Il nuovo Stato italiano sorto dalla
Resistenza si fondava sul compromesso sociale di due componenti. Il
capitale nazionale e la classe lavoratrice. Il ceto politico che
veniva dalla lotta partigiana (e successivamente quello della seconda
generazione) fu il medium per realizzare tale compromesso. I
contenuti di quest'ultimo trovarono sanzione giuridica nella
Costituzione e in seguito, pur tra varie contraddizioni, concreta
applicazione nella società italiana e nei rapporti di produzione.
Sostanzialmente questa situazione
nacque dall'emergere di una nuova consapevolezza tra le classi
dirigenti: non era più possibile tacitare le rivendicazioni del
lavoro e bloccare l'avanzamento del movimento operaio. Accanto a
questa consapevolezza si profilava la necessità per il capitalismo
italiano, in un paese devastato dalla guerra, della protezione e del
sostegno diretto dell'apparato statale. Ma questa protezione non
poteva avvenire in modo da scontentare i lavoratori, sia perché il
loro potere politico era accresciuto e nel nuovo regime godeva di più
ampie libertà sindacali rispetto al ventennio fascista, sia perché
il capitalista aveva bisogno di espandere i consumi e i mercati
interni e quindi i salari dovevano crescere necessariamente.
La soluzione fu trovata dall'opera
della nuova classe politica, seppure in modo non lineare e talora
ostacolata da spinte più o meno conservatrici. Essa fu attuata
attraverso un interventismo dello Stato nell'economia e nella
produzione. L'intervento pubblico consentiva al capitale nazionale di
crescere a patto però che ciò collimasse con il miglioramento del
benessere generale della società e con l'avanzamento delle
condizioni dei lavoratori. Il profitto privato poteva essere
garantito solo se non si scontrava con il progresso sociale. Fu in
quest'ottica che si possono leggere la creazione di monopoli pubblici
o gli investimenti statali nelle cosiddette “partecipate”. Ciò
permise la crescita industriale in settori molto costosi e ad alto
rischio (come i trasporti nazionali o l'energia) laddove il capitale
difficilmente avrebbe investito massicciamente.
Negli anni '60 e '70 un'Italia in piena
crescita economica vedeva un importante aumento dei salari e
l'acquisizione di nuove e avanzate forme di tutela giuridica per il
lavoro. Questo compromesso resse, tra alti e bassi, all'incirca fino
alla fine degli anni '80, quando le mutate condizione
storico-economiche crearono la premesse per una rottura. Le prime
avvisaglie si ebbero però già con la disputa sulla questione della
scala mobile, quando la classe operaia esigeva il mantenimento del
potere di acquisto e il grande capitale richiedeva a gran voce una
moderazione dei salari per vedersi garantiti certi margini di
crescita del profitto. La classe politica dirigente si spaccò. In
passato, pur tra notevoli differenze e un'accesa dialettica, i
termini del compromesso non erano stati mai violati o messi
seriamente in discussione nella sostanza. Il capitalismo italiano
seppe far leva su questa spaccatura della classe politica, riuscendo
anche a guadagnare il consenso di alcuni settori della media
borghesia.
Negli anni '90 accadde il definitivo
crollo del paradigma sul quale si era fondata la politica italiana.
Ciò si deve alla progressiva internazionalizzazione del capitale da
un lato, che varca i confini nazionali e che si va finanziarizzando
sempre più, e alla perdita per il lavoro di adeguati strumenti
politici e della capacità del ceto politico di rappresentarne gli
interessi.
È su queste basi che si fonda la
Seconda Repubblica. A essere recepite dalla nuova dirigenza politica
sono soltanto le spinte neoliberiste che hanno portato a una rapido
ritiro dello Stato dall'economica, quindi alle privatizzazioni e alla
deindustrializzazione e all'abolizione delle più avanzate forme di
tutela del lavoro, che erano accettate dal capitalismo industriale a
base nazionale nel contesto dei primi decenni dell'Italia
post-bellica, ma che venivano ora del tutto respinte dall'irrompere
del capitale finanziario internazionale. Quest'ultimo non accetta
alcun tipo di compromessi e dunque la sua progressiva intrusione
nella società italiana lo poneva in aperto contrasto con le forze
che avevano rappresentato quel compromesso; ovvero la classe
lavoratrice (contro cui è stata scatenata una guerra di classe mai
così virulenta), il vecchio ceto politico (spazzato via da
“selettive” indagini giudiziarie) e la piccola impresa che nella
vecchia realtà della Prima Repubblica prosperò e che ora si vede
sommergere dall'incombenza degli interessi bancari. Il grande
capitale industriale italiano, da parte sua, che per primo aveva
cominciato a defilarsi dal compromesso, ha saputo adattarsi alle
mutate condizioni, prendendo parte al processo di
internazionalizzazione finanziaria.
In questa nuova realtà è ovviamente
impossibile pensare a un ritorno al passato e riproporre
nostalgicamente soluzioni non più attuabili. Un compromesso col
grande capitale non è più proponibile perché questo non è più
nazionale; opera ormai su scala mondiale e secondo logiche che
trascendono le frontiere politiche. Si tratta semmai, per le
componenti sociali subalterne, di trovare una efficace strategia di
opposizione sia sociale che politica. Questa strategia deve partire
da un fatto. Le classi lavoratrici e la piccola impresa – una
realtà, nonostante il declino economico, ancora presente e diffusa
sul territorio italiano – sono state le più duramente colpite dal
capitale transnazionale. Viene quindi spontaneo pensare che
un'alleanza possa rappresentare l'unica alternativa realistica al
neoliberismo della finanza e del capitale transnazionale, e di quel
nuovo ceto intellettuale e politico che ne legittima gli interessi,
purché trovino uno strumento per tradurre politicamente le loro
richieste. Questo strumento non può che essere una nuova classe
politica dirigente antiliberista e antiglobalista e un nuovo ceto
intellettuale contrapposto a quello attuale culturalmente dominante
che sappia leggere la mutata realtà e comprendere la sfida delle
classi subalterne del nuovo millennio.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
Immagine tratta da: http://www.eni.com/en_IT/company/history/enrico-mattei/enrico-mattei.shtml
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