31 mag 2017

Carità di Stato*

Lo hanno chiamato “Reddito di inclusione” il contributo del governo per le famiglie al di sotto della soglia di povertà assoluta, che dovrà sostituire il precedente “Sostegno per l’inclusione attiva”. Al di là del lessico, si tratta di qualche leggero ritocco che lascia inalterata la sostanza.
Rimane la concezione dell’assistenza pubblica come “carità di Stato” che ha sostituito lo Stato sociale. Si tratta di un contributo che potrà servire soltanto, nel migliore dei casi, ad alleviare la condizione di sofferenza di una parte ristretta di popolazione, senza però mutare di una virgola gli equilibri economici.
Già il nome tradisce una falsa coscienza dei suoi propugnatori, infatti l’“inclusione” che viene proclamata come scopo del sussidio, il quale dovrebbe mirare al reinserimento nel lavoro, non si dà poi concretamente; sono del tutto assenti politiche per il lavoro, per la riduzione della disoccupazione e per l’aumento dei salari. Se permangono le condizioni che determinano uno dei livelli di disoccupazione più alti di tutta la storia dell’Italia repubblicana non si capisce in che modo il contributo dovrebbe “includere” i poveri a cui sarebbe destinato.
Per di più, nel frattempo, il governo intende tagliare la spesa: quindi da un lato si dà denaro ai poveri, dall’altro glielo si toglie attraverso la contrazione dei servizi pubblici. È il solito gioco a somma zero (se non addirittura in positivo per il bilancio pubblico e in negativo per l’economia, in ossequio alle norme del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact) che sposta fondi da una parte all’altra.
Il “Reddito di inclusione” è solo una delle tante varianti di integrazione del reddito. Questa si basa su tre impliciti assunti, ovvero: a) che permarrà sempre un certo livello di disoccupazione, b) che ci sarà sempre una fascia di popolazione con un reddito insufficiente e c) che la povertà e la disoccupazione saranno, per questa fascia di popolazione, caratteri cronici.
Poiché i suddetti tre punti sono considerati “naturali” e imprescindibili, lo Stato deve rinunciare a contrastarli, limitandosi ad attutirne gli effetti. È più o meno lo stesso concetto alla base dei cosiddetti “ammortizzatori sociali” del social-liberismo: invece che garantire la sicurezza e condizioni minime per i lavoratori lo Stato può solo “ammortizzare” i danni provocati dal mercato sregolato. Si osservi che ciascuno dei precedenti tre punti corrisponde a un preciso interesse delle classi capitalistiche, cui lo Stato dichiara implicitamente di non opporsi e anzi di dare pieno spazio: per quanto riguarda a), infatti, come sapeva bene Marx, il capitale ha bisogno di un “esercito industriale di riserva”, una massa enorme di disoccupati cui attingere all’occorrenza. Inoltre un alto livello di disoccupazione rende i lavoratori deboli contrattualmente di fronte alle richieste dei capitalisti. Infine b) e c) corrispondono a rapporti economici totalmente sbilanciati a favore del profitto in assenza di tutele giuridiche per i lavoratori e le fasce più deboli e quindi di costrizioni per il capitale. In altre parole, l’integrazione del reddito è l’accettazione dei rapporti capitalistici, in particolare nella loro versione neoliberista.
Un altro esempio di integrazione del reddito è la Legge Hartz tedesca, voluta dai socialdemocratici e applicata anche dai conservatori. Essa prevede l’obbligo per il sussidiato di accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione, pena la perdita del sussidio. In questo caso la variante tedesca determina anche, oltre che la sanzione di dati rapporti capitalistici a favore del capitale, l’arretramento delle condizioni salariali, poiché mina ulteriormente il potere negoziale dei lavoratori: l’imprenditore è libero di rifiutare di assumere il prestatore di lavoro, ma quest’ultimo è costretto ad accettare qualsiasi impiego; il lavoratore è sempre esposto alla costrizione del bisogno, ma in questo caso si aggiunge una nuova costrizione, cioè il ricatto dello Stato.
Questo punto della legge Hartz, bisogna notare, è ripreso in numerose formulazioni del Reddito di Cittadinanza, che è la variante più famosa e punto principale del programma economico del Movimento Cinque Stelle (ma non solo). Il Reddito di Cittadinanza è un sussidio che dovrebbe estendersi o a tutti, oppure, un po’ meno irrealisticamente, a tutti i disoccupati. Tuttavia nella sua essenza non muta e prevede sempre l’accettazione del quadro economico dato. Non è un caso se il dibattito pubblico sull’integrazione del reddito, soprattutto sul Reddito di Cittadinanza, è diventato centrale solo in una fase storica in cui il capitale è in una condizione di massima forza e il lavoro in una di massima debolezza.
Può sembrare strano, oggi che anche la sinistra ha assunto l’integrazione de reddito, in tutte le sue varie forme, come il faro del proprio orientamento programmatico sull’economia e sul lavoro, ma Friedrich Von Hayek, il massimo teorico del neoliberismo, ne parlava già e ne auspicava l’introduzione, non per scopi filantropici (che in realtà, come si è visto, nascondono una falsa coscienza)  ma perché “i poveri non raggiungano un grado di disperazione tale da rappresentare un pericolo fisico per le classi ricche”. Quello che spinge Hayek a proporre un sussidio di povertà è una concezione integralmente di classe. Non si tratta di eliminare la povertà, cui Hayek, come qualsiasi liberista (che sia col suffisso liberal- o social-) non è interessato, ma di impedire che i poveri sprofondino in una condizione tale da alimentare un malcontento sociale foriero di instabilità politica, quando non addirittura di una rivoluzione o un “pericolo fisico” per le classi dominanti.
E qui veniamo all’ultimo scopo dell’integrazione del reddito, che è, come gli altri tre, di classe, ma a differenza di essi principalmente politico: il controllo delle classi subalterne e la difesa delle condizioni politiche di conservazione del capitalismo.
Da quanto detto emerge come l’integrazione del reddito, in tutte le sue forme, non miri affatto a ridurre la disoccupazione o la povertà come dichiara, ma serva soltanto a sancire rapporti economici capitalistici in una condizione di forza per il capitale, sia dal punto di vista economico che politico. Che più o meno tutte le grandi formazioni politiche italiane lo abbiano incluso nel loro programma dovrebbe essere un dato molto indicativo.















*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente



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