30 ott 2015

Un bilancio della sinistra greca contro l'euro

Le elezioni greche hanno decretato la vittoria di Syrizia e la riconferma di Tsipras, ma nello stesso tempo la sfiducia di buona parte degli elettori greci (circa il 45%) che hanno deciso di non votare. I rapporti di forza restano sostanzialmente inalterati rispetto al voto precedente.
Tuttavia poco si è detto riguardo a quei partiti di sinistra che si sono schierati sia contro il governo sia contro l'oligarchia europea, rifiutando l'euro e mettendo in discussione l'Unione Europea.
Syriza si è rivelata un soggetto che svolge una funzione analoga a quella che svolse il PASOK quando era al potere. Ovvero, al di là dei proclami, una forza di centrosinistra che ha avuto il ruolo di portare il consenso dell'elettorato “progressista” alle politiche neoliberiste praticate dai predecessori e volute da Bruxelles e dalla finanza internazionale. In contrapposizione a questo ruolo, il Partito Comunista Greco si è sempre distinto per aver portato avanti un programma anticapitalista senza dimenticare l'opposizione all'euro e alla UE.
Successivamente, con la scissione dell'ala dissidente di Syrizia, è nata una nuova forza, “Unità Popolare”, non soddisfatta dell'accettazione dei memorandum e convinta che in virtù di ciò si renda necessario per la Grecia l'uscita dalla moneta unica europea.
E' ovvio che un partito costruito in fretta poco prima delle elezioni come Unità Popolare, un partito quasi improvvisato, riscuota un consenso così basso. Come è anche chiaro che la bassa affluenza favorisca il partito al potere (e l'Italia ne sa qualcosa). Unità Popolare paga la sua scarsa tempestività, la sua mancanza di coraggio; la rottura con Syriza sarebbe dovuta avvenire molto tempo fa, prima delle precedenti elezioni, quando Syriza cominciava a proporsi come partito di governo pro-establishment ed era ormai chiaro che non avrebbe mai abbandonato l'euro, tanto meno UE e NATO. Invece l'ala sinistra si è fatta illudere dalle parole vaghe di Tsipras. Non ha capito, in tempo, che l'accettazione dell'euro avrebbe
portato necessariamente all'accettazione dei memorandum. E questo è un teorema, non ci sono margini di dubbio (e lo apprenderà probabilmente anche la Spagna nel caso vincesse Podemos). Il problema non sono i memorandum, il problema è l'euro.
La strada, ora, è tutta in salita, perché i greci hanno perso fiducia nella politica, come indica il dato della bassa affluenza. La partita si giocherà ormai alla prossima tornata elettorale. E' probabile che neanche questa maggioranza duri un'intera legislatura. Se le forze della sinistra antieuro sapranno portare avanti una linea coerente, chiara e comprensibile, potranno raccoglierne i frutti.
Il KKE resta sostanzialmente un partito di nicchia. Avrebbe dovuto affermarsi nell'attuale situazione. invece rimane ancorato a quel 5-6%. Ciò è dovuto alla sua incapacità di rilevare le questioni contingenti, rimanendo in un'astrattezza dottrinaria.
Sappiamo che l'uscita dall'euro di per sé non è sufficiente. Tuttavia essa è la precondizione indispensabile per qualsiasi rottura dell'attuale ordine economico. Neanche una svolta socialista è possibile senza il recupero della sovranità monetaria. Quest'ultima, è ovvio, non rappresenta di per sé la soluzione, ma apre ai governi infinite possibilità di intervento (buone o cattive che siano) che ora sono chiuse ermeticamente. Invece i comunisti greci si sono intestarditi nel sostenere che l'uscita dall'euro non basta, come se nello spettro politico greco ci fosse qualcuno che sostenesse ossessivamente il ritorno alla dracma. Ad eccezione di Unità Popolare, che è appena nata, nessuno ha posto questo punto in cima alla propria agenda. Non certo Syriza, che ha ormai accantonato anche quella parvenza di euroscetticismo opportunista che aveva manifestato all'inizio. Lo stesso discorso vale per gli alleati di ANEL. Gli altri partiti, Da Nuova Democrazia al Pasok, sono tutti convintamente europeisti, tranne i fascisti di Alba Dorata, i quali, però, hanno anch'essi riveduto le posizioni iniziali, esprimendo incertezza sulle politiche monetarie.
Contro chi se la prende, allora, il KKE quando sostiene che uscire dall'euro non basta? Sappiamo che è così, ma a cosa serve ribadirlo insistentemente in ogni intervento? Serve solo a confondere i greci e a non esprimere una linea chiara. Se il KKE è l'unico partito contro l'euro, la UE e la NATO fin dal primo momento, avrebbe dovuto far valere pragmaticamente questa sua posizione, mettendola in rilevo. Ciò avrebbe non solo potuto mettere in difficoltà gli "euroscettici moderati", ma per di più avrebbe rimarcato una differenza notevole tra di essi e tutto il restante blocco politico di fatto (attivamente o passivamente) europeista.
Invece il KKE ha perseverato nel sostenere che il male sia il capitalismo, fatto di per sé indubitabile. Il capitalismo, però, non è un'idea astratta, ma un sistema che si manifesta variamente nella concretezza della realtà sociale. L'euro, in Europa, è uno dei suoi strumenti. Come è assurdo pensare di limitarsi a rimuovere l'euro lasciando immutati i rapporti capitalistici, altrettanto lo è pensare di intervenire su quest'ultimi indipendentemente dall'euro. La moneta non è un fatto neutro. I seguaci di Marx dovrebbero saperlo bene.
Unità Popolare, da parte sua, ha finalmente capito che nessun programma di redistribuzione delle ricchezze e a favore delle classi subalterne può essere realizzato all'interno dell'eurozona. Si comincia ad accennare anche una critica dell'Unione Europea, ma senza un chiaro indirizzo, proponendo il referendum come facile compromesso.
Ciò che serve, invece, è una linea chiara, senza incertezze. C'è bisogno di un'opposizione senza titubanze rispetto all'oligarchia europea, e questa deve esercitarsi sia sul piano monetario (euro), sia su quello politico-economico (Unione Europea e applicazione e conseguenze dei trattati) sia su quello militare (NATO). Il governo Tsipras, invece, si è allineato alle élite europee su tutti questi tre punti.
Le nazionalizzazioni, come il sostegno ai salari e ai redditi bassi, sono punti ampiamente condivisibili e auspicabili del programma di Unità Popolare. Ma essi sono destinati a divenire lettera morta (come è accaduto con l'agenda di Syriza) se il primo atto di un nuovo governo non sarà l'uscita immediata dall'euro, il ritorno a una banca centrale sotto controllo governativo e l'emissione di una moneta a tasso di cambio flessibile. È altresì indispensabile il ripudio dell'Unione Europea che vincola a trattati intollerabili per un governo popolare e socialista. Ne sono un esempio il Fiscal Compact o il vincolo del 3% di deficit che impedisce agli stati di incrementare la spesa e quindi di sostenere politiche a favore dei ceti popolari. Queste azioni sicuramente provocheranno la reazione delle oligarchie. È pertanto necessario ritirare l'adesione al Patto Atlantico e cercare il supporto di paesi che ad esso si oppongono, in primis la Russia e la Cina, ma anche tutti gli altri Brics, senza dimenticare i paesi dell'ALBA sudamericana, che già da tempo percorrono la strada dell'antimperialismo.
Se la sinistra antieuropeista greca non riuscirà a fissare e a comunicare con chiarezza un programma di pochi punti che preveda al primo posto l'emissione di moneta nazionale e il ripudio dell'Unione Europea, anche le intenzioni più rivoluzionarie saranno vane e dovrà rassegnarsi alla marginalità politica. Se, invece, saprà trarre una lezione dal proprio fallimento, potrà avvantaggiarsi dalla crisi di consensi che inevitabilmente colpirà il nuovo esecutivo, quando nuovi e più pesanti balzelli verranno imposti al popolo greco dalla Troika, o quando semplicemente l'economia già disastrata sarà ancor più spinta verso il collasso per effetto delle pesantissime condizioni a cui il paese ellenico è stato costretto dalle élite europee e dal governo collaborazionista di Tsipras.


*Pubblicato anche su Total Free Magazine



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