Lo
hanno chiamato “Reddito di inclusione” il contributo del governo per le famiglie al
di sotto della soglia di povertà assoluta, che dovrà sostituire il precedente “Sostegno
per l’inclusione attiva”.
Al di là del lessico, si tratta di qualche leggero ritocco che lascia
inalterata la sostanza.
Rimane
la concezione dell’assistenza pubblica come “carità di Stato” che ha sostituito
lo Stato sociale. Si tratta di un contributo che potrà servire soltanto, nel
migliore dei casi, ad alleviare la condizione di sofferenza di una parte
ristretta di popolazione, senza però mutare di una virgola gli equilibri
economici.
Già
il nome tradisce una falsa coscienza dei suoi propugnatori, infatti
l’“inclusione” che viene proclamata come scopo del sussidio, il quale dovrebbe
mirare al reinserimento nel lavoro, non si dà poi concretamente; sono del tutto
assenti politiche per il lavoro, per la riduzione della disoccupazione e per
l’aumento dei salari. Se permangono le condizioni che determinano uno dei
livelli di disoccupazione più alti di tutta la storia dell’Italia repubblicana
non si capisce in che modo il contributo dovrebbe “includere” i poveri a cui
sarebbe destinato.
Per
di più, nel frattempo, il governo intende tagliare la spesa: quindi da un lato si
dà denaro ai poveri, dall’altro glielo si toglie attraverso la contrazione dei
servizi pubblici. È il solito gioco a somma zero (se non addirittura in
positivo per il bilancio pubblico e in negativo per l’economia, in ossequio
alle norme del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact) che sposta fondi da una
parte all’altra.
Il
“Reddito di inclusione” è solo una delle tante varianti di integrazione del
reddito. Questa si basa su tre impliciti assunti, ovvero: a) che permarrà
sempre un certo livello di disoccupazione, b) che ci sarà sempre una fascia di
popolazione con un reddito insufficiente e c) che la povertà e la
disoccupazione saranno, per questa fascia di popolazione, caratteri cronici.
Poiché
i suddetti tre punti sono considerati “naturali” e imprescindibili, lo Stato
deve rinunciare a contrastarli, limitandosi ad attutirne gli effetti. È più o
meno lo stesso concetto alla base dei cosiddetti “ammortizzatori sociali” del
social-liberismo: invece che garantire la sicurezza e condizioni minime per i
lavoratori lo Stato può solo “ammortizzare” i danni provocati dal mercato
sregolato. Si osservi che ciascuno dei precedenti tre punti corrisponde a un
preciso interesse delle classi capitalistiche, cui lo Stato dichiara
implicitamente di non opporsi e anzi di dare pieno spazio: per quanto riguarda
a), infatti, come sapeva bene Marx, il capitale ha bisogno di un “esercito
industriale di riserva”, una massa enorme di disoccupati cui attingere
all’occorrenza. Inoltre un alto livello di disoccupazione rende i lavoratori
deboli contrattualmente di fronte alle richieste dei capitalisti. Infine b) e c)
corrispondono a rapporti economici totalmente sbilanciati a favore del profitto
in assenza di tutele giuridiche per i lavoratori e le fasce più deboli e quindi
di costrizioni per il capitale. In altre parole, l’integrazione del reddito è
l’accettazione dei rapporti capitalistici, in particolare nella loro versione
neoliberista.
Un
altro esempio di integrazione del reddito è la Legge Hartz tedesca, voluta dai
socialdemocratici e applicata anche dai conservatori. Essa prevede l’obbligo
per il sussidiato di accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione, pena la
perdita del sussidio. In questo caso la variante tedesca determina anche, oltre
che la sanzione di dati rapporti capitalistici a favore del capitale, l’arretramento
delle condizioni salariali, poiché mina ulteriormente il potere negoziale dei
lavoratori: l’imprenditore è libero di rifiutare di assumere il prestatore di
lavoro, ma quest’ultimo è costretto ad accettare qualsiasi impiego; il
lavoratore è sempre esposto alla costrizione del bisogno, ma in questo caso si
aggiunge una nuova costrizione, cioè il ricatto dello Stato.
Questo
punto della legge Hartz, bisogna notare, è ripreso in numerose formulazioni del
Reddito di Cittadinanza, che è la variante più famosa e punto principale del
programma economico del Movimento Cinque Stelle (ma non solo). Il Reddito di
Cittadinanza è un sussidio che dovrebbe estendersi o a tutti, oppure, un po’
meno irrealisticamente, a tutti i disoccupati. Tuttavia nella sua essenza non
muta e prevede sempre l’accettazione del quadro economico dato. Non è un caso
se il dibattito pubblico sull’integrazione del reddito, soprattutto sul Reddito
di Cittadinanza, è diventato centrale solo in una fase storica in cui il
capitale è in una condizione di massima forza e il lavoro in una di massima
debolezza.
Può
sembrare strano, oggi che anche la sinistra ha assunto l’integrazione de
reddito, in tutte le sue varie forme, come il faro del proprio orientamento
programmatico sull’economia e sul lavoro, ma Friedrich Von Hayek, il massimo teorico
del neoliberismo, ne parlava già e ne auspicava l’introduzione, non per scopi
filantropici (che in realtà, come si è visto, nascondono una falsa
coscienza) ma perché “i poveri non raggiungano un grado di disperazione
tale da rappresentare un pericolo fisico per le classi ricche”. Quello che spinge
Hayek a proporre un sussidio di povertà è una concezione integralmente di
classe. Non si tratta di eliminare la povertà, cui Hayek, come qualsiasi
liberista (che sia col suffisso liberal- o social-) non è interessato, ma di
impedire che i poveri sprofondino in una condizione tale da alimentare un
malcontento sociale foriero di instabilità politica, quando non addirittura di
una rivoluzione o un “pericolo fisico” per le classi dominanti.
E qui veniamo all’ultimo scopo dell’integrazione
del reddito, che è, come gli altri tre, di classe, ma a differenza di essi
principalmente politico: il controllo delle classi subalterne e la difesa delle
condizioni politiche di conservazione del capitalismo.
Da quanto detto emerge come l’integrazione del
reddito, in tutte le sue forme, non miri affatto a ridurre la disoccupazione o
la povertà come dichiara, ma serva soltanto a sancire rapporti economici
capitalistici in una condizione di forza per il capitale, sia dal punto di
vista economico che politico. Che più o meno tutte le grandi formazioni
politiche italiane lo abbiano incluso nel loro programma dovrebbe essere un
dato molto indicativo.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
Immagine tratta da: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=127101
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