Gli eventi siriani
hanno svelato per l'ennesima volta l'inadeguatezza della politica del
nostro paese sul piano dell'interpretazione degli accadimenti
internazionali. Un'interpretazione dipendente dalla versione dei
media e degli interessi atlantici.
Inizialmente il
terrorismo, che è stata l'ossessione dell'Occidente dall'attentato
del 2001 a New York, è stato di molto sottovalutato. Tutta
l'attenzione è stata concentrata sul governo siriano, un governo
fino ad allora perfino “amico” dell'Italia, elogiato
pubblicamente dall'allora Presidente della Repubblica Napolitano,
prima che i diktat d'oltreoceano imponessero un'inversione nelle
relazioni diplomatiche.
Da quel momento il
Presidente siriano Bashar al-Assad è diventato un nuovo satana
mediorientale (dopo che Saddam e Gheddafi erano stati eliminati)
descritto come un carnefice del suo stesso popolo, sulla base di
accuse che ben presto si sarebbero rivelate inconsistenti. Tutto il
quadro politico italiano, da destra a sinistra, si è levato compatto
a chiedere la testa di Assad, considerato il nemico principale da
abbattere. Tutto il quadro politico si è inoltre schierato con i
cosiddetti “ribelli”, ovvero quei gruppi che combattono fianco a
fianco con i fondamentalisti dell'Isis e di Al-Nusra. Nel frattempo
questi ultimi sono cresciuti di dimensioni e di forza (o, per meglio
dire, è stato loro permesso di crescere). È ormai sempre più
evidente come il problema della Siria sia il terrorismo salafita e
wahabita e non Assad e il suo esercito che anzi lo combattono. Questo
ha costretto ai salti mortali i paesi occidentali che dicono di
contrastare il terrorismo, ma nello stesso tempo fanno di tutto per
rimuoverne il principale ostacolo nella regione, cioè appunto il
governo siriano.
In
tutto ciò qual è stata la posizione della sinistra, quella
cosiddetta “radicale” che cioè dovrebbe farsi portatrice di una
interpretazione alternativa degli eventi e della storia? La stessa
della destra, la stessa degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, la
stessa di Israele. In altre parole la politica estera della sinistra
italiana, salvo rare e lodevoli eccezioni, è totalmente allineata ai
dettami di Washington. Ciò non vale solo per il caso siriano. Con la
Libia accadde lo stesso; si gridò contro il despota Gheddafi, che in
modo del tutto dispotico si era deciso dovesse essere spodestato.
“Dobbiamo
impedire che Gheddafi completi la sua macelleria civile” tuonava
Nichi Vendola nel 2011. Tutta questa campagna servì a giustificare
l'aggressione americana e francese contro la Libia, con le
conseguenze che tutti sappiamo, conseguenze prevedibili ma di cui le
anime belle della sinistra italiana non sembrano essersi preoccupate.
E cosa dire della campagna anti-russa, in cui i “diritti civili”
vengono usati come pretesto per attaccare il principale avversario
della Casa Bianca? Qual è stata la posizione della cosiddetta
sinistra radicale da SEL a Rifondazione, fino a un paio di anni fa,
su Putin considerato come un “dittatore omofobo” che opprime le
libertà civili?
Certo
ci si può aspettare che in questi anni di sudditanza del nostro
paese l'establishment
politico si accodi fedelmente ai suoi alleati-padroni. Ma dovrebbe
sorprendere che lo stesso accada a chi si presenta come
“rivoluzionario” o “radicale”.
Nella
sinistra italiana è mancata del tutto la comprensione della
situazione internazionale. A cosa si deve questa completa cecità? La
sua origine è probabilmente molto profonda. Affonda le radici in
questioni irrisolte. Quale doveva essere il rapporto con i paesi non
allineati? Quale il giudizio complessivo sul blocco sovietico e sul
cosiddetto “socialismo reale” che ha svolto nel secolo scorso il
ruolo di fondamentale oppositore dell'impero americano?
A
queste domande non si è riusciti a dare risposte coerenti. La
critica del socialismo sovietico – da parte di chi, occorre
ricordarlo, diceva di ispirarsi al socialismo – ha finito per
allinearsi alla propaganda atlantista e anticomunista, soprattutto
con il crollo del Muro di Berlino, anche se già da anni ormai il PCI
aveva archiviato l'esperienza sovietica (la Rivoluzione d'Ottobre
aveva esaurito la sua “spinta propulsiva” aveva detto Berlinguer
già nell'81) mostrando di preferire il blocco atlantico.
Certo,
il marxismo occidentale era riuscito a formulare analisi
interessanti, e si ricorderà in proposito la critica marcusiana, ma
è sempre mancata, nella maggior parte dei casi, la capacità
evidenziare gli errori e le contraddizioni del modello sovietico
senza per questo doverlo condannare in modo inappellabile e, come si
suol dire, buttar l'acqua sporca con tutto il bambino.
L'esperienza
sovietica, invece, pur essendo, è bene ripeterlo, emendabile sotto
molti aspetti, presenta lati interessanti e acquista valore
soprattutto oggi. Oltre alle conquiste nel campo dei diritti sociali
– non è questa la sede per discuterne – ha infatti mostrato
l'importanza dell'esistenza e della resistenza di nazioni non
allineate all'imperialismo e al colonialismo occidentali, non solo
sul piano dei rapporti di forza internazionali, ma anche su quello
delle lotte interne, politiche e sociali, a singoli stati
imperialisti e colonialisti. Dovrebbe essere chiaro, infatti, come il
crollo dell'URSS abbia segnato una battuta d'arresto per il marxismo
a livello mondiale, abbia contribuito alla sconfitta delle istanze
sindacali e del movimento dei lavoratori in paesi dove questi erano
molto avanzati (come l'Italia), alla trasformazione della sinistra
maggioritaria in una coalizione di partiti pro-capitalisti e
liberisti e alla costituzione di una “sinistra radicale” come
estrema propaggine dell'impero, ridotta al ruolo di mera e
ininfluente testimonianza.
Un
fattore che si accompagna a queste circostanze è stata l'estinzione
dell'antimperialismo della sinistra. Avendo ripudiato del tutto
l'unico blocco capace effettivamente di contrastare la potenza
statunitense, avendo rinunciato a un sostengo, sia pur critico e
dialettico, ad esso, avendo accettato e salutato con gioia il
disfacimento di quel blocco e interpretandolo erroneamente come
l'inizio di un processo di liberazione, avendo infine ripudiato, in
molti casi, anche quelle sacche di resistenza che ancora restavano
(Cuba per esempio), pareva del tutto prevedibile che la sinistra
finisse per ricadere nello stesso “modello di sviluppo” cui
diceva di opporsi. Un volta, infatti, che si ritenga preferibile, per
quanto si possa detestarlo, il sistema capitalistico occidentale a
qualsiasi altro sperimentato, si ricadrà, seppure involontariamente,
sotto i suoi vessilli. “La democrazia” diceva Churchill
intendendo ovviamente il sistema liberal-parlamentare dei paesi
capitalisti “è la peggior forma di governo, eccezion fatta per
tutte quelle forme che si sono sperimentate fino ad ora”. I
sostenitori di questa “democrazia” (magari “esportabile” a
suon di “bombe intelligenti”) non ci tengono tanto a farne
l'apologia, quanto a screditare qualsiasi altra alternativa
esistente. Nella guerra tra paesi imperialisti e antimperialisti
(socialisti, ma non solo) la sinistra maggioritaria ha finito per
schierarsi con i primi, e a nulla valgono tutte le ulteriori postille
e precisazioni.
La
categoria dell'antimperialismo fu quindi completamente abbandonata
dalle forze che si definivano “radicali”. A contribuire a ciò
intervenne un'altra componente della neonata “radicalità”
proprio per sostituire tale categoria: il pacifismo: non era certa un
fenomeno inedito, ma ora veniva assunto organicamente come modo di
pensare della sinistra in sostituzione dell'antimperialismo. Ciò
valse in Italia dagli anni '90 con Fausto Bertinotti alla segreteria
di Rifondazione, ma fu una costante di molti altri movimenti
“informali” come i no-global, ma anche il movimento contro la
guerra in Iraq.
L'antimperialismo
(assieme all'anticolonialismo) in fondo, era il vero discrimine sulle
questioni internazionali tra la sinistra europea e un progressismo
“liberal”. Con il suo rigetto e l'accettazione di un mondo
unipolare quale si era venuto a creare negli anni Novanta, l'area
“radicale” si trovava sprovvista di paradigmi adatti a rigettare
il nuovo espansionismo statunitense, dalla Serbia all'Iraq.
Fu
così che il pacifismo si affacciò sempre più come surrogato che
permetteva alla sinistra di differenziarsi. Le guerre degli Stati
Uniti e della NATO venivano criticate non tanto in quanto aggressione
militare contro popoli e nazioni come momento culminante
dell'aggressione economica, ma piuttosto come “violenza” atto da
disapprovare eticamente ed emotivamente. Naturalmente non si negavano
gli interessi in gioco, ma non si afferrava come la guerra fosse un
fattore intrinseco, necessario e non occasionale tanto al sistema
economico capitalistico quanto al contesto dei rapporti di forza che
vedevano in quel momento storico gli Stati Uniti senza un rivale
all'altezza. Di conseguenza, la sinistra scopertasi pacifista finiva
per bollare, assieme ai suoi avversari politici, tutti quegli atti di
resistenza come “terroristi” e “violenti”, mettendo sullo
stesso piano l'aggressore e il resistente. Si rigettava moralmente la
guerra, ma praticamente e storicamente la si sosteneva perché si
biasimava qualunque resistenza possibile ad essa. Era
un'opposizione, per così dire, “metafisica”, alla Guerra in
quanto tale, come archetipo e simbolo di brutalità, non alla guerra
specifica e alle reali ragioni che la determinano. Un'opposizione
velleitaria, fatta di bandiere arcobaleno e di fiori nei cannoni che
spianava la strada agli invasori; in che modo potevano resistere il
popolo serbo, quello iracheno o quello palestinese? Probabilmente
questi “radicali” si illudevano puerilmente di poter fermare il
conflitto con una manifestazione, oppure erano rassegnati e
soddisfatti del loro ruolo di pura testimonianza, quale era ormai
proprio della sinistra.
Il
pacifismo contribuì a fare della guerra una questione meramente
etica, destoricizzandola, sganciandola dalla realtà per renderla un
evento mediatico sul cui palcoscenico si scatenava il chiacchiericcio
compulsivo dei talk-show.
Il disorientamento attuale della sinistra ha origine da ciò. Le
“primavere arabe” sono state acclamate come rivolte pacifiche
contro regimi tirannci, senza rendersi conto a quali interessi
rispondessero. Il colpo di stato di Majdan è apparso come ribellione
dell'Ucraina all'ingerenza russa, il caos generato dalla caduta di
Gheddafi come una “liberazione”, i terroristi e i filo-terroristi
siriani come “ribelli” che cercano di rovesciare un governo
giudicato dittatoriale perché non rispondente ai canoni occidentali.
La posizione della sinistra finisce per essere scritta così
direttamente alla Casa Bianca o al Pentagono, senza che essa ne abbia
consapevolezza.
Smarrita
la cognizione del quadro geo-politico e del contesto economico, non
restano che astratti e inutili “diritti umani” istanze che si
possono rivendicare sul piano puramente giuridico e morale, ma che
rimangono escluse dal divenire della storia.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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