Recentemente
sono state sollevate da più parti perplessità in merito alla Legge
Merlin che in Italia ha fatto la storia del trattamento legale della
prostituzione. Si è dichiarata questa legge superata, poiché
inefficace, e si è chiesto che la prostituzione venisse legalizzata
a tutti gli effetti. Secondo la legge italiana essa non è illegale,
non è vietato prostituirsi né usufruire delle prestazioni sessuali
a pagamento, ma ne è proibito lo sfruttamento da parte di terzi.
Questo è il cosiddetto modello “abolizionista” in vigore in
alcuni paesi europei oltre all’Italia, tra i quali la Francia e il
Regno Unito, ma anche in alcuni paesi latino-americani.
Chi
propone una regolamentazione della prostituzione, intende invece
liberalizzare questa attività, stabilire luoghi e norme idonei per
essa, che tutelino la sicurezza delle persone coinvolte. È il
cosiddetto modello “regolamentarista” che si è affermato in
nazioni come l’Olanda, la Germania, la Svizzera e la Nuova Zelanda.
Esiste
un terzo modello, quello “proibizionista” che vieta del tutto la
prostituzione, sia nell’esercizio che nell’acquisto di
prestazioni e ovviamente nello sfruttamento. È in vigore negli Stati
Uniti e in diversi paesi dell’Europa dell’Est e dell’Asia.
Ultimamente
sono aumentate le voci di coloro che, non solo in Italia, chiedono un
modello di tipo regolamentarista. Costoro sostengono sia sbagliato
considerare la prostituzione un fenomeno estirpabile e da estirpare e
sostengono il diritto delle “lavoratrici sessuali” di scegliere
questa attività per il loro sostentamento.
L’idea
che li ispira è profondamente liberale, in quanto non si preoccupa
del fenomeno sociale nel suo complesso, ma delle scelte di singoli
individui, considerati come agenti razionali che decidono in piena
libertà. I regolamentaristi sottovalutano le pressioni che possono
esistere in una società, soprattutto quelle di tipo economico, e
sopravvalutano l’importanza dell’espressione del consenso
individuale.
Per
sostenere la loro tesi argomentano che molte prostitute si ritengono
soddisfatte della loro attività e di averla scelta liberamente. Ma
ciò deriva da un fraintendimento essenziale del concetto di libertà,
figlio di quella stessa cultura liberale. I regolamentaristi,
infatti, muovono da un liberalismo estremo che chiameremo “liberismo
etico”, prendendo in prestito il sostantivo dal linguaggio
dell’economia. In questo campo, infatti, il liberismo è quella
dottrina che propugna la limitazione dell’intervento dello Stato e
delle leggi e la libertà assoluta del mercato. Qualsiasi intervento
pubblico che intralci gli agenti privati – eccetto ciò che è
indispensabile per l’esistenza della burocrazia statale, come le
forze di polizia o l’amministrazione della giustizia – può,
secondo i liberisti, danneggiare il benessere della società,
considerata come la somma algebrica degli individui e delle loro
contrattazioni private. L’unico intervento dello Stato deve essere
diretto a tutelare questa autonomia del settore privato. I liberisti,
in sostanza, credono che la sommatoria di azioni individuali, purché
avvengano in piena autonomia dal governo o da apparati corporativi o
comunitari, conducano al massimo benessere collettivo possibile.
I
regolamentaristi estendono un’analoga concezione al di fuori
dell’economia. Come i liberisti rifiutano di dare un giudizio
complessivo sul fenomeno sociale, ma vogliono garantire
esclusivamente diritti individuali. Rifiutano di ammettere un
intervento dello Stato nel limitare un tale fenomeno, perché
potrebbe secondo loro danneggiare la libertà dei singoli. A meno che
non sia un intervento volto a permettere l’esercizio di queste
(presunte) libertà. Le case di tolleranza, o la loro moderna
versione, i quartieri a luci rosse, sono la trasposizione di ciò che
rappresentano le “autorità di garanzia” in campo economico che
devono vigilare sul “libero mercato”. Come i liberisti, i
regolamentaristi affermano che il problema non sia il fenomeno in sé,
ma la rimozione di tutti gli ostacoli che ne permetterebbero e ne
stimolerebbero l’esercizio più efficiente. Inoltre, considerano il
fenomeno della prostituzione come la semplice risultante della
“libera iniziativa” individuale e delle diverse contrattazioni
tra venditore e acquirente. Infine, entrambi credono impossibile
estirpare certi “effetti indesiderati”. La prostituzione non
potrà mai essere abolita, così come la povertà o la
disoccupazione, e qualsiasi tentativo in questo senso causerebbe più
danni che benefici e finirebbe per rivelarsi autoritario e dispotico.
Si
possono così tracciare i caratteri del liberismo etico: esso
considera il fenomeno la semplice risultante delle scelte dei singoli
e pensa che lo stato non possa interferire in queste scelte per
nessun motivo. Il liberismo etico è radicalmente antiproibizionista,
non ammette in nessun caso che la legge possa interferire nelle
decisioni individuali per arrestare un fenomeno. Lo stesso giudizio
che viene dato sul fenomeno è discusso. La prostituzione (in questo
caso, ma potrebbe essere applicata la stessa argomentazione ad altri
campi) sarebbe un male solo nel caso in cui fosse non voluta. Qualora
ci sia un consenso dell’individuo, essa va accettata, perché le
scelte individuali non possono essere discusse.
Per
sintetizzare si può dire che il liberismo etico abbia due tratti
salienti: la prevalenza delle azioni individuali e del consenso
dell’individuo rispetto alla considerazione del fenomeno
complessivo.
Proprio
in questo mostra la sua fallacia: non considera infatti come le
dinamiche generali di una società possano influire negativamente
anche su singoli individui, seppure su questi ultimi non fosse stata
esercitata nessuna pressione diretta. Prendiamo il caso del
tabagismo: potrebbe essere considerato un normale rapporto
commerciale tra acquirente e venditore, nel quale ognuno gode di una
formale autonomia decisionale. Eppure a livello generale causa
milioni di morti all’anno in tutto il mondo, e con essi tutto ciò
che ne consegue (costi sanitari, “fumo passivo”, ecc).
Inoltre,
il consenso, seppure esplicito, non tiene conto delle influenze
dell’ambiente sociale, delle cognizioni e della cultura
dell’individuo. Che cosa intende dire colei che afferma di essersi
prostituita “liberamente”? È lecito pensare, che si riferisca
un’autonomia formale, cioè dell’assenza di una coercizione
diretta da parte di altri individui, non certo a una autonomia
sostanziale, cioè all’inesistenza di pressioni sociali di altro
tipo. Ci si prostituisce “liberamente” per pagarsi l’università
(che altrimenti non si potrebbe frequentare) oppure perché si è
allettati dai guadagni migliori rispetto ad impieghi malpagati. Ma
ciò che vale per la prostituzione può essere esteso, e si può
arrivare a giustificare la vendita “libera” di alcune donne del
proprio utero. In tutti questi casi è la struttura stessa della
società, ovvero l’esclusione di alcune classi sociali, ad
esercitare pressione sull’individuo, una pressione che il liberista
etico è incapace di vedere perché non tiene conto del fenomeno ma
si ferma al consenso dell’individuo.
Non
è una prerogativa dei soli conservatori (sia “di destra” che “di
sinistra”), ma ormai anche diverse femministe si sono aggiunte al
coro dei liberisti etici che chiedono la liberalizzazione della
prostituzione. Esse sono sicuramente animate dalle migliori
intenzioni; cercando di rendere l’attività delle prostitute un
“mestiere” come un altro cercano di rimuovere lo stigma sociale
su di esse. Ma non si rendono conto che così facendo impediscono una
loro reale emancipazione. Conducono una battaglia separatista, che si
preoccupa del riconoscimento della prostituzione come categoria
equiparata a tutte le altre, invece di aggredire lo sfruttamento che
ne è alla base.
Si
può considerare la vendita del sesso di una donna, la mercificazione
di ciò che ha di più intimo, la cessione del proprio corpo (e
della propria “anima” se si pensa alle possibili conseguenze
psicologiche) in cambio di sicurezze economiche, un atto libero? E
infatti, a dimostrazione della natura liberista del regolamentarismo,
non si pensa minimamente che, invece di elevare di rango sociale la
prostituta, bisognerebbe estirpare le cause socio-economiche che la
rendono tale.
Non
a caso gran parte dei paesi di tradizione socialista sono
proibizionisti. Certo, il proibizionismo non ha senso in una società
fortemente capitalista e liberale, perché criminalizza la prostituta
che è una vittima. In un paese come gli Stati Uniti, ad esempio,
esso è dettato da un moralismo puritano piuttosto che dal
proponimento di rimuovere le cause stesse del fenomeno. Ma il
regolamentarismo rappresenta un anti-moralismo simmetrico, che si
preoccupa più di modificare i giudizi sociali, piuttosto che
incidere nelle dinamiche profonde; di cambiare la sovrastruttura
lasciando inalterata la struttura. Non si può pensare di affrontare
la questione della prostituzione in maniera autonoma, senza
comprendere che essa passa per il modello sociale e politico che una
società ha deciso di adottare.
Tuttavia,
è innegabile l’esigenza di una legislazione a breve termine,
purché non escluda fini più universali. Per questo, in Italia e in
altri paesi, è stato elaborato il modello abolizionista, che è una
sorta di compromesso tra il liberismo etico dei regolamentaristi e
l’“organicismo” dei proibizionisti. I primi, però, fanno
notare che esso ha fallito. Nato tra grandi speranze, l’abolizionismo
doveva giungere ad eliminare la prostituzione, ma si è rivelato ben
lontano dal riuscirci, esponendo per di più le prostitute a
condizioni di insicurezza.
Senz’altro,
questa obiezione, è corretta. Senz’altro l’abolizionismo ha
fallito. Ma non per le ragioni che adducono gli anti-abolizionisti.
Ha fallito, invece, perché anch’esso assimila implicitamente e
inconsapevolmente la logica del liberismo etico. Quest’ultimo porta
a proteggere i diritti dell’“agente razionale” che stipula un
contratto, ponendo sullo stesso piano il fruitore della prestazione e
chi la vende, similmente a quanto si fa in campo economico
sostituendo i diritti del consumatore a quelli del lavoratore.
In
questo modo, pur animato dai migliori intenti, l’abolizionismo
finisce per essere peggiore del male che vorrebbe curare. Permette
che si svolga il gioco della contrattazione (e dello sfruttamento
nascosto) tra cliente e prostituta senza neanche le garanzie basiche
del regolamentarismo.
Solo
il modello svedese, o neo-proibizionista, permette di superare i
limiti di entrambi gli antagonisti. Esso fa giustizia
dell’individualismo e del liberismo etico intervenendo proprio sul
tabù dei liberisti, la contrattazione privata. Non rinuncia a punire
lo sfruttamento ma rinuncia alla parificazione tra cliente e
offerente dell’abolizionismo e alla criminalizzazione della
prostituta del protezionismo classico. Proibendo il “consumo”,
senza perseguitare la prostituta, la Svezia è riuscita a ottenere
una drastica riduzione di questa piaga. Considera il fenomeno
generale, ma propone un intervento perfettamente adeguato alla
società scandinava.
Quello
che ci insegnano i risultati degli eccessi moralistici del
puritanesimo, della mercificazione del nichilismo morale dei
liberisti etici, del fallimento dell’esperimento abolizionista,
quello che ci insegna, infine, il nuovo e promettente modello
svedese, è che non si può considerare una questione senza avere
chiara l’idea di società che si intende realizzare e una vera
filosofia politica. Il problema della prostituzione, come qualunque
altro, non può essere scisso dall’organizzazione della società e
dalla sua comprensione strutturale. L’attivismo naive
di molte femministe,
che pretende di combattere gli stereotipi anglicizzando il
vocabolario (non si può dire “prostituzione” ma solo “sex
working”, come se le catene ornate di fiori non fossero pur sempre
catene) rende un grande servigio al liberismo (etico ed economico).
Rimane fermo all’empirico individuale, senza afferrare la
globalità.
Solo
quando queste (come chiunque) re-impareranno (come un tempo sapevano
ben fare) a inquadrare le loro perorazioni nella critica alla società
capitalistica e la lotta particolare nel contesto della lotta
universale delle classi oppresse, riusciranno finalmente a proporre
un cammino di reale emancipazione.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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