4 lug 2014

Le ragioni del declino italiano

Disoccupazione in Europa (2013)
Uno Stato è libero e sovrano quando ha l’egemonia sulle armi e la moneta
Niccolò Machiavelli



Le analisi moralistiche sulle cause della crisi italiana (che trascurano al solito di inquadrarla nella più ampia crisi europea) si saldano con quelle di una scuola economica neoliberale altamente in voga, malgrado la sua infondatezza scientifica e il suo fallimento storico, presso l'attuale ceto politico dirigente.
Le prime, sostengono che i motivi di questa crisi vanno individuati nella corruzione dilagante delle istituzioni pubbliche che avrebbe posto gli interessi particolari al di sopra di quelli nazionali. Vi è una chiara impronta ideologica in questa lettura che ignora quanto i cosiddetti interessi nazionali non siano in realtà che una particolare declinazione di quelli più specifici di determinati attori economici e politici.
Il secondo tipo di interpretazione, su un piano economico, sostiene che le cause vanno ricercate in un “eccesso” di stato e di politiche pubbliche che avrebbero imbrigliato l'economia e i mercati impedendo lo sviluppo e l'afflusso di capitali. Questa posizione è riassumibile nel motto reaganiano “Lo stato non è la soluzione ma il problema”.
La saldatura tra queste due interpretazioni è quasi naturale. Lo stato, gli apparati pubblici sono corrotti, tendono a favorire le proprie clientele, di conseguenza bisogna limitarne il potere, estrometterli dalla direzione dell'economia e impedirne la programmazione di una politica industriale giudicata inutile nel migliore dei casi (come teorizzato dall'ex ministro Bersani).
Questo “moralismo neoliberale” è clamorosamente contraddittorio. È indimostrato che l'alleggerimento dell'apparato burocratico comporti una riduzione della corruzione delle “caste” politiche (non si parla mai di “casta”, nei media, per riferirsi alle lobby private e ai gruppi di pressione) come se nell'economia privata vigesse il regno della moralità. Gli scandali bancari dell'ultimo periodo (e non solo) dovrebbero dimostrare l'esatto contrario.
Del resto è evidente che una riduzione della spesa pubblica, più che limitare gli episodi di corruzione e di clientelismo, semmai li aggrava, perché la carenza dei fondi favorisce l'accaparramento degli stessi da parte dei soli soggetti più forti e influenti. Ma questa visione ha soprattutto il difetto di non andare alla radice del problema. Le cause della corruzione non sono figlie soltanto di determinate scelte politiche o di contingenze culturali, ma sono insite nella natura stessa della società capitalistica. Più che essere il ceto politico dirigente a usare il proprio potere burocratico per esercitare pressioni sul capitalismo privato è vero semmai il contrario, cioè è il Capitale a determinare quelle che saranno le scelte politiche. Questo tende a eliminare ogni sorta di ostacolo alla propria espansione, per garantirsi margini di profitto non decrescenti (cui tenderebbe, come ci insegna Marx).
La tradizione neoliberale continua testardamente a sostenere la riduzione delle spese dello stato e il pareggio dei bilanci pubblici, sebbene sia storicamente evidente che le crisi del capitalismo vengano superate attraverso l'ampliamento, invece che il contenimento, dei disavanzi. Nazionalizzazioni, piuttosto che privatizzazioni. Concentrazione dei capitali pubblici laddove quelli privati non andrebbero mai. È ovvio che solo laddove siano state attuate politiche keynesiane, come dimostrano gli Stati Uniti roosveltiani o la Gran Bretagna dell'immediato dopoguerra, il capitalismo ha potuto superare le proprie crisi. Il taglio degli investimenti pubblici in nome di una moralizzazione della società non può che portare all'aumento delle diseguaglianze sociali, alla svalutazione salariale, alla crescita della disoccupazione, all'impoverimento di massa e tutto questo non scoraggia di certo la corruzione.
Occorre pertanto domandarsi se non sia vero piuttosto il contrario; cioè se la crisi italiana non sia figlia della destrutturazione dello stato, se il declino economico e sociale non sia ricollegabile al declino politico.
L'Italia ha sempre pagato nella sua storia la propria debolezza politica. Sebbene sia stato un paese avanzato sul piano economico e culturale, punto di incontro delle più importanti rotte commerciali mondiali, con una innovativa classe borghese imprenditoriale pre-industriale, quanto culla dell'arte e sede di un ceto intellettuale progredito e raffinato, non ha mai saputo consolidare a livello politico la propria egemonia. Il prevalere di un diffuso corporativismo a tutti i livelli, (dalle leghe comunali alle Arti e i Mestieri) ha sempre esercitato una forte e invincibile opposizione alla formazione di qualsiasi potere centrale. È mancata nella penisola una forte monarchia capace di imporsi tanto sulle nobiltà locali, quanto sui gruppi corporativi. Quando c'è stata l'unificazione, e la costituzione di uno stato nazionale, è stata pagata a duro prezzo, con il saccheggio delle finanze dello Stato borbonico e la deindustrializzazione del Meridione da parte del Regno Sabaudo.
Lo sviluppo italiano nel secondo Novecento (mai immune da forti squilibri) e l'affermazione dell'Italia come potenza mondiale negli anni '60 e '70 vedono il costituirsi di un forte stato centrale, guidato da un intelligente ceto politico dirigente (senza volerne nascondere i limiti e le contraddizioni) che ha saputo orientare gli interessi del capitalismo nazionale. Saranno proprio la decimazione e la sostituzione di quel ceto politico e l'indebolimento dello stato a decretare la fine del “miracolo” italiano.
Questo processo avviene in tre fasi. Una prima risalente alla fine degli anni '70, forse l'apice dello sviluppo italiano, e il cui inizio può essere fissato con l'omicidio Moro. Questa fase vede la sconfitta di quella linea di dirigenti (più o meno trasversale ai partiti politici) che si opponeva a un'entrata sine conditio dell'Italia nello SME e la fine del keynesismo economico della Banca d'Italia con l'affermarsi di una linea monetarista e anti-inflazionistica. Con la sostituzione (per via giudiziaria) di Baffi con Ciampi si inaugura la nuova politica della banca centrale, strenuamente filo-tedesca. D'ora in poi l'Italia andrà verso successive rivalutazioni monetarie e a inasprimenti fiscali che culmineranno negli anni '90.
Una seconda fase è individuabile nella vicenda di Tangentopoli in cui viene eliminato per via giudiziaria un ceto politico ingestibile, non legato direttamente agli interessi del grande capitale internazionale e ai piano franco-tedeschi. Ciò coincide sostanzialmente con la liquidazione del Partito socialista non proprio entusiasta dell'entrata nell'euro e di una parte della DC e segna l'avvicendamento tra le prime e le seconde linee di dirigenti. In questa fase nel PCI domina la linea atlantista e si impone la corrente migliorista. Sarà proprio quel ceto migliorista che si affermerà con l'eliminazione del Psi.
La terza fase è segnata, invece, dalla guerra contro Berlusconi e i suoi governi, e si conclude con la sua destituzione operata attraverso un vero e proprio colpo di stato che ha creato il governo collaborazionista di Monti. Con quest'ultima fase giunge a compimento il processo di avvicendamento delle seconde linee.
Il risultato di tutto ciò è stato la scomparsa degli elementi meno agevolmente condizionabili e manovrabili dai poteri economici e finanziari transnazionali e di conseguenza la destrutturazione dello stato italiano, la privatizzazioni delle aziende partecipate, la deindustrializzazione dell'apparato produttivo e le politiche anti-salariali.
L'accettazione totale e incondizionata dell'ECU prima e dell'Euro poi, con le clausole fortemente penalizzanti per l'industria italiana contenute nei trattati, che fu il dogma delle ex seconde linee di dirigenti politici (da Amato a Prodi, da Veltroni a D'Alema, sotto la “supervisione” di Napolitano, passando per i governi “tecnici”) la totale subalternità rispetto all'egemonia militare della NATO e all'imperialismo americano (inaugurato dalla malaugurata svolta berlingueriana del '76), rappresentano la specifica colorazione del declino italiano degli ultimi trent'anni.
Sono proprio l'indebolimento di quel ceto politico dirigente, in nome della guerra alla corruzione e all'illegalità, la sua sostituzione con elementi del tutto organici agli interessi delle élite capitalistiche internazionali e il conseguente “dimagrimento” dell'apparato statale, all'origine della crisi italiana, la quale, però, è da inscrivere all'interno della più ampia crisi dell'Europa e dell'Unione Europea.
L'autorazzismo, con il gusto tutto italiano dell'autoflagellazione e del dileggio verso se stessi in favore di una xenofilia che descrive tutto quanto si trovi al di là delle Alpi (o dell'Oceano) come il Paradiso Terrestre, rappresenta la declinazione nella Penisola della più ampia legittimazione culturale di un moralismo neoliberale che santifica il capitalismo nord-europeo e colpevolizza la pigrizia dei popoli mediterranei; e non è difficile comprendere, alla luce di ciò che è stato detto, quanto questa retorica sia responsabile della più lunga e imponente crisi economica dell'Italia e dell'Europa.


Immagine tratta da:
http://it.wikipedia.org/wiki/Disoccupazione_nell'Unione_europea

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