Esiste una certa lettura moralistica,
molto lacunosa e non suffragata da dati empirici, che concepisce la
crisi come prodotto della corruzione, degli sperperi della finanza
pubblica e dei redditi del ceto politico. Attorno a quest'ultimo è
sorta tutta una sottocultura che accusa la “casta” di essere un
terribile flagello per le casse dello stato, ma soprattutto di
ricevere rendite immorali e molto al di sopra di quella che sarebbe
una giusta retribuzione. Questa subcultura che ha un notevole
successo popolare, quanto una totale incapacità di inquadrare la
questione entro un'ottica scientifica e razionale, limitandosi
all'invettiva e allo sfogo verbale di un imprecisato malessere, è
stata avallata e incoraggiata da numerosi intellettuali e
giornalisti, molti dei quali fino a ieri sostenevano proprio quella
“casta” considerata oggi come l'origine di tutti i mali.
In ogni caso l'attenzione finisce
sempre per concentrarsi quasi esclusivamente sugli “sprechi” e la
corruzione delle cariche pubbliche, dimenticando che questi fenomeni
sono ben presenti anche in ambito privato, con conseguenze, purtroppo
– e contrariamente a quanto dice la vulgata “anticasta” – ben
peggiori per la collettività. Ciò deriva da un certo “analfabetismo
civile” dovuto all'incapacità da parte degli individui (di tutte
le classi e di qualsiasi livello di istruzione) di comprendere le
ragioni profonde e le cause principali dello stato di cose attuale e
del malessere sociale di fondo che non riescono a identificare.
La corruzione è un fenomeno
indubbiamente esistente all'interno delle cariche pubbliche, ma non è
che l'effetto di un determinato assetto sociale. Contrariamente a
quanto sostiene la subcultura anticasta (che non di rado è
autorazzista, xenofila e americanista) non è certo un problema
limitato all'Italia o che vede nella Penisola la sua massima e più
virulenta espressione. In tutti i paesi capitalistici esistono
episodi di corruzione. Il più clamoroso, in Europa, è probabilmente
quello della Siemens, che ha corrotto i sindacati tedeschi e il cui
dirigente e principale responsabile, Peter Hartz, è stato fatto
ministro del lavoro e ha ideato la riforma del welfare attualmente in
vigore e alla quale Renzi dice di essersi ispirato (ma di cui anche
molti grillini tessono le lodi). Eppure sembra meno importante, per
il risalto mediato che ha avuto, rispetto alle mazzette date
all'ultimo assessore di provincia, forse perché riguarda una
multinazionale privata, o forse perché interessa la “virtuosa” e
incorruttibile Germania.
Nella società capitalistica la
corruzione è un fenomeno inestirpabile, soprattutto nell'epoca
attuale, perché se il Capitale compra qualsiasi cosa – persino il
sesso, la cultura e infine la dignità – non si comprende per quale
motivo non dovrebbe comprare anche le cariche pubbliche, proprio
quelle che le permettono di ottenere una legislazione favorevole. La
corruzione non è la conseguenza di un non meglio identificato
“malcostume” o di immoralità diffusa con cui un “idealismo di
bassa lega” (per parafrasare Hegel) è solito risolvere la
questione, né un fattore a-storico connaturato alla natura umana,
come vorrebbero certi reazionari misantropi. La corruzione è
soltanto l'effetto di un determinato assetto sociale. Volere il
capitalismo senza la corruzione è come volere, citando Marx, “le
condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli
che necessariamente ne derivano. […] la società attuale sottrazion
fatta degli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono”. Ma
contro i capitalisti corruttori (o corrotti) non si alza nessuna
protesta indignata. Non risultano proteste significative, nel nostro
paese, contro i finanziamenti che la FED e la BCE hanno elargito alle
banche per garantir loro non solo la sopravvivenza, ma altissimi
guadagni, mentre milioni di lavoratori e di disoccupati venivano
lasciati sul lastrico. Sicuramente, nessuna protesta paragonabile al
coro di biasimo nei confronti della “casta”, i cui stipendi sono
nulla a confronto degli immensi profitti che certi fondi speculativi
assicurano con un solo clic.
La corruzione, la diseguaglianza
economica e di reddito, sono qualcosa di deprecabile, ma diventano un
mero pretesto o una forma di auto-assoluzione quando si concentrano
su un solo settore della società e per giunta nemmeno quello dove è
al grado maggiore. C'è chi sostiene che le retribuzioni dei
parlamentari siano un esborso insostenibile per le casse pubbliche.
Evidentemente non ha la più pallida idea degli ordini di grandezza
in gioco. La spesa pubblica italiana si aggira attorno agli 800
miliardi di euro l'anno. Anche ammettendo che lo stipendio mensile di
un parlamentare si aggiri attorno ai 30 mila euro, su 945 membri
delle due Camere, si tratta di appena lo 0,04% circa dell'intera
spesa pubblica. Una cifra risibile. Ma risibile soprattutto se
confrontata con i guadagni della finanza internazionale, quella a cui
il nostro stato paga miliardi di euro di interessi. E cosa dire della
corruzione con la quale le lobby si assicurano leggi e governi
favorevoli ai loro interessi? Queste leggi non vengono scritte
neanche più nei parlamenti nazionali (tanto meno nei consigli
regionali o comunali) che si limitano a semplici ratifiche. L'80%
circa delle leggi discusse in Italia sono applicazioni di direttive
europee.
Ma la retorica anticasta si concentra
morbosamente e ossessivamente sul ceto politico, quello più esposto
mediaticamente, dimostrando di essere essa stessa nulla più che un
fenomeno mediatico, sul cui fuoco molti sono ben lieti di soffiare.
C'è un grande interesse da parte di certi settori economici nel
rendere la politica il capro espiatorio (oltre che un potenziale
nemico) da sacrificare sull'altare del libero profitto. Convincendo
l'opinione pubblica che lo Stato è un apparato estremamente
dispendioso, lento e inutile, sarà più facile persuaderla che è
necessario per il suo bene privatizzare i beni pubblici, tagliare la
spesa pubblica e trasferire la sovranità dai Parlamenti a organi
autocratici sovranazionali.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
Immagine tratta da: http://www.dirittodicritica.com/2013/12/17/finanziamento-pubblico-partiti-giornali-beppe-grillo-49274/
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