30 giu 2017

La squallida festività del centro commerciale*

“Aperto anche a Pasqua” è la scritta che molti hanno potuto leggere all’ingresso di molti negozi in tutta Italia, e che vedranno sempre più spesso negli anni a venire.
Ma i lavoratori dell’outlet di Serravalle Scrivia non erano d’accordo. Così due cortei hanno bloccato le entrate, per impedire l’accesso a imperterriti clienti decisi a trascorrere un giorno di festa, uno degli ultimi ancora liberi dallo sfruttamento, nel tempio del consumo. Ma a quanto pare ad alcuni irriducibili consumatori non sono bastati neanche i picchetti e gli insulti dei manifestanti per convincersi a desistere.
Molti lavoratori non hanno partecipato alla protesta, e perché costretti dai capi, e perché rassegnati a una vita sacrificata sull’altare del Dio Capitale. E la rassegnazione emerge dalle parole del sindaco del paese, che su di essa ha trovato motivo di lucro, economico ed elettorale: “Siamo in un’economia di mercato” dice “Io comunque non avrei potuto fare nessuna ordinanza per chiudere, anche perché siamo zona turistica”. Il centro commerciale porta soldi e turisti, e l’economia urbana non può che giovarne. “Siamo in un’economia di mercato”, è il capitalismo, bellezza!
Le liberalizzazioni degli orari hanno progressivamente ridotto il tempo libero (dove “libero” deve intendersi non soltanto come non occupato dal lavoro individuale ma nemmeno dal consumo). Prima si è cominciato ad aprire i supermercati saltuariamente di domenica, poi si è approdati all’apertura domenicale fissa, infine si è passati ad aperture eccezionali a Natale, a Pasqua, a Capodanno. Persino il 25 aprile, la Festa della Liberazione e il Primo Maggio, Festa dei Lavoratori, quasi con una triste e cinica ironia. Alcune grandi catene hanno addirittura pensato di introdurre l’apertura di ventiquattro ore, sull’esempio degli Stati Uniti, dove ormai è da tempo una prassi consolidata. L’Italia in questo campo, come direbbero i cantori del “progresso” neoliberale, non è “rimasta indietro”: siamo l’unico paese in Europa a non aver nessun tipo di restrizione sugli orari degli esercizi commerciali. E laddove esistono ancora lavoratori recalcitranti ci pensano i contratti flessibili e la minaccia dei licenziamenti “facili” a far loro cambiare idea.
Il valore di scambio colonizza tempi e spazi. Lavora di più, chi può lavorare, perché chi non lavora abbassi le pretese e non sia troppo “choosy”, come diceva un ex ministro in lacrime; e tutti quanti, poi, consumano. E perché questo avvenga nuovi spazi devono essere strappati alla vita comunitaria, a ciò che ne rimane, o alle rare nicchie di ambiente non ancora urbanizzato, per essere messi a profitto dalla produzione-consumo. Supermercati, grandi catene, negozi che contengono altri negozi al loro interno come scatole cinesi, vere e proprie città consumistiche, l’ultima frontiera della grande distribuzione.
L’outlet di Serravalle Scrivia è una delle tante cittadine commerciali – la più grande d’Europa – dove la gente può passeggiare, girando per i negozi attaccati l’uno all’altro, scorrendo di vetrina in vetrina, arrivando a mani vuote e andandosene, al calar del sole, carica di buste gonfie di merce acquistata in saldo. È l’esemplificazione perfetta di come il capitalismo abbia colonizzato tutti gli spazi e tutti i tempi di esistenza, e di conseguenza l’immaginario e le (in)coscienze. Probabilmente, molti di coloro che la domenica sono immersi nella gioia effimera della liturgia consumistica, il giorno dopo dovranno tornare a lavorare in un altro centro del consumo. Turni massacranti, contratti flessibili, con la minaccia del licenziamento o del mancato rinnovo, che il capitalismo postmoderno costringe ad accettare quasi con un senso di colpa, perché il lavoro è poco e chi ce l’ha deve essere grato e non fare tante storie. Ma quando non si lavora non si riesce a fare nient’altro che far lavorare altri, i quali producono non per quello di cui la società umana abbisogna, ma perché altri possano consumare. E tutto si svolge in questa turnazione, dove il lavorare-per-il-consumo si alterna al consumo: il valore di scambio forgia per intero le nostre vite. Si arriva al paradosso che se anche esistessero turni e orari più umani, molti non saprebbero che farsene, se non trascorrere il tempo in qualche grande catena, in un fast-food o in un parco divertimenti, con tutta la famiglia al seguito. Perché la colonizzazione dei luoghi e dei tempi non è qualcosa di meramente negativo, che sottrae ai luoghi e ai tempi liberi, ma è la loro modulazione, definizione, la loro stessa creazione e ideazione.
Un esempio illuminante è la mutazione della piazza – e l’Italia urbana, si può dire, si è fondata sulla piazza. Da centro e fulcro della vita pubblica cittadina sia religiosa (la chiesa) che laica (Il Comune, la Prefettura, ecc.) a non-luogo, simulacro di se stesso per attrarre turisti. La piazza, nella postmodernità, ha perduto la sua centralità come luogo della vita comunitaria e politica della popolazione urbana (anche perché praticamente non esiste più una vita comunitaria e politica). Le piazze d’Italia, nella loro magnificenza ereditata dal passato, sono state riadattate a luogo di semplice transito pedonale, “appoggio” per i locali, i bar e i ristoranti che vi si affacciano invadendola con i loro tavolini, cartoline turistiche, parcheggi (a pagamento) dove depositare l’auto per recarsi a lavorare o a consumare. Non più centri del pubblico, del collettivo e del politico, ma propaggini del mercato, del profitto e dell’individualistico.
Non bastano, quindi, le sacrosante rivendicazione lavorative, soltanto simulate dai sindacati e di cui oggi ci sarebbe bisogno urgente; per sfuggire alla morte civile e ripensare a un’autentica ribellione alla costellazione capitalistica odierna bisogna ridefinire gli spazi e i tempi, modellati dalle esigenze del profitto e del consumo, sulla base di istanze non consumistiche e non capitalistiche, di vita associata e di politica intesa nel suo più alto significato.









*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente

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