23 lug 2014

Giù le mani dalla spesa pubblica

Poche cose sembrano mettere d'accordo tutti gli esponenti del ceto politico e di quello accademico come l'invincibile luogo comune sulla presunta necessità del taglio della spesa pubblica.
Trasversalmente agli schieramenti politici è in voga indicare la spesa pubblica come causa di tutti i mali economici dell'Italia. Questo malgrado i dati mostrino come in realtà quella italiana sia tutt'altro che elevata (Fig. 1) e negli ultimi anni essa sia costantemente diminuita fino a scendere al di sotto della media dell'Eurozona (Fig. 2).
Ma queste drastiche cure “dimagranti” non hanno sortito gli effetti annunciati, anzi, hanno ancor più depresso la domanda e spinto sempre più la Penisola nel baratro che essa stessa si sta scavando.
Dire che il taglio della spesa pubblica in un periodo di crisi galoppante e disoccupazione ai massimi livelli rappresenta un suicidio non è eterodossia ma l'alfabeto della macroeconomia.
Fig. 1
La riduzione della spesa viene presentata come premessa per permettere la crescita economica.
La scuola neoliberista classica caldeggia una parallela riduzione della pressione fiscale in modo da incentivare i consumi e quindi la produzione. In realtà questa è soltanto un'ipotesi irrealistica. Durante una fase depressiva una riduzione delle tasse non rappresenterebbe, di per sé, un incentivo alla domanda aggregata. Aumenterebbe, semmai, il tasso di risparmio, e sarebbe liquidità sottratta al circuito economico e perciò stagnante. Ma lo stesso concetto che è implicito in una simile proposta è qualcosa di profondamente errato. Che una semplice ridefinizione del bilancio dello stato, lasciandolo però quantitativamente immutato, possa comportare una crescita del Pil è aritmeticamente impossibile. Solo a una crescita del deficit dello stato, come propugna la Modern Money Theory, può corrispondere un saldo positivo del settore privato. Pertanto spostare le uscite dello stato dalla spesa verso alleggerimenti fiscali dal punto di vista contabile non aggiunge un centesimo. Esso si rivela, anzi controproducente, perché è provato che il moltiplicatore della spesa sia superiore a quello delle tasse. Le fasce più deboli sono esenti da imposte e per quelle più ricche si tratterebbe di un aumento di capitali finanziari che non intaccherebbe il livello dei consumi. Per la stessa ragione, anche pensare di aumentare il deficit usando la sola leva fiscale potrebbe non dare risultati. Certo, è innegabile che il livello di imposizione fiscale in Italia sia eccessivamente elevato e vada ridotto. Ma ciò può essere efficace solo in concomitanza con un quantomeno identico incremento della spesa dello stato.
Fig. 2
Esiste, tuttavia, un'altra versione di questa retorica che chiede di ridurre le cosiddette “spese inutili” ovvero quelle per il funzionamento dell'apparato burocratico statale e per la retribuzione degli amministratori. Peccato, però, che che i cosiddetti “costi della politica” siano soltanto una parte insignificante dell'intera spesa che lo stato è costretto a sostenere (Fig. 3). E del resto neanche in questo caso ci si può sottrarre alla logica della contabilità che asserisce come uno spostamento di risorse non può essere mai un'aggiunta.
L'unica vera crescita può derivare, in un periodo di crisi, da un solo fattore, lo Stato.
Non è riducendone il peso che si consente ai mercati di espandersi come vorrebbe la propaganda neoliberista. È, al contrario, soltanto la spesa pubblica che può interrompere il ciclo depressivo instauratosi.
Un aumento delle assunzioni nella pubblica amministrazione (in direzione, dunque, diametralmente opposta rispetto alla linea seguita dell'attuale governo) un piano nazionale di opere pubbliche, il miglioramento dei trasporti e della rete viaria (al di là del clamore di isolate e inutili opere faraoniche) il miglioramento dei servizi, la nazionalizzazione dei comparti industriali strategici, sarebbero i provvedimenti che potrebbero mettere fine alla spirale recessiva.
Fig. 3
Ma contro tutto questo, oltre che una tanto diffusa quanto annosa retorica, vi è l'ostacolo dei trattati europei e della moneta unica che impediscono qualsiasi aumento di deficit e una politica anticiclica.
Bisogna mettere in guardia dai falsi profeti. Se ripresa ci sarà potrà venire soltanto da un innalzamento significativo del disavanzo pubblico e da un aumento della spesa pubblica oggi ridotta ai minimi termini.



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