31 lug 2016

Quale politica nella postmodernità?*

La nuova epoca detta postmodernità (o seconda modernità o surmodernità o modernità liquida, o comunque si voglia chiamarla) si caratterizza per una privatizzazione delle diverse istanze. “Privatizzazione” non deve intendersi soltanto in senso tecnico-economico, ma fa riferimento alla più generale tendenza della società a delegare all'ambito privato quelli che un tempo erano prerogative del pubblico. Questa tendenza potrebbe essere riassunta nella ricerca, secondo l'efficace espressione di Ulrich Beck, di “soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche”.
L'individuo non dispone degli strumenti per risolvere i problemi che lo attanagliano, ma su di lui viene comunque scaricato tutto il peso di essi. Mentre in passato, nella “modernità solida” come la definisce Bauman, era possibile una politicizzazione dei problemi, uno spazio pubblico nel quale trasporre su un piano di interesse collettivo le questioni che si ponevano di fronte agli individui, col passaggio alla “modernità liquida” questa possibilità viene a mancare, e anzi, sono le questioni pubbliche a essere delegate alla sfera privata.
L'assenza di “metanarrazioni” annunciata da Lyotard e il “pensiero debole” preconizzato da Vattimo e Rovatti, intendevano evidenziare le condizioni per una disarticolazione della differenza dalla metafisica e dalla “totalità”. Bisogna constatare che l'“indebolimento” invocato dai postmodernisti si è per molti versi realizzato. Oggi assistiamo alla scomparsa di un telos, un fine universale perseguibile collettivamente, sostituito da tanti piccoli scopi individuali a breve e brevissimo termine. Viene a cadere l'idea di un sapere unitario e con essa non soltanto una sistematizzazione ideologica funzionale al potere ma anche ogni discorso emancipativo. Questo processo non è stato, però, “liberatorio”, non ha prodotto la soppressione della violenza del sistema ai danni del “dimenticato” della storia, ma ne ha soltanto mutato la forma.
Gli incubi della vecchia modernità erano costituito dalla prospettiva di un potere autocratico, totalitario, tentacolare, dotato grazie alla tecnica di una capacità illimitata di controllo e che intrappolasse l'individuo in una morsa di ferro. Queste paure moderne sono state immortalate nei romanzi di Orwell e di Huxley che costituiscono il prototipo del massimo potere del tempo. L'immagine che forse meglio riassume questo stato di cose è quella del Panottico, il carcere ideato da Bentham e preso a modello da Foucault come metafora del potere.
Oggi il potere è tutto meno che panottico. Non è il Socing di Orwell e non è il fordismo di Huxley.
Se c'è una metafora capace di caratterizzare il potere odierno è forse il rizoma di Deleuze e Guattari. Esso si contrappone al modello ad albero, cioè un centro ramificato; nel rizoma ogni punto può essere in collegamento con un altro qualunque. Non ordini ed esecuzioni (o perlomeno non in modo esclusivo e indispensabile) ma “concatenamenti”. Non si fonda sul divieto e sulla repressione (non che questi smettano di esistere, ma smettono di essere inevitabili e in alcuni casi sono addirittura di intralcio al potere che cerca di sbarazzarsene) ma sul potenziamento e la proliferazione di pulsioni e capricci, e almeno in ciò la distopia huxleyana coglie un elemento di verità. Il potere odierno si deterritorializza, non ha più un centro amministrativo, non ha mura e prigioni fisiche da presidiare. Esso anzi sfugge alla fisicità. La dimensione del capitalismo “solido” era la fabbrica fordista; in questa dimensione il potere era agganciato ai suoi subalterni. E questi ultimi a loro volta trovavano occasione di sviluppare una coscienza comune, un'opposizione e una strategia emancipativa. Nel capitalismo finanziario globalizzato non è più la fabbrica il fulcro del potere, ma l'impalpabilità di mercati trasversali. Il potere non è fisso in un luogo, non è situato, ma si muove di continuo, tocca istantaneamente e simultaneamente ogni punto dello spazio, non ne occupa una data porzione. Le condizioni di omogeneità della fabbrica fordista così vengono meno, sostituite da una differenziazione per cui gli individui gettati nella competizione globale non riescono a fare fronte comune. Ciò non significa che si possa fare a meno di qualsiasi concetto di “totalità”, ma che questo si articola in modo diverso. Il decentramento – ma sarebbe forse più corretto dire “a-centramento” – riguarda lo spazio fisico, mentre prosegue in modo esponenziale la concentrazione del capitale già descritta da Marx e l'espansione dei gruppi dominanti.
Viene richiesto all'individuo di perseguire scopi immediati, di ricercare la soddisfazione rapida agli impulsi, invece di dialettizzare la propria insoddisfazione in un destino comune e in una prassi politica. Per questo si predica la fine delle “grandi narrazioni”. Il potere che essendo mobile non ha più bisogno di un baricentro stabile ma di vie di fuga, può rinunciare a un'ideologia strutturata, una teoria del tutto. I gruppi dominati, invece, privati del discorso emancipativo che si costituisce su un'idea di totalità, su una strutturazione del pensiero e su una dicotomia, si trovano frammentati, disgregati e scomposti, incapaci di far fronte alle pressioni che subiscono da più direzioni.
Lo vediamo con i vari movimenti, i No Global, i No Tav, i movimenti contro la guerra, si realizzano sempre resistenze locali, disarticolate; ma non è possibile trovare una coordinazione e un mutualismo fondati sulla comunanza di interessi che solo teoria e prassi emancipatrici collettive e unitarie potrebbero permettere.
La necessità della politica oggi è affidata, in modo esclusivo, all'emancipazione. Ciò non solo perché la politica (intesa come categoria dell'azione umana) è per la prima volta nella storia all'opposizione; ma anche perché non può darsi politica nella retorica pragmatica di questi tempi. La politica, per essere tale, deve riappropriarsi dei sui luoghi e dei suoi siti, quali l'agorà, cioè uno spazio pubblico di incontro-scontro intorno a scopi collettivi, e lo Stato, unico possibile strumento di de-privatizzazione del sociale, per mirare a una costruzione in fieri e mai presupposta di una identità condivisa. Solo in questo modo sarà possibile sottrarre l'individuo all'angoscia del presente, l'assenza di punti di riferimento e l'illusione della scelta consumistica.








*Pubblicato anche su Millennials Press



Immagine tratta da: http://www.si24.it/2015/06/17/maturita-2015-edward-hopper-chair-car/95660/

Nessun commento:

Posta un commento