30 giu 2015

Il paese delle emergenze*

“Emergenza nazionale”, “emergenza sicurezza”, “emergenza criminalità”, “emergenza immigrazione”, “emergenza rom”, “emergenza ambientale”, “emergenza idrogeologica”, “emergenza omofobia”, “emergenza economica”, “emergenza lavoro”,“emergenza sanitaria” e non può mancare, per quanto riguarda soprattutto il contesto internazionale, “l’emergenza umanitaria”. Tutti “allarmi” lanciati dai media che richiedono “governi di emergenza”. L’emergenza è ormai diventata una categoria della cultura nazionale alla cui lente deformante vengono osservate tutte le questioni. Praticamente non esiste settore della vita pubblica che non abbia la sua emergenza. Ma che cos’è che la rende l’ottica privilegiata attraverso la quale filtrare tutti i fenomeni sociali?
La parola “emergenza” deriva dal latino “e-mergere” che vuol dire “venire alla superficie dell’acqua”, quindi anche “innalzarsi”, “risaltare”, dunque “emergenza” è ogni fatto, avvenimento o fenomeno che era precedentemente nascosto, sommerso, e che, per qualche circostanza, viene all’attenzione di tutti. L’emergenza infatti non indica soltanto una condizione oggettiva del fatto osservato, ma anche soggettiva, dipendente dal punto di vista dell’osservatore. Può trattarsi di fenomeni sottaciuti, ignorati, considerati con sufficienza, e che, per un evento particolarmente traumatico, emergono all’attenzione del pubblico che prima li relegava all’ignoranza o all’incoscienza. La stampa e i media giocano un ruolo decisivo nel determinare il momento e l’evento che costituiscono un insieme di fatti come emergenza. Di conseguenza, a renderla tale più che l’oggetto in sé, è l’impressione che esso, attraverso il filtro dell’informatore, ha sull’informato.
Bisogna dire che il vocabolo è usato spesso sul modello dell’inglese “emergency” che indica una condizione particolarmente critica, la quale esige un’azione decisa che possa portare se non alla sua risoluzione alla normalizzazione, quindi ricondurlo a una condizione precedente a quella d’emergenza.
È chiaro che la dimensione attraverso cui essa è percepita come tale è il tempo. Un fatto immediato, la degenerazione improvvisa di un fenomeno di disagio, perché poco conosciuto o trascurato, costituiscono un’emergenza, la quale richiede un intervento rapido, senza fronzoli, che trascuri anche le normali procedure o la prassi corrente pur di intervenire tempestivamente. La parola “emergenza” fa appello alla rapidità di esecuzione, più che alla sua qualità, mette i sensi in allerta, perché si sia pronti a intervenire da un momento all’altro. Quando l’emergenza compare sui principali quotidiani, l’attenzione dei cronisti è sempre rivolta ai particolari tecnici dell’intervento richiesto. L’azione ha la priorità assoluta e la riflessione deve fare un passo indietro, eccetto in ciò che è indispensabile per la messa appunto rapida dell’intervento. La dialettica politica diventa un orpello non solo inutile, ma che potrebbe danneggiare la riuscita dell’intervento, il cui merito principale deve essere quello della tempestività. In effetti la procedura emergenziale è la negazione stessa della politica. Essa richiede l’attivazione di un sapere tecnico e operazionale, ma non dialettico. La politica necessita infatti di tempo; il tempo della riflessione, del dibattimento e infine della decisione come esito della mediazione di tutte le istanze e ciò vale in particolare per la politica dello stato rappresentativo e non autocratico, che assicura il diritto di parola a tutte le parti. L’emergenza non dà tempo. In stato di emergenza la mediazione, il diritto di rappresentanza, la politica in generale, sono lussi che non ci si può concedere. Tutta quella che sarebbe la normale procedura articolata nella dialettica e nella sintesi delle diverse parti riconosciute viene condensata nella decretazione di un’unica autorità il cui unico obbligo può essere solo quello di comunicare a giochi fatti ciò che si è deciso in altre sedi. Mai come in questo caso vale il detto popolare il tempo è tiranno.
Una delle definizioni che dà il vocabolario Treccani, per ciò che concerne il gergo giornalistico, del lemma “emergenza” è “situazione di estrema pericolosità pubblica, tale da richiedere l’adozione di interventi eccezionali” nella quale compare non solo lo stato di allerta, la percezione del pericolo portata al massimo e quindi la tensione emotiva, che già di per sé è d’ostacolo alla riflessione e al dibattito, ma l’eccezionalità dell’intervento. L’intervento deve essere eccezionale non solo perché costituisce una deviazione rispetto alla procedura ufficiale, o comunque alla prammatica o a ciò che viene inteso di solito, ma anche per quanto riguarda il merito dello stesso intervento, al quale si richiede oltre che una rapidità fuori dal comune, come è stato detto, un’efficacia sicura, anche a costo di andare a scapito della precisione. La retorica dell’emergenza intima di lasciare il bisturi e di impugnare la sega. Un arto dovrà essere amputato per salvare l’intero corpo. La caratteristica saliente dei discorsi emergenziali è quella di riconoscere come inutili tutte le procedure “di diritto”, cioè quelle che riconoscono le diverse istanze e mirano alla mediazione. Per la retorica emergenziale esse diventano all’improvviso inutili per il semplice fatto che esiste un’unica istanza valida per tutta la durata dell’emergenza, ovvero la risoluzione dell’emergenza stessa. Finché questa non cessa, nessun’altra istanza può ottenere riconoscimento, perché non potrebbe essere applicata.
Non solo il pericolo a cui si è esposti a causa dell’emergenza viene descritto come superiore al pericolo del mancato riconoscimento di una, di più o di tutte le altre istanze, ma ogni altra istanza viene misconosciuta, in quanto può essere applicata soltanto l’unica procedura tecnica possibile che intervenga efficacemente sull’emergenza. Ecco perché le ragioni dell’autorità rappresentativa, come quella che viene descritta come “governo democratico-liberale”, vengono invalidate nella premessa. Venendo meno la pluralità delle istanze, viene meno la necessità di rappresentarle. TINA era lo slogan del Primo Ministro inglese Margaret Thatcher, l’acronimo di There Is No Alternative, riadattato per la campagna di privatizzazioni delle aziende pubbliche della Germania dell’est dopo il crollo del Muro di Berlino; non c’è alternativa all’azione immediata e alla sua preparazione meramente tecnica. Essa non sarà indolore, ovviamente. Ma l’emergenza ha la priorità rispetto a qualsiasi istanza. In questo modo i “governi d’emergenza” sedano quell’opposizione che in altre circostanze, entro una cornice “di diritto”, avrebbero dovuto riconoscere. In tempi recenti l’emergenza del debito pubblico ha invalidato la dialettica parlamentare. Bisognava “fare sacrifici”, amputare la parte in cancrena, intervenire pesantemente anche a costo di danneggiare una delle parti riconosciute. La sovranità stessa dello Stato rappresentativo viene messa in discussione dalla procedura emergenziale. Viene ceduta a istituzioni più rapide e più adatte ad applicare le procedure, sacrificando ad esse tutto il resto. La politica, nel suo significato originario, come autogoverno della polis, è annullata. Il governo deve essere demandato ad autorità esterne alla città, o alla nazione.
Non è certo la prima volta nella storia che fa la sua comparsa lo stato di emergenza. Procedure emergenziali esistevano già nella antica Roma repubblicana, come nel caso del dictator, che poteva essere incaricato dal Senato in caso di guerra. Ma era codificata con precisione, aveva dei limiti e una durata circoscritta. L’emergenza attuale invece trascende qualsiasi vincolo, comprese le leggi e le costituzioni. Non ha una durata precisa. Non esiste un limite temporale oltre il quale l’emergenza non possa protrarsi. Né un contenimento della frequenza con la quale si ricorra alle procedure emergenziali.  Questo aspetto entra in contraddizione con la ragione stessa di simili procedure, perché ciò che le giustifica non solo agli occhi dei governi, ma persino delle opposizioni che le accettano, seppure a malincuore, come male necessario, è la rapidità. Il problema deve essere risolto in fretta, altrimenti rischia di diventare irrisolvibile. Eppure, le procedure di emergenza si protraggono sempre più nel tempo, ampliano sempre più la loro sfera di influenza, il numero di settori della società che avocano a sé, esse si normalizzano, realizzando uno strano paradosso: la costituzione di procedure e autorità di emergenza che però diventano la norma di fatto accettata e vigente in contrapposizione al diritto formale.


*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente



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