La fine dell'espansione dell'economia
italiana, che si rende palese negli anni Novanta, ma di cui si
riscontrano le prime avvisaglie negli Ottanta, è stata usata per
giustificare quegli interventi di tipo liberista che oggi vediamo
all'opera in tutta la loro tragica portata.
Inizialmente l'attenzione è stata
posta sul lavoro e sui salari. Questi, si è detto, sono causa di
inflazione, quindi bisogna porre un freno alla loro crescita. Il
risultato è stato di invertire una tendenza generale di crescita dei
redditi da lavoro e dunque causare una perdita del potere d'acquisto
dei lavoratori con un conseguente impoverimento delle classi più
deboli.
Ancora oggi assistiamo al tentativo di
scaricare sul lavoro le responsabilità di decenni di politiche
economiche fallimentari, contribuendo così ad aggravare
ulteriormente la situazione. Si continua infatti a sostenere che la
disoccupazione sia causata da una carenza di flessibilità del
diritto del lavoro, che peserebbe sulle assunzioni. La realtà ha
mostrato esattamente il contrario. Nonostante tutti i massicci
interventi legislativi che hanno ridimensionato o del tutto
cancellato le tutele giuridiche del lavoro, la disoccupazione ha
continuato a crescere sul lungo periodo, registrando livelli inediti
per il nostro paese. Nonostante questo si è continuato a ripetere il
mantra della flessibilità, come necessaria e improrogabile e
praticamente tutti i governi dagli anni Novanta ad oggi sono andati
in questa direzione. Ha prevalso l'idea che la legislazione sia di
intralcio al mercato, e il convincimento, più o meno esplicito, che
alla fine il mercato tenda a raggiungere un equilibrio benefico per
tutti.
Di conseguenza, secondo questo
ragionamento, bisognava eliminare tutte quelle protezioni giudicate
come un freno alla crescita. In realtà, sono state proprio quelle
norme “rigide” e “ingessate” – come spesso le ha definite
una certa pubblicistica – a permettere ai redditi di crescere e
alle famiglie italiane di accumulare un'alta quota di risparmio
privato. Nel corso del rallentamento dell'economia, poi, la
cancellazione delle tutele ha contribuito alla crisi occupazionale,
poiché ha favorito il disinvestimento delle aziende.
Accanto alla retorica della
flessibilità, si è fatto largo il retaggio delle liberalizzazioni e
delle “aperture” al mercato. Bisognava permettere a investitori
privati di accedere a settori che finora gli erano stati preclusi,
perché esclusivo monopolio statale, e quindi bisognava privatizzare.
Dopo la massiccia opera di vendita di
grandi aziende in precedenza controllate dallo Stato, si può
constatare come che né la qualità dell'offerta, né il costo per
l'utenza siano migliorati, non fosse altro per un fatto di elementare
contabilità, dato che il privato ha la necessità di realizzare un
profitto, necessità che non ha la gestione pubblica (sebbene a
questo spesso sia stata costretta dai trattati europei che
subordinano il benessere sociale al pareggio di bilancio).
Secondo i fanatici del mercato l'Italia
doveva disfarsi dei monopoli pubblici – magari dopo averli
scorporati e quotati in borsa in modo da renderli “vendibili” –
per lasciarli al libero gioco della concorrenza che li avrebbe,
secondo la dogmatica liberista, resi migliori e più efficienti.
I media hanno contribuito a diffondere
presso il pubblico un certo risentimento nei confronti della gestione
statale di beni e servizi essenziali, tacciandola di gravare sui
contribuenti e di costituire dei “carrozzoni” inefficienti,
nonostante proprio grazie a questi “carrozzoni” l'Italia ha
potuto diventare una potenza economica di livello mondiale.
Sulla gestione pubblica, quale essa
fosse, gravava inoltre il sospetto di costituire un bacino di
clientele e di spartizione del potere politico. Questo sospetto finì
per coinvolgere non solo le aziende dello Stato, ma anche lo Stato
stesso, nelle sue massime istituzioni rappresentative.
Per quanto un certo grado corruzione
delle cariche pubbliche fosse innegabile (cominciava la stagione di
“Mani Pulite”) esso è stato gonfiato dalla stampa e da
politicanti rampanti che hanno opportunisticamente sfruttato quella
campagna. Si sono così poste le basi per la riduzione dei poteri del
Governo e del Parlamento, trasferiti a istituzioni sovranazionali
autocratiche. Poiché la “casta” burocratica era corrotta, doveva
essere esautorata dalla gestione della cosa pubblica, per affidare
quest'ultima a un'altra casta, ma privata e incontrollabile. Furono
così posti quegli assurdi vincoli di bilancio che impediscono
qualsiasi intervento pubblico nell'economia, che solo potrebbe
invertire il ciclo economico. Dopo che persino la moneta è stata
sottratta al controllo dello Stato, il Fondo Monetario e l'Unione
Europea si prendono la briga di decidere cosa è bene e cosa è
giusto per la nostra economia, scavalcando le cariche nazionali
eleggibili e la Costituzione italiana.
Per giustificare l'espropriazione dei
poteri dello Stato, attraverso la demolizione dei codici sul lavoro,
le privatizzazioni e le cessioni di sovranità verso l'esterno, è
stata utile quella teologia liberista la quale può essere
sintetizzata nel motto reaganiano: “lo Stato non è la soluzione ma
il problema”. Tutti i mali devono essere attribuiti allo Stato il
quale perciò deve essere limitato il più possibile nelle sue
funzioni e prerogative. Al contrario il privato sarebbe per sua
natura “virtuoso” e la somma di interessi egoistici contrastanti
lasciati a se stessi, per qualche strana ragione, garantirebbe
l'interesse collettivo.
Accecati dalla loro fiducia assoluta
nel mercato, i liberisti non vedono come, invece, proprio la sua
carenza abbia portato il nostro paese verso un declino che sembra
inarrestabile (al netto di tutte le false “riprese” annunciate
periodicamente e sempre smentite dai fatti) e che continuerà a
essere tale finché non sarà arrestato il paradigma economico che lo
ha prodotto.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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