La dissoluzione dei legami sociali è
un fenomeno inedito che interessa la nostra epoca. Si può dire che
tutte le civiltà del passato abbiano sviluppato un forte vincolo di
tipo comunitario tra gli individui, formale o informale che fosse.
Il nuovo quadro sociale venutosi a
creare dagli ultimi decenni del secolo scorso, delinea per la prima
volta un contesto in cui quei legami sovra-individuali, che cioè non
si fermano alla sfera delle relazioni del singolo individuo, vanno
sempre più indebolendosi.
Questo processo è stato reso possibile
dall'introduzione massiccia della tecnologia nella fase produttiva.
In passato esisteva una base materiale a garantire i vincoli della
comunità. Ovvero il lavoro poteva essere organizzato solo entro una
cornice di tipo comunitario. In particolare il lavoro agricolo, che
era il fondamento dell'economia preindustriale, era per sua natura
ancorato all'uso di beni comuni, i terreni per il pascolo, i corsi
d'acqua, ecc. Anche i centri urbani richiedevano inoltre una solida
organizzazione comunitaria, per difendere la città dalle incursioni
militari ma anche per regolamentare il lavoro artigianale e
commerciale. Parole come “libero mercato” o “laissez-faire”
non esistevano in un'epoca in cui ogni transazione commerciale era
soggetta a norme cittadine e consuetudini corporative.
L'industrializzazione e la circolazione
delle merci disintegrano i tradizionali rapporti comunitari delle
campagne. Nell'industria l'individuo è disancorato dal suo
retroterra contadino del quale condivideva il lavoro e i valori, per
diventare un “ingranaggio” della produzione; ma nel contempo se
ne costituiscono di nuovi. Le nazioni, le classi industriali
(borghese e operaia), i sindacati e i partiti politici (che diventano
sempre più “di massa”), lo Stato. Quest'ultimo non è una novità
assoluta, ma per la prima volta viene ad esso assegnata una funzione
aggregante. Lo Stato è il garante della Nazione o della classe
(nelle rivoluzioni socialiste del Novecento) in modo inquietante
anche della “razza” in alcuni casi. Lo Stato si dota di
un'ideologia, di una certa concezione della società, e a questa
corrisponde un più o meno coerente suo intervento nella società
stessa.
Lo Stato diventa, per così dire, una
sorta di sovrano collettivo, non più proprietà fondiaria di un
monarca o di una famiglia aristocratica, delle terre e degli uomini e
delle bestie che le occupano, ma strumento dell'interesse di certi
gruppi sociali. Lo Stato-Nazione, per di più, aspira a rappresentare
tutto il popolo che governa. Nel corso del Novecento diversi gruppi
sociali potranno vedersi riconosciuti dallo Stato e ottenerne la
tutela. Lo Stato da semplice mezzo di dominio (funzione che
ovviamente non ha mai perduto) comincia ad essere luogo di
rivendicazione di istanze di gruppi sociali anche oppressi e fattore
aggregante. Non deve più solo limitarsi all'esercizio di un'egemonia
ma deve anche saper garantire la convivenza tra tutti i membri
soggetti al suo controllo.
Accanto ad esso si sviluppano altre
forme di organizzazione della vita collettiva, più o meno
direttamente collegate all'apparato statale.
Per assumere questa nuova funzione, lo
Stato moderno deve aver raggiunto due obiettivi: il monopolio della
moneta e e della forza militare (come del resto già Machiavelli
riconosceva secoli prima) Ovvero deve riuscire a limitare il
potere non pubblico, privato
per così dire. La moneta e l'esercito rappresentano il minimum
di cui uno stato ha bisogno per esistere, ma accanto ad esse può
assommare altre funzioni. In particolare nel corso del Secondo
Dopoguerra in tutto il mondo lo Stato ha monopolizzato determinati
settori al fine di garantire gruppi e individui. Questi monopoli
hanno permesso l'uso pubblico e collettivo delle risorse, come
avveniva in epoca preindustriale ma ovviamente a un diverso livello
dell'evoluzione storica. Hanno anche contribuito altresì a formare e
a consolidare una determinata coscienza collettiva e un'etica
sociale. Per raggiungere questi
scopi ha dovuto limitare un altro effetto dell'industrializzazione,
ovvero l'espansione del mercato, dei rapporti commerciali, del
profitto.
Il mercato tende a
disintegrare i legami comunitari, compresi quelli estremamente
complessi della nazione (che esso stesso ha contribuito a creare)
perché ai rapporti tra gli uomini sostituisce i rapporti tra merci.
Le relazioni comunitarie sono qualcosa di concreto, di materiale, tra
gli uomini, quelle di mercato sono invece astratte, cioè tendono a
sostituirsi alle prime. Lo Stato-Nazione, pur traendo la sua origine
dall'espansione delle relazioni commerciali, ha dovuto infine
scontrarsi con queste ultime per poter garantire i propri monopoli
sociali, e attraverso di essi la convivenza degli individui.
I legami comunitari
e il controllo sociale delle risorse rappresentano un ostacolo per il
mercato, che quindi fa di tutto per abolirli o limitarli. Tutto ciò
che che rende gli individui più che agenti razionali che
interagiscono per il loro personale interesse, ma membri di una
società, è di intralcio per il mercato e gli oligopoli commerciali.
Dove c'è condivisione, comunanza, non può esserci commercio, il
quale si basa invece sulla concorrenza e sul conflitto di interessi.
Che cos'è il profitto se non sottrazione di valore di una parte a
beneficio di un'altra? E che cos'è la condivisione se non la
negazione di questa sottrazione e l'uso collettivo? Va da sé che i
rapporti commerciali favoriscono lo sviluppo di intenzioni
egoistiche, mentre quelli comunitari alimentano principi
solidaristici in seno alla società.
Il conflitto tra
Stato e oligopoli commerciali, e quindi tra società e mercato, ha
raggiunto un punto di svolta nel corso degli ultimi decenni del
Novecento. Il mercato ha potuto espandersi ulteriormente e lo Stato
contrarsi; legami sociali si sono allentati a vantaggio della
conflittualità commerciale; le pulsioni egoistiche hanno preso il
posto della solidarietà a tutti i livelli.
L'utopia
(o la distopia) thatcheriana che afferma l'inesistenza della società
non potrà mai essere realizzata fino in fondo. L'uomo non può fare
a meno della società, perché anche il conflitto totale si regge su
elementi non privatistici e comunitari. Essi in qualche modo e in
qualche forma continueranno sempre a essere. Tuttavia essa coglie un
punto fondamentale: la conversione (o riconversione) degli apparati e
delle istituzioni che fino a ieri hanno operato in funzione della
società, da garanti di una base di concordia e condivisione a
fattori “neutri” che si limitano a “supervisionare” (per
usare il gergo aziendalista ormai di moda) l'aggressione privatistica
del mercato alle risorse comuni e alle tutele sociali. Coglie
inoltre, questa efficace proposizione, la progressiva dissoluzione
dei legami comunitari a tutti i livelli, e la parallela estinzione di
principi comunitari nella coscienza collettiva. Ciò che ha fatto sì
che nel paese che ha visto sorgere il movimento operaio venisse
formulato un enunciato del genere, finito per essere di fatto
accettato anche da un partito cosiddetto “laburista”, è stato un
mutamento antropologico di portata storica. Ciò che ha permesso,
venendo al caso italiano, all'ex Presidente del Consiglio Mario Monti
di affermare: “I
giovani devono abituarsi all'idea che non avranno un posto fisso per
tutta la vita” e all'attuale governo di varare una legge che
mettesse definitivamente in atto questa affermazione, è una svolta
storica di proporzioni finora non del tutto comprese.
All'individuo
viene meno sempre più il sostegno della società, sia formale che
informale. Su di lui viene scaricato tutto il peso di conflitti più
grandi. La povertà, la disoccupazione, il disagio urbano, vengono
vissuti come stigmi dell'individuo da imputare a quest'ultimo, che
non è stato abbastanza “dinamico” e “flessibile” per non
cadere sotto il peso delle nuove incombenze, che deve affrontare in
perfetta solitudine. La colpevolizzazione dell'individuo, tuttavia,
va di pari passo con la sua deresponsabilizzazione. Egli è sciolto
dai vincoli sociali, deve vedersela da solo, anche a costo di
ricorrere ad azioni prima considerate immorali. Così viene concessa
e persino esaltata l'offesa nei confronti di altre vittime, sul
gradino sociale immediatamente inferiore: il ladro può essere
ucciso, perché “è solo un ladro”, e vi è per di più l'alibi
del furto che stava per commettere; così si elogia l'egoismo come
modello di vita, come in un articolo comparso sull'Huffington
Post,
perché permette avanzamenti di carriera; così si può mostrare
disinteresse per le sorti di un immigrato disperso in mare fino al
punto da augurargli la morte o di pensare di sparargli
deliberatamente addosso, perché “ruba il lavoro” all'italiano.
Con
i legami comunitari in via di dissoluzione all'individuo non resta
altro che affidarsi a una maggioranza impalpabile e priva di legame,
a “sciami”, per cui mode e tendenze volatili ed effimere fanno la
comparsa per poi sparire improvvisamente: “In uno sciame lo
scambio, la collaborazione la complementarietà non esistono: esiste
solo una prossimità fisica e un coordinamento di massima della
direzione del movimento corrente. Nel caso delle unità umane,
senzienti e pensanti, il vantaggio di volare in sciame sta nella
sicurezza del numero
[...]” (Bauman, 2007).
Dove
c'è ancora, l'etica si riduce a un vago umanitarismo caritatevole.
Venendo a mancare il supporto sociale anch'essa non può che uscirne
compromessa. Infatti, per usare le parole di Adorno in Minima
Moralia,
“La bontà è la deformazione del bene. Separando il principio
morale dal principio sociale e trasportandolo nella sfera dell'animus
privato, essa lo limita in un doppio senso. Rinuncia alla
realizzazione di uno stato degno di essere vissuto, che è posto,
come esigenza, insieme al principio morale. Ognuna delle sue azioni
reca il segno della rassegnazione e del conforto: tende ad alleviare
il male, e non alla guarigione, e la coscienza dell'irrimediabilità
patteggia, in definitiva, con quest'ultima. Di conseguenza, la bontà
è limitata anche in se stessa”.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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