La vicenda che ha coinvolto il sindaco
Marino è solo l'ultimo caso in cui i sospetti nei confronti
dell'integrità morale di un politico vengono usati come pretesto per
esautorarlo da una carica o persino determinare la fine della sua
carriera.
L'esempio più clamoroso è
probabilmente l'indagine di “Manipulite” e la cosiddetta
“tangentopoli”, una poderosa campagna mediatico-giudiziaria
attraverso la quale un intero ceto politico è stato letteralmente
spazzato via.
L'origine del processo che ha portato a
un vero e proprio colpo di stato giudiziario, va rintracciata nella
strategia di una parte dell'opposizione politica, in particolare
quella delle linee dirigenti miglioriste e berlingueriane, assieme ai
“riciclati” di tutti gli altri partiti, che per rovesciare il
potere governativo fino ad allora vigente hanno “personalizzato”
il conflitto politico. Non si trattava più, quindi, di affermare un
diverso modello di società contrapposto a quello in vigore, ma di
sostituire i singoli individui che controllavano lo Stato. In altre
parole, il PCI (poi PDS) non mirava più al rovesciamento dei
rapporti economici e nemmeno (lo si vedrà nel corso dei governi di
centrosinistra) alle migliorie sociali della più tiepida
socialdemocrazia. Entrambi questi appartenevano al passato del
Partito Comunista Italiano. La nuova mira delle future classi
politiche dirigenti era la conquista del potere politico. La sinistra
doveva scrollarsi di dosso quell'aura di sconfitta onorevole e
tentare con ogni mezzo la scalata. La storia, perciò, non doveva
essere più interpretata, ma osservata in modo passivo, limitandosi a
prendere atto degli avvenimenti senza cercare di criticarli. Questo
processo, va detto, interessò anche la sinistra socialdemocratica di
altri paesi europei. Ma in Italia esso assunse una coloritura
particolare, moralistica. Poiché il capitalismo si affermava come
unico sistema sociale esistente, la critica sociale doveva essere
sostituita dalla denuncia degli abusi del potere. Ma non una denuncia
che comportasse una critica sociale, e che quindi contestasse le
fondamenta stesse di tale sistema, bensì che si limitasse ad accuse
personali contro certi esponenti del ceto dirigente. Questi esponenti
erano quelli poco graditi al capitale globale, il quale aveva tutto
l'interesse a sbarazzarsene. Le accuse personali, volte a screditare
e a distruggere la reputazione del malcapitato, erano di natura
morale. La moralità privata diveniva il metro attraverso il quale si
giudicava l'operato politico.
La moralità, però, deve interessare
solo le cariche pubbliche. Al potere economico non viene chiesta,
invece, nessuna certificazione della propria onestà. Ecco che, di
conseguenza, tutti gli atti del ceto politico “moralizzato” sono
giustificati in quanto provenienti da “persone al di sopra di ogni
sospetto”. Non importa, poi, se questa “etica di governo” serve
ad assicurare i profitti dei capitalisti.
Le conseguenze della “rivoluzione”
moralistica sono sotto gli occhi di tutti. Le classi dirigenti della
Prima Repubblica (corrotta, sprecona, inefficiente, e altre varie
invettive) garantivano un sistema di protezione sociale diffuso e
alti redditi da lavoro. I loro successori riuscirono a distruggere
tutto ciò, creare disoccupazione, impoverimento e a svendere il
patrimonio pubblico al capitale straniero.
Ma la resistenza a questa strategia di
spoliazione mancò del tutto. Gli italiani erano stati convertiti
alla retorica moralistica, che avevano prontamente sostituito agli
ideali del passato. Avendo perduto, dunque, gli strumenti per
comprendere il disastro sociale consumatosi sotto i loro occhi, e
opporvisi efficacemente, essi hanno sostenuto entusiasticamente la
strategia delle oligarchie che li stava strangolando.
Come spiegare la recessione, la
disoccupazione, il crollo dei salari e delle sicurezze sociali?
Attraverso la disonestà dei politici, cioè attribuendo moventi
particolari e contingenti a fenomeni storici e sociali globali. Ma
proprio questa isteria moralistica, ossessionata dalle auto blu e
dalle paghe di un manipolo di parlamentari, impedisce di individuare
correttamente le reali cause delle questioni più drammatiche. Pone
l'attenzione su un fattore secondario, l'onestà del ceto politico,
privato di ogni reale potere e ridotto al vassallaggio nei confronti
del capitale. In questo modo la spoliazione ha potuto proseguire
incontrastata, mentre intorno infuriava la ignara rivolta
savonaroliana in nome del “mandiamoli tutti a casa”.
Anzi, la restaurazione che ha distrutto
il sistema di tutele sociali ha potuto giovarsi proprio della
pubblicistica antipolitica o “anticasta” del “giornalismo
civile” sostenuta con moti di indignazione da un pubblico
onestamente infuriato. Se il ceto politico è inaffidabile e
corrotto, va messo nelle condizioni di non nuocere e quindi il suo
potere deve essere il più possibile limitato. Di conseguenza tutti
gli interventi della politica in ambito economico vanno drasticamente
ridimensionati.
Un tale moralismo antipolitico è stato
un ottimo alleato per i sostenitori delle privatizzazioni (contro i
“carrozzoni” pubblici visti come fucine di clientele e nepotismo)
dell'autonomia aziendalista, quindi della sottrazione di istituzioni
sociali come la scuola al controllo statale (gli istituti
“responsabili” si amministrerebbero da soli, senza dipendere
dall'“assistenzialismo” dello stato, vendendosi sul mercato come
qualsiasi azienda privata) e dell'austerità dei bilanci governativi
(“abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità”) che
devono essere rigidamente controllati da autorità esterne, magari
anche sovranazionali, per evitare gli sprechi e le ruberie del ceto
politico irresponsabile.
L'inettitudine del ceto politico
attuale non si deve alla sua immoralità. Semmai, il contrario: la
sua immoralità si deve proprio all'incapacità del politico di fare
politica, e di non limitarsi alla semplice testimonianza nel migliore
dei casi e alla dipendenza da altri soggetti nel peggiore. Ma non si
tratta di un'incapacità individuale, dovuta all'esperienza
particolare e all'identità personale del singolo, né tanto meno a
una sorta di intrinseca proprietà nell'esercizio del potere, ma alle
condizioni storiche oggettive nei quali si esercita l'attività
politica.
Smarrita ogni categoria concettuale
adatta a interpretare i fenomeni sociali, smarrito ogni ideale, se
non quello puramente astratto e perciò di per sé senza significato
(giustizia, libertà, democrazia ecc.) rimosso qualsiasi fine
dall'orizzonte dell'azione, eccetto la perpetuazione dell'ordine dato
e l'amministrazione dell'esistente, non rimaneva al “potere”
politico che ripiegarsi su stesso, essere usato come mero trampolino
per carriere e interessi personali.
Anche la politica, per così dire, si
“privatizza”, non è più l'attività organizzata dei gruppi
sociali in conflitto in una dimensione pubblica, ma un coacervo di
guerre personali a suon di scontrini, ricevute fiscali e avvisi di
garanzia, nel quale dei tifosi sostengono l'una o l'altra parte.
La vera questione per i ceti oppressi
non riguarda certo la moralizzazione della politica entro un quadro
socio-economico immutato (non lo è mai stata, in realtà, nella
storia) bensì la restituzione alla politica dei mezzi per
contrastare il potere economico, mezzi che non possono che essere,
inizialmente, culturali: la reintroduzione nel dibattito pubblico,
oggi ridotto a un valore meramente retorico, della critica al
capitalismo e del discorso sui fini collettivi.
*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente
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