29 apr 2016

Il “bail in” e la capitolazione dello Stato*

Recentemente anche in Italia è entrato in vigore il cosiddetto bail in, il quale recepisce le direttive europee che vietano i salvataggi bancari da parte degli stati. In caso di fallimento non ci sarà un intervento “esterno” della finanza pubblica, ma soltanto uno “interno” che sarà scaricato sugli obbligazionisti e sui titolari di conto corrente superiore ai 100000 euro.
La nuova legge non muta la consuetudine di scaricare verso il basso le perdite dell’aristocrazia finanziaria, ma ne rimodula semplicemente i termini. Va a consolidare una tendenza verso l’ulteriore liberalizzazione dei mercati finanziari, la guerra dell’oligarchia finanziaria contro tutte le altre classi e la progressiva dismissione degli apparati statali.
Dimostra ciò che avviene da più di due decenni in Italia e in Europa. Innanzitutto testimonia della dispersione verso istituzioni autocratiche sovranazionali dei poteri dei parlamenti e dei governi che vengono fagocitati da queste stesse istituzioni, ridotti a mere “filiali” della finanza internazionale e degli organi autocratici, con la sola facoltà di ratificare decisioni già prese sulle quali la politica nazionale e la partecipazione popolare non hanno voce in capitolo.
Dimostra, inoltre, la continuità di una lotta di classe verso il basso del capitale transnazionale contro tutte le altre classi, mascherata da redistribuzione e giustizia sociale, attraverso il tentativo di porre in diretto antagonismo i ceti poveri e le classi medie, gli ultimi contro i penultimi. La propaganda mediatica ha fatto credere che la norma sul “bail in” riguardi esclusivamente i più facoltosi. In realtà, considerando il livello elevato di risparmio privato esistente in Italia, a essere espropriati (dalla finanza, non dallo Stato, è bene ricordarlo) saranno proprio quei ceti medi che hanno potuto attenuare le conseguenze della crisi e del neoliberismo grazie ai loro risparmi privati accumulati in anni migliori, e che alla prossima ondata speculativa si vedranno sottratti anche quest’ultima e insufficiente protezione, già erosa dall’invasione del mercato e dalla contrazione dell’intervento statale. La “lotta di classe” tra ultimi e penultimi a vantaggio dei primi è stata giù usata in nome della famosa “lotta all’evasione” a suon di scontrini fiscali, e trova ora una nuova applicazione.
Collegata con questa finta redistribuzione, con cui l’oligarchia finanziaria cerca di usare i settori che ha più impoverito contro le classi medie, è la retorica antistatalista. “I fallimenti non devono essere pagati dal contribuente” è la tipica frase con la quale si cerca di impedire allo Stato qualsiasi intervento in economia. In essa si evince la gretta concezione della politica propria del liberismo, in cui l’istituzione pubblica è ridotta a una semplice somma di contributi privati.
È un fatto indubbio, tuttavia, che i salvataggi delle banche, consistenti in migliaia di miliardi di euro in Europa, avvenuti alcuni anni fa, dimostrino la falsità dei profeti del TINA (There Is No Alternative) che hanno sostenuto la necessità dei tagli alla spesa pubblica per poi accorrere allegramente in aiuto delle più grandi banche d’affari del mondo; ma nello stesso tempo questa concezione della funzione dello Stato come affare individuale del contribuente e della finanza pubblica considerata come un’emanazione dei risparmi privati, costringe i discorsi nella prigione neoliberale.
Una parola che è sparita dal gergo politico-economico, infatti, è “nazionalizzazione”. Lo Stato, nel migliore dei casi, può intervenire solo come commissario, prima di ritirarsi in silenzio una volta risolti i problemi dei capitalisti, come il Dio di Cartesio secondo Pascal che si limita a dare “un buffetto al mondo” per poi sparire. Completamente assente è l’idea di una gestione pubblica e politica (avente cioè come finalità il benessere sociale e non il profitto) oscurata del tutto da dibattito pubblico, il quale pone invece la secca alternativa tra salvataggio “interno” o “esterno” e in entrambi i casi relega lo Stato alla funzione di assistenza delle grandi corporazioni.
Ma il problema non è, come si sente spesso ripetere, quello di salvare il capitalismo, semmai quello di salvare la società dal capitalismo.




*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente



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