28 feb 2015

I cambiamenti politici in Europa e il caso italiano*

L'Italia ha fama di essere un “laboratorio politico” dove si manifestano in anticipo le tendenze della storia. Eppure oggi la nostra Penisola sembra ferma a tre o quattro anni fa: il Pd partito di maggioranza relativa in un governo di coalizione allargata. Lo spettro parlamentare è composto soltanto da forze organiche al sistema di potere della Seconda Repubblica, fatta eccezione per il Movimento Cinque Stelle. Tolto quest'ultimo, tutte le altre (magari con nomi e sigle diverse) occupano stabilmente le Camere e hanno avuto anche incarichi di governo. Ma ciò che dovrebbe stupire non è tanto questa stabilità del potere politico (nonostante ci si ostini a credere il nostro sistema instabile) quanto il fatto che ad essa non corrisponda una eguale stabilità economica. La linea politica italiana è rimasta sostanzialmente la stessa dagli anni '90, quando vi era tutt'altro contesto. Allora il nostro paese era ancora una delle economie più progredite d'Europa (sebbene si cominciasse già a intravvedere l'inizio del declino imminente). Allo stato attuale, viceversa, l'Italia è stata declassata a membro dei PIIGS, entrando nel novero dei paesi che più soffrono la crisi economica europea dovuta alle politiche di austerità. Tuttavia se negli altri paesi, ugualmente o anche più colpiti, sono nati movimenti e soggetti portatori di diverse istanze, che invocano un rovesciamento della politica economica e un contrasto del neoliberismo, ciò non è accaduto nel nostro paese. Dalla greca Syriza (già al governo) allo spagnolo Podemos fino al neonato partito portoghese Juntos Podemos, passando per lo storico Sinn Fein irlandese, queste forze hanno raggiunto la maggioranza dei consensi o comunque sembrano orientate a un'affermazione positiva.
Sebbene in esse risiedano numerose contraddizioni e delle ambiguità di fondo, hanno tutte posto al centro della loro agenda una proposta più attenta alle classi più deboli, alla riduzione della disoccupazione e all'aumento dei salari. In Italia, invece, la questione è più complessa. Si può certo dire che il Movimento Cinque Stelle sia stato in qualche modo l'archetipo di questi partiti “leggeri”, ovvero dotati di una struttura “liquida” e di una partecipazione più flessibile rispetto ai partiti tradizionali: un tale modello (che però sta mostrando tutte le sue inadeguatezze, come dimostrano le ultime diaspore e scissioni del partito fondato da Grillo) si ritrova ad esempio in nuove forze europee come Podemos. Tuttavia a distinguerlo da esse è il tipo di politica economica e internazionale. Queste “mine vaganti” della politica europea in genere hanno adottato una chiara impostazione antiliberista (no alle privatizzazioni, programma pro-labour) e di critica alla politica estera perseguita sinora dall'Unione Europea (atlantismo intransigente e fedele sottomissione agli interessi americani) giungendo in alcuni casi a ipotizzare anche un'uscita dalla NATO.
Tutto ciò non è proprio del Movimento Cinque Stelle, che pure essendosi schierato contro l'euro (al contrario dei partiti suddetti) non si può dire abbia assunto una posizione chiaramente antiliberista (espressione cioè del movimento nel suo complesso e non soltanto di alcune sue frange). Ha perfino scelto di allearsi, tra i banchi del Parlamento Europeo, con l'UKIP, il partito inglese ultraconservatore e thatcheriano.
Le posizioni dei Cinque Stelle sui temi economici sono molto frammentate. Grillo sul tema è sempre parso ambiguo, avallando disparate interpretazioni. Ciò probabilmente per ragioni storiche. Il MCS nasce in un periodo in cui non ancora si manifestava chiaramente all'opinione pubblica la disfatta dell'austerità europea e l'urgenza di ribaltarne il paradigma, mentre era già assai presente l'insoddisfazione nei confronti del ceto istituzionale. Così tutta la carica di questo partito si è concentrata nella ribellione contro “la casta”. Tale ribellione è praticamente il solo fattore coesivo dei Cinque Stelle. Per il resto si naviga a vista, procedendo in base alle contingenze particolari e alle trovate estemporanee di Grillo.
Ma come mai, è lecito domandarsi, in Italia non è nato un partito simile a quelli di Syriza o di Podemos – i quali, pur ereditando i difetti della mancanza di una chiara struttura teorica e culturale di riferimento (un tempo si chiamava “ideologia” prima che questa parola fosse criminalizzata dai media) hanno assunto una posizione antiliberista e anti-austerità?
In parte, come si è detto, ciò è dovuto al contesto storico in cui nascono i Cinque Stelle, che hanno catalizzato tutta la protesta “antagonista”, per così dire. In parte, anche, per l'assenza cruciale di una sinistra non del tutto compromessa con il sistema di potere vigente. Quel che esisteva della sinistra (che ha partecipato ai governi di centrosinistra) da un lato è riconducibile all'area di SEL, monopolizzata dalla linea vendoliana che ha abdicato pressoché completamente alla critica della società e dell'economica in favore di un'“etica dei diritti” e di istanze di tipo individuale (diritti delle donne, diritti delle minoranze, diritti dei gay, ecc.) dall'altro a quella che faceva capo a Rifondazione Comunista, la quale si è praticamente suicidata per l'incapacità dei suoi dirigenti (cfr. “Leragioni del fallimento storico della sinistra italiana”).
In questo modo quel bacino di consensi è stato o assorbito dal Movimento Cinque Stelle oppure è rimasto fluttuante nella fazione di maggioranza degli astenuti.
Ma se queste sono le ragioni contingenti, bisogna andare alla ricerca delle cause più profonde di questo fenomeno. Esiste infatti un altro più radicale motivo per cui la situazione politica italiana versa in un simile stato. Ed è l'assenza di una classe politica dirigente (d'ora in poi cpd). Può suonare strano in tempi di retorica “anticasta” ma in Italia praticamente non esiste più una cpd da diverso tempo. Con questa espressione deve intendersi un gruppo sociale che ricopre stabilmente incarichi politici (cosa di per sé non dannosa) e che provveda alla direzione delle politiche pubbliche in modo consapevole e come soggetto autonomo. Ovvero che abbia chiaro l'indirizzo a breve e a lungo periodo delle politiche pubbliche e che si ponga come intermediario tra queste e le varie anime della società (poteri esteri o locali, lobby, classi, cittadini). La cpd trova un equilibrio tra le varie istanze, le varie anime sociali e le necessità storiche del momento. Quando essa viene a mancare, una o alcune di queste anime si impongono sulle altre e lo fanno in modo non mediato, dunque dispotico. È precisamente la condizione odierna della Penisola.
Attualmente non abbiamo una cpd, perché è discutibile che siano molto chiare a chi governa (non si confonda la cpd con la sola funzione legiferativa e governativa) le conseguenze a breve e a lungo termine degli atti pubblici intrapresi (salvo, ovviamente, per una ristretta cerchia) e inoltre non esiste un soggetto autonomo dirigenziale. I membri del governo o del Parlamento si limitano semplicemente a ratificare decisioni prese da altri, gruppi di pressione o capi partito, secondo un ordine gerarchico informale ma ben preciso e collaudato. Circa l'80% delle leggi votate dal Parlamento italiano sono l'applicazione delle direttive europee, le quali seguono scrupolosamente le richieste delle lobby. Ciò non significa che anche il restante 20% non sia anch'esso rispondente alla gerarchia.
La distruzione della cpd italiana ha una data: 1992, ovvero l'inizio della vicenda nota alle cronache come “tangentopoli”. Questa distruzione avvenne per via mediatico-giudiziaria e fu mirata: colpì quegli elementi disfunzionali per la rivoluzione gerarchica imminente, ovvero i dirigenti politici il cui ruolo non rispondeva alle esigenti pretese delle élite economiche, in particolare l'area socialista e craxiana e una parte dell'area democristiana; salvò, invece, coloro che si sarebbero piegati alla nuova strategia, i miglioristi del PCI e la “sinistra” DC. Nacque così il “centrosinistra” degli anni '90. La cpd della Prima Repubblica, con tutti suoi limiti, era riuscita ad assicurare crescita economica, bassa disoccupazione, alti salari ed elevati investimenti pubblici. Tutto ciò non collimava con i piani neocapitalistici. Questo golpe giudiziario venne rafforzato da una campagna mediatica di delegittimazione di tutta la cpd italiana (esclusa ovviamente quella che doveva essere salvata). Distrutta la classe politica, si orientava l'opinione pubblica verso il nuovo regime. Di conseguenza, maturò presso gli italiani una diffidenza nei confronti non soltanto degli elementi boicottati della cpd, ma delle stesse politiche pubbliche intraprese grazie ad essi. Spesa pubblica, diveniva sinonimo di sperpero; tutele del lavoro, inutile burocrazia; partecipazioni statali, inefficienza e clientelismo; deficit e debito pubblico, sintomo di corruzione. Fu in quegli anni che si posero le basi per l'austerità. Questa narrazione antistatalista, che non riconosce la necessità del ruolo dello Stato e dei suoi dirigenti politici e che vede nella cpd un gruppo parassitario e corrotto, è ancora oggi largamente accettata. Di essa si è servita il Movimento Cinque Stelle per la sua ascesa, con la sua retorica “anticasta” e “antipolitica”. Così, al partito di Grillo viene naturale attribuire la situazione attuale alla cpd, mentre è piuttosto vero l'esatto contrario: è generata proprio dall'assenza di una cpd. Anche questi partiti europei hanno fatto propria una simile retorica, ma con accenti più blandi e meno totalizzanti di quelli dei Cinque Stelle. L'endemico e strutturale sbilanciamento di questi ultimi rispetto ad essa ne impedisce la piena comprensione dei fenomeni economici e la formulazione di una proposta condivisa contro l'austerità e contro il neoliberismo.


*Pubblicato anche sull'Intellettuale dissidente



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