Recentemente
anche in Italia è entrato in vigore il cosiddetto bail
in,
il quale recepisce le direttive europee che vietano i salvataggi
bancari da parte degli stati. In caso di fallimento non ci sarà un
intervento “esterno” della finanza pubblica, ma soltanto uno
“interno” che sarà scaricato sugli obbligazionisti e sui
titolari di conto corrente superiore ai 100000 euro.
La
nuova legge non muta la consuetudine di scaricare verso il basso le
perdite dell’aristocrazia finanziaria, ma ne rimodula semplicemente
i termini. Va a consolidare una tendenza verso l’ulteriore
liberalizzazione dei mercati finanziari, la guerra dell’oligarchia
finanziaria contro tutte le altre classi e la progressiva dismissione
degli apparati statali.
Dimostra
ciò che avviene da più di due decenni in Italia e in Europa.
Innanzitutto testimonia della dispersione verso istituzioni
autocratiche sovranazionali dei poteri dei parlamenti e dei governi
che vengono fagocitati da queste stesse istituzioni, ridotti a mere
“filiali” della finanza internazionale e degli organi
autocratici, con la sola facoltà di ratificare decisioni già prese
sulle quali la politica nazionale e la partecipazione popolare non
hanno voce in capitolo.
Dimostra,
inoltre, la continuità di una lotta di classe verso il basso del
capitale transnazionale contro tutte le altre classi, mascherata da
redistribuzione e giustizia sociale, attraverso il tentativo di porre
in diretto antagonismo i ceti poveri e le classi medie, gli ultimi
contro i penultimi. La propaganda mediatica ha fatto credere che la
norma sul “bail in” riguardi esclusivamente i più facoltosi. In
realtà, considerando il livello elevato di risparmio privato
esistente in Italia, a essere espropriati (dalla finanza, non dallo
Stato, è bene ricordarlo) saranno proprio quei ceti medi che hanno
potuto attenuare le conseguenze della crisi e del neoliberismo grazie
ai loro risparmi privati accumulati in anni migliori, e che alla
prossima ondata speculativa si vedranno sottratti anche quest’ultima
e insufficiente protezione, già erosa dall’invasione del mercato e
dalla contrazione dell’intervento statale. La “lotta di classe”
tra ultimi e penultimi a vantaggio dei primi è stata giù usata in
nome della famosa “lotta all’evasione” a suon di scontrini
fiscali, e trova ora una nuova applicazione.
Collegata
con questa finta redistribuzione, con cui l’oligarchia finanziaria
cerca di usare i settori che ha più impoverito contro le classi
medie, è la retorica antistatalista. “I fallimenti non devono
essere pagati dal contribuente” è la tipica frase con la quale si
cerca di impedire allo Stato qualsiasi intervento in economia. In
essa si evince la gretta concezione della politica propria del
liberismo, in cui l’istituzione pubblica è ridotta a una semplice
somma di contributi privati.
È
un fatto indubbio, tuttavia, che i salvataggi delle banche,
consistenti in migliaia di miliardi di euro in Europa, avvenuti
alcuni anni fa, dimostrino la falsità dei profeti del TINA
(There Is No Alternative) che hanno sostenuto la necessità dei tagli
alla spesa pubblica per poi accorrere allegramente in aiuto delle più
grandi banche d’affari del mondo; ma nello stesso tempo questa
concezione della funzione dello Stato come affare individuale del
contribuente e della finanza pubblica considerata come un’emanazione
dei risparmi privati, costringe i discorsi nella prigione
neoliberale.
Una
parola che è sparita dal gergo politico-economico, infatti, è
“nazionalizzazione”. Lo Stato, nel migliore dei casi, può
intervenire solo come commissario, prima di ritirarsi in silenzio una
volta risolti i problemi dei capitalisti, come il Dio di Cartesio
secondo Pascal che si limita a dare “un buffetto al mondo” per
poi sparire. Completamente assente è l’idea di una gestione
pubblica e politica
(avente cioè come finalità il benessere sociale e non il profitto)
oscurata del tutto da dibattito pubblico, il quale pone invece la
secca alternativa tra salvataggio “interno” o “esterno” e in
entrambi i casi relega lo Stato alla funzione di assistenza delle
grandi corporazioni.
Ma
il problema non è, come si sente spesso ripetere, quello di salvare
il capitalismo, semmai quello di salvare la società dal capitalismo.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
Immagine tratta da: http://www.rischiocalcolato.it/2016/01/127991.html
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