L'europeismo
inteso come istanza di unificazione dei popoli europei sotto un'unica
bandiera nasce come fenomeno culturale proprio delle élite,
ristretto per lo più a una cerchia di intellettuali, politici e
capitalisti e solo successivamente, in particolare tra la fine degli
anni '80 e l'inizio dei '90 del secolo scorso, trova ampia diffusione
presso i ceti medi semi-colti. L'Italia è un paese dove l'europeismo
ha avuto successo. Ciò si deve principalmente all'azione del ceto
politico e intellettuale, in particolare quello di centrosinistra,
che ha fatto dell'ingresso nell'euro e nei Trattati di Maastricht il
proprio vessillo.
Le ragioni di ciò
vanno rintracciate nelle peculiari vicende politiche italiane che
hanno visto da una parte la dissoluzione del PCI e il ripudio del
marxismo e dall'altro la costituzione della destra berlusconiana, la
quale ha avuto nei confronti delle istituzioni europee un
atteggiamento spesso contrastante. Con il passaggio della sinistra
italiana dalla socialdemocrazia di fatto al liberalismo (similmente a
quanto accadeva in altri paesi) questa si è trovata orfana di una
teoria politica e di una struttura concettuale. L'accettazione
integrale della nuova epoca capitalistica da parte delle giovani
linee dirigenti, l'abbandono di ogni critica strutturale al
capitalismo, relegavano la tradizione marxista italiana all'oblio
totale. La sinistra si trovava priva di una “traccia”
concettuale, che non fosse una banale e sbiadita retorica svuotata di
ogni reale pregnanza. L'europeismo forniva un aggancio, un modo per
recuperare, in forma grottescamente trasfigurata, il vecchio
internazionalismo, senza per questo dover uscire dal capitalismo e
dal dogma del libero mercato. L'europeismo sembrava disporre di
un'arma culturale da opporre alle destre, in particolare quelle di
matrice fascista o sciovinista. Esso infatti rigetta l'idea di
nazione, giudicata retriva e foriera di autoritarismo, in nome di un
cosmopolitismo astratto, che non di rado si rivela in apolidismo.
Ovviamente gli elementi della critica marxiana sono del tutto
dimenticati e ad essi subentra una retorica sentimentalista
paneuropea.
La nuova destra
berlusconiana, invece, si trovava in una rapporto di amore-odio con
l'ideologia europeista. Il “leadirismo” di Berlusconi, unito al
suo plebiscitarismo, mal sopportava l'intervento delle istituzioni
europee e i limiti dei Trattati. Ma nello stesso tempo ne condivideva
l'aziendalismo e l'utopia del mercato unico, elementi che non
potevano non incontrare il suo favore. Tuttavia la destra italiana
nel complesso ha tollerato anche gli elementi di contraddizione con
l'ideologia europea, senza mai opporvisi seriamente e finendo per
aderirvi del tutto. Al ceto politico italiano l'europeismo è tornato
comodo per essere usato come una clava da abbattere sull'avversario
politico, rimproverandogli un mancato rispetto delle regole dei
trattati o come scusante per giustificare le politiche antipopolari
pretese dai gruppi di pressione.
Caratteristica
fondamentale dell'europeismo è, si è detto, il cosmopolitismo, di
cui si è avvalsa soprattutto la sinistra. Si tratta di una forma
estrema quasi coincidente con l'apolidismo, che predica
l'unificazione integrale di ogni aspetto dell'economia, della
politica e della società dei vari paesi, eliminando le specificità
nazionali. Questo antinazionalismo coincide ovviamente con
l'antistatalismo, in quanto radicalmente neoliberale. Lo scopo è il
contenimento, il ridimensionamento e la dissoluzione dello Stato
sociale europeo. Gli stati nazionali erano l'architrave sul quale
poggiavano le tutele sociali e l'interventismo economico del ceto
politico. Al capitale finanziario però andava stretto ciò che prima
era tollerato dal capitale industriale nazionale. Esigeva perciò una
privatizzazione delle imprese pubbliche statali e la cancellazione
delle leggi in favore del lavoro per promuovere la concorrenza
internazionale dei mercati. Lo Stato-Nazione costituiva perciò il
vero ostacolo da abbattere attraverso la creazione di mercati
continentali deregolamentati e che non trovassero più nemmeno
l'ostacolo delle barriere doganali. L'apolidismo europeista, che
proclama la libertà di movimento dei suoi pseudo-cittadini in nome
dell'incontro di culture e delle “opportunità” di spostamento
degli studenti e dei lavoratori alla ricerca di migliori condizioni –
ovvero lo sradicamento collettivo di interi popoli – punta alla
liberalizzazione dei trasporti delle merci e dei movimenti di
capitale. Lo spostamento degli individui è, in effetti, ininfluente.
Nel regime del liberismo cosmopolita il lavoratore europeo è messo
in competizione con il lavoratore dell'altro emisfero senza che
nessuno dei due debba spostarsi.
L'europeismo,
tuttavia, non si è mai scontrato, ed anzi ha non di rado
incoraggiato, il regionalismo. Un assetto di tipo federativo ha
coinvolto persino paesi di lunga tradizione centralista, come
l'Italia e la Francia. Il vero nemico dell'europeismo, infatti, non è
la provincia, ma la nazione. L'apice del sogno europeista sarebbe
l'abolizione delle frontiere nazionali e la creazione di tanti
dipartimenti provinciali all'interno di un'entità statuaria
continentale. Esso vuole proporre, per così dire, una riedizione
contemporanea del Sacro Romano Impero, che infatti fu dissolto
proprio dall'affermazione degli stati nazionali. Naturalmente il
parallelismo si ferma alla superficie della sovrastruttura politica.
Tuttavia l'ideologia europeista non trascura di lusingare persino la
stessa identità nazionale. Nel mentre combatte le culture nazionali,
sollecita la grandeur
dei paesi continentali e dell'asse franco-tedesco che elegge a
dominatori del Vecchio Continente, rievocando gli spiriti bellicisti
sopiti dopo le due guerra mondiali, ma, nel frattempo, corteggia i
paesi mediterranei, gli esclusi dalla storia, offrendogli l'onore di
entrare a far parte del club dei potenti. L'ideale nazionale viene
svenduto in cambio di un narcisismo sciovinista che non ha più
niente di emancipativo. Questo narcisismo convive paradossalmente con
un complesso di inferiorità di cui si nutre l'ideologia europeista.
Nessuna cultura nazionale è sufficiente, tanto più quella
dell'Europa meridionale. Essa può produrre soltanto guerre e
aberrazioni. Proprio facendo mostra di criticare i dispotismi
totalitari, l'europeismo fa trasparire il proprio dispotismo. L'idea
della pace esaltata dagli europeisti sarebbe stata destinata a
cozzare contro l'amara realtà. La guerra del capitale finanziario –
e della sua ancella, il grande capitale industriale – contro tutte
le altre classi ha prodotto la devastazione del tessuto sociale dei
vari paesi, la distruzione delle tutele giuridiche e lo
stravolgimento dei principi solidaristici ed egualitaristici. Ha
alimentato tensioni che sembravano ormai esaurite. Ha aizzato la
superbia tedesca contro i mediterranei, per giustificare l'usura
creditizia e lo sfruttamento del lavoro imposto a tutti i membri
dell'Unione. Ha condotto la Grecia sull'orlo del collasso economico.
Ha coperto i suoi propri interessi con la favola della comunanza di
interessi. Mentre fingeva di perseguire la libertà, la distruggeva;
mentre dichiarava di costruire la pace e la concordia, lavorava
nell'ombra per provocare la guerra; mentre prometteva crescita e
prosperità, produceva povertà e sfruttamento.
Se è vero che le
idee dominanti sono quelle delle classi dominanti, l'europeismo è
senza dubbio ideologia dell'élite finanziaria transnazionale.
Ma ormai l'utopia
delle classi dominanti, che è la distopia dei dominati, sembra
sull'orlo di naufragare. La crisi economica che coinvolge tutta
l'Europa, e che si è manifestata in Grecia con la massima virulenza,
ha messo in luce le prime contraddizioni. Le vicende politiche del
paese ellenico potrebbero segnare il distacco tra la narrazione
europeista funzionale alla strategia delle élite e il volere delle
masse che per la prima volta dopo decenni hanno la possibilità di
prendere coscienza della loro condizione e di una lotta che può solo
essere, a un tempo, nazionale e anticapitalista.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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