La sinistra italiana, o quel che ne
resta, è in preda alla confusione. È del tutto incapace di maturare
una visione della realtà sociale italiana, in balia delle folate di
vento che l'agitano di volta in volta, a seconda di dove soffia il
vento mediatico.
Priva di valide fondamenta teoriche non
riesce a innescare quella che è stata la sua principale arma
culturale: la critica. Si limita perciò a velleitarie petizioni di
principio, affermazioni di istanze isolate e non dialettizzate, in
nome di un'astratta “etica dei diritti” che non riesce a uscire
da un recinto di tipo liberale. Ciò in cui più si trova a suo agio
questa “nuova sinistra” è l'abitudine ad assegnare diritti
fruibili individualmente, essendo del tutto dissolta qualsiasi
prospettiva di emancipazione collettiva.
Il naufragio è cominciato con il
ripudio del marxismo, ripudio che ha una data ufficiale precisa, quel
1991 che vede relegare in soffitta la sacra triade del comunismo
italiano: Marx, Lenin e Gramsci. Soltanto una parte minoritaria,
quella che confluirà nei dissidenti di Rifondazione Comunista,
dichiarerà di volerne ravvivare gli insegnamenti. In effetti, però,
la rinuncia al marxismo è cominciata molto prima e prosegue da molto
dopo la fine del PCI. Arriva fino ai giorni nostri quando, dopo che
l'ala vendoliana decise di scindersi da Rifondazione – per creare
un partito che si appella a una generica e imprecisata idea di
“sinistra” – nasce l'agglomerato “L'altra Europa con
Tsipras”, cartello elettorale che unisce SEL, Rifondazione e alcuni
giornalisti del quotidiano La Repubblica.
Ma per andare all'origine delle
degenerazione bisognerà risalire al secolo scorso, a cavallo tra gli
anni '70 e '80. È in questo periodo che compaiono pensatori francesi
originali capaci di sedurre la cultura progressista più radicale. Si
tratta di filosofi quali Michel Foucalt, Gilles Deleuze, Felix
Guattari. Questi pensatori affondano le radici non in Marx, come
invece la gran parte della cultura di opposizione dell'epoca, ma in
Nietzsche. Non marxisti, ma nietzscheani, dunque, nietzscheani “di
sinistra”. Presentano una rilettura “progressista”, per così
dire, di Nietzsche. Senza addentrarsi nella loro opera basterà qui
notare rapidamente come questi pensatori spostino il discorso dalla
critica del capitale, alla decostruzione del potere. Non, dunque, lo
sfruttamento economico che attanaglia l'uomo, ma i discorsi e le
pratiche del potere. Ad essere al centro del dibattito, una
volta accettata l'ottica foucaultiana, non è più il capitalismo, ma
il potere in quanto tale e la resistenza ad esso inscindibile.
L'umanesimo socialista del marxismo viene sostituito da un
anarcoidismo (non un vero e proprio anarchismo) post-moderno, che
rifiuta la strutturazione del discorso e l'organizzazione politica.
Ma in che modo tutto questo interessa
la sinistra italiana? A ben vedere dopo il crollo del socialismo
sovietico e la dissoluzione del PCI, la sinistra italiana sarà
ostaggio proprio di tendenze di tipo anarcoide e destrutturanti. Le
più diverse istanze del radicalismo politico, che venivano tenute
insieme, seppur non sempre in modo coerente, dalla teoria e dalla
prassi marxista, ovvero le proteste contro la guerra,
l'anti-razzismo, il femminismo e ovviamente le lotte operaie
finiranno per disperdersi in mille rivoli, in tante rivendicazioni
separate e isolate. A mancare è la comune matrice anticapitalista,
dalla quale le diverse proteste si emanciparono per reclamare
riconoscimento tutto all'interno e non al di fuori e oltre la società
capitalistica. L'organizzazione rigida dei movimenti e ancor di più
la loro dipendenza rispetto a un partito furono rigettati come
sinonimo di fascismo. Una struttura “leggera” e un trasversalismo
partitico vennero invece considerati garanzia di democraticità.
Questo è un punto cruciale. Perché da qui passa il fallimento di
alcuni movimenti di grandi speranze e grandi illusioni, come quello
no global, o quello pacifista, tutti, sostanzialmente anarcoidi,
tutti non eterodiretti da un partito e politicamente autonomi e tutti
votati al fallimento. Anche Rifondazione Comunista, che doveva
raccogliere l'eredità del comunismo storico italiano, sarebbe stata
vittima di questo processo.
Le basi teoriche vennero
progressivamente allentate. Non solo ci si abbandonava a mode
contingenti, per di più riciclate, scambiandole per tendenze
universali, come il mantra bertinottiano della non-violenza, ma si
era del tutto incapaci di cogliere lucidamente i cambiamenti del
capitalismo contemporaneo e di usare le categorie marxiste per
analizzarli.
Cadute una ad una tutte le illusioni
“unioniste”, quelle secondo cui bisognava unire tutto quanto ci
fosse a sinistra di Berlusconi prima e del PD poi, non restava che
votarsi, come ultima mossa disperata, al papa straniero. Dopo
l'infatuazione zapatista Hugo Chavez e la rivoluzione bolivariana del
Venezuela sollecitarono per qualche tempo l'entusiasmo della
cosiddetta “sinistra radicale” (o “antagonista” oppure
“massimalista” come i cronisti si affannavano impropriamente a
battezzare, nel goffo tentativo di definire l'indefinibile) e anche
comprensibilmente. Ma, smarrita qualsiasi bussolo teorica, il
chavismo appariva troppo autoritario e decisionista per come era
disorganizzata la sinistra in Italia e per come lo descrivevano i
media. Gli utopismi che invocavano la democratizzazione di tutto,
tranne ovviamente che della produzione e della vita sociale, si erano
insinuati a tal punto da obnubilare la vista e le menti degli
inconsapevoli promotori.
La nascita di Syriza fu come
un'illuminazione per la nostra sinistra. Gli consentiva di
rispolverare le lotte popolari senza aver fatto prima i conti con i
propri errori. Il nemico di classe era tornato, senza l'imbarazzante
vestito progressista che costringeva a farne un alleato e senza la
fastidiosa necessità di doverlo definire di classe, ma c'era
qualcosa contro cui opporsi chiaramente, le banche, i creditori
internazionali. Il partito di Tsipras sembrava essere il giusto
equilibrio tra realismo e radicalismo. Si distingueva dai moderati e
dal PASOK, nel mentre in Italia i suoi seguaci stringevano alleanze
locali col PD. Permetteva di aggirare l'incomprensione del ruolo
dell'euro e di dimenticare gli imperdonabili entusiasmi iniziali per
esso; euro sì, austerità no, sembrava una sintesi efficace e
ragionevole. Il partito di Syriza nasceva come un assembramento di
diverse forze, e questo piaceva molto all'unionismo nostrano; inoltre
non costituiva un esempio di partito tradizionalmente strutturato e
dava adito alla retorica della “democrazia dal basso”. Syriza è,
in sintesi, tutto ciò che la sinistra italiana avrebbe voluto ma non
ha mai potuto essere. C'è solo un problema: Syriza nasce in una
realtà differente da quella italiana.
Intitolare un gruppo politico a un capo
straniero, qualunque sia il giudizio che se ne possa dare, è una
capitolazione in partenza. Si avverte l'assenza di un ceto
intellettuale e politico capace di reinterpretare il marxismo nella
contemporaneità e di coniugarlo nella specificità della realtà
italiana. Lo scenario è desolante, la sinistra insegue mode fugaci e
suggestioni straniere, cercando di copiare ciò che non è in grado
di creare. Intuizioni estemporanee che cercano di eludere la
drammatica carenza di una struttura teorica adatta allo scopo.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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