È stupefacente il modo in cui la
cultura dominante si sia appropriata dell'immaginario progressista
per svuotarlo di senso, lasciandone intatti certi lemmi, usandolo in
funzione conservatrice o restauratrice.
La parola che più di tutte ha subito
un travisamento formidabile è senz'altro “rivoluzione”. Essa
esprimeva le istanze degli ideali socialisti e indicava una radicale
trasformazione delle istituzioni sociali e dei rapporti economici;
oggi invece la sua carica eversiva ha finito per essere neutralizzata
nella confusione linguistica imperante.
Già nei primi decenni del Novecento si
parlava di “Rivoluzione conservatrice” per indicare quelle
tendenze di rifiuto della società borghese in favori di ideali
“aristocratici” e reazionari. Nel corso degli anni Ottanta del
secolo, “rivoluzione conservatrice” è stata chiamata l'ascesa di
Ronald Reagan negli Stati Uniti, assieme all'affermazione del suo
programma politico fortemente liberista. Margaret Thatcher, che portò
invece questa “rivoluzione” in Gran Bretagna, è stata spesso
definita una “rivoluzionaria”, seppure anch'essa “conservatrice”.
La forma ossimorica testimonia del disfacimento del lessico politico,
nel quale una stessa locuzione, e a volte persino uno stesso
enunciato, può avere significati del tutto opposti.
Nulla di più distante, a volerli
analizzare correttamente, tra la semantica di “rivoluzione” e
quella di “conservazione”, due parole che sottendono universi
linguistici, storici e filosofici opposti e in conflitto permanente.
Così come sembra incompatibile il modello sociale reaganiano,
neoliberale, antisocialista e ultracapitalista con qualsiasi istanza
“rivoluzionaria” per come poteva essere caratterizzata dalla
tradizione tanto semantica quanto politica.
Il richiamo sovversivo implicito nella
parola “rivoluzione” sembra oggi del tutto disinnescato. Anzi,
questo termine ha definito processi e fenomeni funzionali al
meccanismo sociale in vigore. Ne ha fatto ampio uso, ad esempio, la
pubblicità. Ogni nuovo prodotto viene elogiato dagli spot come
fautore di una “rivoluzione”. Qui l'uso di tale espressione ha un
valore più che iperbolico, come richiesto spesso dalla promozione
commerciale. Sta a testimoniare una mutazione innescata nella
coscienza del destinatario, che “demitizza” la rivoluzione,
privandola di ogni eco emancipativo e redentivo, facendone
ingranaggio di un meccanismo adattativo, seppur dinamico. La
rivoluzione, quindi, non è più un rivolgimento sociale,
l'inversione del basso e dell'alto, la conquista del potere da parte
delle classi oppresse e la rottura definitiva con l'ordine dato, ma
la riconferma di quello stesso ordine. Quest'ultimo si presenta come
“rivoluzionario” perché a differenza del passato tollera e
persino promuove le mutazioni sociali. Ma queste mutazioni rimangono
un fenomeno “di costume”, non intaccano minimamente la struttura
egemonica ma servono a riconfermarla.
Molte istanze sono state sottratte ai
movimenti rivoluzionari in senso proprio – quelli socialisti e
progressisti – si pensi al femminismo, o ai diritti degli
omosessuali, che possono oggi essere affermati in una cornice sociale
immutata, e funzionalmente alla strategia dei gruppi egemoni.
Queste istanze vengono isolate dalla
radice storica che le ha ispirate, per essere integrate nel modello
sociale contro il quale inizialmente erano in conflitto. La protesta,
paradossalmente, non si scontra più col potere, ma finisce per
allearvisi; il conflitto viene artificialmente ricreato, invece,
rispetto a configurazioni antiquate e superate del potere stesso,
come ad esempio quello meramente poliziesco-repressivo, autoritario
dal punto di vista della burocrazia statale.
Per comprendere come sia stato
possibile un simile mutamento bisogna considerare un'altra parola
abusata, “cambiamento”. Non esiste politico, partito o movimento
che non cerchi di usarla a proprio vantaggio. Tuttavia il suo
successo è evidente soprattutto a sinistra, a cominciare dagli anni
Novanta, dopo la caduta dell'URSS e l'avvento della “post-ideologia”.
La campagna presidenziale di Obama
aveva come slogan “Change”, “Nessuno può fermare il
cambiamento” diceva Renzi a proposito del suo governo, e “Sinistra
è cambiamento” è una corrente del PD di recente formazione.
Si potrebbero portare molti altri
esempi, ma in ognuno di essi è palese il culto del “nuovo”, del
mutamento per il mutamento. In questi discorsi il cambiamento viene
presentato come desiderabile in se stesso, a prescindere dai
contenuti di cui si fa portatore che sembrano non interessare. La
dinamicità è meglio della stasi, qualunque cosa essa comporti.
C'è molto di retorico e di copertura
ideologica in ciò, ovviamente. Il “cambiamento” che viene
proposto come necessario rinnovamento d'aria, liquidazione del
vecchio e del superato, in realtà è orientato in un'unica
direzione, quella della restaurazione. Il regresso è la postilla
invisibile e impronunciabile dell'odierno “progresso”. Il
feticismo del “cambiamento”, e l'enantiosemia di “rivoluzione”,
hanno sicuramente giovato del ripiegamento degli ideali socialisti
nel corso della fine del secolo scorso. Essendosi attestati, questi,
su una linea puramente difensiva, di fronte alla straripante ondata
restauratrice, hanno offerto il fianco a quest'ultima, che ha potuto
presentarsi come “innovatrice”, di fronte all'immobilità del
proprio avversario.
Ma non c'è solo questo. L'adorazione
feticistica del “cambiamento” imprecisato è il logico sviluppo,
necessariamente deforme e grottesco, della “fine delle ideologie”
ovvero della istericamente urlata (fin troppo istericamente per non
destare sospetti) morte di Marx e del comunismo.
Rinunciando a una strutturazione reale,
ad articolarsi nel concreto sviluppo della storia, a definire la sua
lotta “di classe”, quindi della classe oppressa contro quella
dominante, l'ideale, rimasto per troppo tempo nella sua astrattezza
ha finito per smarrire ogni significato. L'archetipo della
sovversione e della rivoluzione ha subito un processo di privazione
che ne ha lasciato un guscio vuoto. Ciò che è sopravvissuto è del
tutto inservibile se non per fini apologetici. Così della rivolta
degli esclusi non è rimasto che un mutamento meramente fisico, un
“rimescolamento”, un'inversione dell'ordine dei fattori che non
cambia il prodotto complessivo.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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