La nuova epoca
detta postmodernità (o seconda modernità o surmodernità o
modernità liquida, o comunque si voglia chiamarla) si caratterizza
per una privatizzazione delle diverse istanze. “Privatizzazione”
non deve intendersi soltanto in senso tecnico-economico, ma fa
riferimento alla più generale tendenza della società a delegare
all'ambito privato quelli che un tempo erano prerogative del
pubblico. Questa tendenza potrebbe essere riassunta nella ricerca,
secondo l'efficace espressione di Ulrich Beck, di “soluzioni
biografiche a contraddizioni sistemiche”.
L'individuo non
dispone degli strumenti per risolvere i problemi che lo attanagliano,
ma su di lui viene comunque scaricato tutto il peso di essi. Mentre
in passato, nella “modernità solida” come la definisce Bauman,
era possibile una politicizzazione dei problemi, uno spazio pubblico
nel quale trasporre su un piano di interesse collettivo le questioni
che si ponevano di fronte agli individui, col passaggio alla
“modernità liquida” questa possibilità viene a mancare, e anzi,
sono le questioni pubbliche a essere delegate alla sfera privata.
L'assenza
di “metanarrazioni” annunciata da Lyotard e il “pensiero
debole” preconizzato da Vattimo e Rovatti, intendevano evidenziare
le condizioni per una disarticolazione della differenza dalla
metafisica e dalla “totalità”. Bisogna constatare che
l'“indebolimento” invocato dai postmodernisti si è per molti
versi realizzato. Oggi assistiamo alla scomparsa di un telos,
un fine universale perseguibile collettivamente, sostituito da tanti
piccoli scopi individuali a breve e brevissimo termine. Viene a
cadere l'idea di un sapere unitario e con essa non soltanto una
sistematizzazione ideologica funzionale al potere ma anche ogni
discorso emancipativo. Questo processo non è stato, però,
“liberatorio”, non ha prodotto la soppressione della violenza del
sistema ai danni del “dimenticato” della storia, ma ne ha
soltanto mutato la forma.
Gli
incubi della vecchia modernità erano costituito dalla prospettiva di
un potere autocratico, totalitario, tentacolare, dotato grazie alla
tecnica di una capacità illimitata di controllo e che intrappolasse
l'individuo in una morsa di ferro. Queste paure moderne sono state
immortalate nei romanzi di Orwell e di Huxley che costituiscono il
prototipo del massimo potere del tempo. L'immagine che forse meglio
riassume questo stato di cose è quella del Panottico,
il carcere ideato da Bentham e preso a modello da Foucault come
metafora del potere.
Oggi il potere è
tutto meno che panottico. Non è il Socing di Orwell e non è il
fordismo di Huxley.
Se
c'è una metafora capace di caratterizzare il potere odierno è forse
il rizoma
di Deleuze e Guattari. Esso si contrappone al modello ad albero, cioè
un centro ramificato; nel rizoma ogni punto può essere in
collegamento con un altro qualunque. Non ordini ed esecuzioni (o
perlomeno non in modo esclusivo e indispensabile) ma
“concatenamenti”. Non si fonda sul divieto e sulla repressione
(non che questi smettano di esistere, ma smettono di essere
inevitabili e in alcuni casi sono addirittura di intralcio al potere
che cerca di sbarazzarsene) ma sul potenziamento e la proliferazione
di pulsioni e capricci, e almeno in ciò la distopia huxleyana coglie
un elemento di verità. Il potere odierno si deterritorializza, non
ha più un centro amministrativo, non ha mura e prigioni fisiche da
presidiare. Esso anzi sfugge alla fisicità. La dimensione del
capitalismo “solido” era la fabbrica fordista; in questa
dimensione il potere era agganciato ai suoi subalterni. E questi
ultimi a loro volta trovavano occasione di sviluppare una coscienza
comune, un'opposizione e una strategia emancipativa. Nel capitalismo
finanziario globalizzato non è più la fabbrica il fulcro del
potere, ma l'impalpabilità di mercati trasversali. Il potere non è
fisso in un luogo, non è situato, ma si muove di continuo, tocca
istantaneamente e simultaneamente ogni punto dello spazio, non ne
occupa una data porzione. Le condizioni di omogeneità della fabbrica
fordista così vengono meno, sostituite da una differenziazione per
cui gli individui gettati nella competizione globale non riescono a
fare fronte comune. Ciò non significa che si possa fare a meno di
qualsiasi concetto di “totalità”, ma che questo si articola in
modo diverso. Il decentramento – ma sarebbe forse più corretto
dire “a-centramento” – riguarda lo spazio fisico, mentre
prosegue in modo esponenziale la concentrazione del capitale già
descritta da Marx e l'espansione dei gruppi dominanti.
Viene
richiesto all'individuo di perseguire scopi immediati, di ricercare
la soddisfazione rapida agli impulsi, invece di dialettizzare la
propria insoddisfazione in un destino comune e in una prassi
politica. Per questo si predica la fine delle “grandi narrazioni”.
Il potere che essendo mobile non ha più bisogno di un baricentro
stabile ma di vie di
fuga,
può rinunciare a un'ideologia strutturata, una teoria del tutto. I
gruppi dominati, invece, privati del discorso emancipativo che si
costituisce su un'idea di totalità, su una strutturazione del
pensiero e su una dicotomia, si trovano frammentati, disgregati e
scomposti, incapaci di far fronte alle pressioni che subiscono da più
direzioni.
Lo vediamo con i vari movimenti, i No Global, i No Tav, i movimenti
contro la guerra, si realizzano sempre resistenze locali,
disarticolate; ma non è possibile trovare una coordinazione e un
mutualismo fondati sulla comunanza di interessi che solo teoria e
prassi emancipatrici collettive e unitarie potrebbero permettere.
La
necessità della politica oggi è affidata, in modo esclusivo,
all'emancipazione. Ciò non solo perché la politica (intesa come
categoria dell'azione umana) è per la prima volta nella storia
all'opposizione; ma anche perché non può darsi politica nella
retorica pragmatica di questi tempi. La politica, per essere tale,
deve riappropriarsi dei sui luoghi e dei suoi siti, quali l'agorà,
cioè uno spazio pubblico di incontro-scontro intorno a scopi
collettivi, e lo Stato, unico possibile strumento di
de-privatizzazione del sociale, per mirare a una costruzione in
fieri
e mai presupposta di una identità condivisa. Solo in questo modo
sarà possibile sottrarre l'individuo all'angoscia del presente,
l'assenza di punti di riferimento e l'illusione della scelta
consumistica.
*Pubblicato anche su Millennials Press
Immagine tratta da: http://www.si24.it/2015/06/17/maturita-2015-edward-hopper-chair-car/95660/
Nessun commento:
Posta un commento