Quando l'Unità esultava per il crollo del socialismo. |
Ventisei anni fa crollava il Muro di
Berlino, lo storico spartiacque che separava l'Ovest dall'Est, il
capitalismo dal socialismo. Il socialismo soccombeva e il capitalismo
si affermava pressoché ovunque incontrastato. Quest'evento fu
salutato dai paesi occidentali come simbolo dell'avvenuta libertà e
dell'apertura di una nuova era mondiale di pace e prosperità. Anche
i popoli dell'ex Patto di Varsavia furono colti da un'euforia
improvvisa, convinti che si aprissero a loro chissà quali squisite
meraviglie fino ad allora negate da una grigia burocrazia.
Il Muro buttato giù veniva inoltre
considerato una promessa di concordia universale tra tutte le genti:
non si doveva ricongiungere soltanto la Germania, ma il mondo intero,
già lontano dalle tensioni della Guerra Fredda. In più, non
essendoci ormai alcun ostacolo, le persone sarebbero state finalmente
libere di spostarsi ovunque e il mercato avrebbe reso qualsiasi merce
accessibile in ogni parte del pianeta, unendo individui fisicamente
distanti migliaia di chilometri e rendendoli “cittadini del mondo”.
La storia ha confutato una per una
tutte queste ottimistiche supposizioni. I paesi dell'est europeo sono
stati economicamente devastati dall'invasione del mercato. Tutte le
tutele sociali garantite dal tanto denigrato socialismo venivano
liquidate e la libertà promessa in realtà era soltanto la libertà
di sfruttare, di speculare e di arricchirsi per una nuova oligarchia
locale e per il capitale straniero.
Dietro la favola della riunificazione
tedesca si nascondeva il dramma della colonizzazione interna degli
apparati e delle aziende pubbliche dell'ex DDR che venivano svenduti,
permettendo ai capitalisti della Germania Occidentale di realizzare
immensi profitti. L'Unione Sovietica subiva un colpo di stato. Veniva
lacerata e scissa in tante repubbliche teoricamente indipendenti (ma
che in realtà erano protettorati statunitensi). La Russia, da
potenza economica e militare, sprofondava nella depressione
economica.
Quella pace che veniva promessa si
rivelò essere invece un'egemonia militare unipolare. Iraq, 1991;
Jugoslavia, 1992; Kosovo, 1996; Afghanistan, 2001; Iraq, 2003; Siria,
oggi. Basterebbe questa scarna cronologia a dimostrare
l'inconsistenza delle illusioni circa una pax mondiale. Gli Stati
Uniti e i paesi della NATO non trovando più alcun avversario in
grado di competere potevano stabilire la loro supremazia assoluta
anche sul piano militare, a suon di bombe e carri armati ove fosse
stato necessario.
L'internazionalizzazione dell'economia,
l'espansione e la deregolamentazione dei mercati e il crollo delle
barriere doganali, quel processo insito nel capitalismo e che oggi
viene chiamato “globalizzazione”, non trovando più l'ostacolo
delle frontiere e del Muro, poteva affermarsi con una forza e una
portata fino ad allora inedite. Ma ciò rappresentò tutt'altro che
il regno della libertà e del cosmopolitismo. Quello che accadde
davvero fu la comparsa di un'altra forma di sfruttamento, che metteva
in concorrenza i lavoratori europei e americani con quelli asiatici e
africani, permettendo una riduzione dei salari senza eguali dal
Dopoguerra in Europa. Il capitale finanziario poteva invadere ormai
qualsiasi paese senza che nessun governo osasse contrastarlo.
La libertà promessa all'epoca è in
verità la libertà del capitale di espandersi senza limiti, oltre
qualsiasi muro.
Ma quell'evento destinato a segnare la
fine di un'epoca e, secondo Hobsbawm di un secolo, non ha avuto
effetti solo sui paesi al di là dei confini del cosiddetto “Mondo
libero” ma anche per quelli al di qua. I diritti sociali che
parevano ormai acquisiti per sempre in Italia, Germania, Francia o
Gran Bretagna, venivano cancellati, spesso proprio da parte di quelle
stesse forze e componenti politiche che se ne erano fatti promotrici.
Il Muro in effetti costituiva un monito
per i paesi occidentali, un avvertimento; esso era il limite, non
solo fisico, del capitalismo. L'eventualità di un'insurrezione
popolare o di un governo non filo-statunitense era sempre la spada di
Damocle che pendeva sui paesi atlantici. L'Unione Sovietica avrebbe
potuto appoggiare nuove rivolte ovunque queste fossero avvenute. Cuba
e Vietnam, stavano a dimostrare che l'impero poteva scricchiolare e
che nuove enclavi socialiste potevano sorgere all'interno dell'impero
stesso. L'esistenza del muro fu il fattore internazionale che
costrinse le classi capitaliste nazionali in Europa a cercare un
compromesso con il movimento operaio e i partiti della sinistra.
In Italia questo compromesso assunse i
contorni dello Statuto dei Lavoratori – una delle legislazioni più
avanzate nel campo del diritto del lavoro – della crescita
salariale, della bassa disoccupazione, del servizio sanitario
migliore al mondo, checché se ne dica.
Già la mera esistenza del blocco
sovietico, costituiva un fattore di slancio per i partiti socialisti
e comunisti e per le rivendicazioni sindacali nei paesi dell'Europa
occidentale; la crisi e poi il crollo dell'URSS si sarebbero
trascinati con sé anche quelli.
La svolta della Bolognina del 1991
avrebbe ufficialmente consegnato il PCI, e di fatto la sinistra
italiana, al capitalismo. In effetti la fase discendente della
sinistra italiana era cominciata molto prima. Nel '76 il PCI divenne
atlantista, nel '77 spostò l'attenzione dalla questione sociale a
quella morale, iniziò cioè ad abbandonare gradualmente il marxismo
e il campo socialista in favore di un moralismo puramente funzionale
a una lotta interna ai ceti dirigenti italiani. Il Partito Socialista
invece si era avviato per primo su questa strada e per primo aveva
segnato la rottura con Marx.
Il “suicidio” del PCI fu dunque la
logica conseguenza di un processo storico già preparato nel tempo, e
che tuttavia forse non sarebbe potuto avvenire, o comunque non in
modo così rapido e clamoroso, se non ci fosse stata nello stesso
anno la fine dell'Unione Sovietica e del cosiddetto “socialismo
reale”. Come si spiegherebbe altrimenti la celerissima
trasformazione del principale partito comunista occidentale in un
comitato di affari della finanza internazionale e in una fucina di
leggi neoliberiste che porta sarcasticamente il nome di Partito
Democratico?
I dirigenti dell'ultimo PCI si
limitarono a prendere atto della scomparsa del gigante sovietico e
della caduta del Muro, senza pensare di dover contrastare il nuovo
corso di eventi, ma anzi facendo opportunisticamente buon viso a
cattivo gioco e aggregandosi al coro di coloro che magnificavano
quella catastrofe come la supposta vittoria della libertà sulla
tirannia. Mancò, tra le file della dirigenza della sinistra
italiana, una consapevolezza critica degli eventi in corso, come
anche degli errori commessi in passato responsabili della mancata
vittoria del PCI, errori che non avevano nulla a che fare con gli
ideali socialisti che si affrettavano a liquidare sbrigativamente, ma
che invece dipendevano da scelte e interpretazioni erronee dei suoi
dirigenti.
Scomparso qualsiasi riferimento storico
concreto per il socialismo gli ex comunisti fecero presto a
convertirsi in avvoltoi del capitale, seguiti, senza entusiasmo ma
pur sempre seguiti, da masse attonite rese ciniche e disincantate,
animate soltanto dalla ferocia moralistica con la quale
perseguitavano gli ultimi residui della Prima Repubblica.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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