuttavia
continua ancora ad essere il più adatto a spiegare i fenomeni
socio-economici.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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