9 nov 2014

Verso la fine dell'euro?

Secondo un recente sondaggio l'Italia è ormai il paese più euroscettico dell'eurozona; la maggioranza degli italiani non nutre molta fiducia nella moneta unica e auspicherebbe un ritorno a una valuta nazionale. Uno scenario ribaltato rispetto a qualche anno fa in cui il nostro paese era considerato tra i più entusiasti dell'unione monetaria. Contemporaneamente si sta assistendo a un analogo slittamento del ceto dirigente da una difesa sempre più tiepida a una vera e propria critica dell'euro che in alcuni casi giunge al punto da auspicarne la fine. Il Movimento Cinque Stelle, dove già da qualche tempo serpeggiavano posizioni sovraniste, ha abbracciato ormai apertamente la campagna anti-euro, mentre la Lega Nord di Salvini, che guadagna consensi nei sondaggi, ha fatto dell'opposizione a Bruxelles il proprio cavallo di battaglia. Persino nel PD, partito tradizionalmente pro-euro, si fanno largo posizioni sempre più critiche nei confronti dell'area valutaria europea.
Sta diventando chiaro ai più che l'euro così com'è non può reggere a lungo. La rigidità dei vincoli impedisce agli stati di reagire con efficaci politiche anticicliche al collasso economico sempre più incombente. Del resto una riforma o revisione dei trattati appare improbabile, perché si scontrerebbe con gli interessi della casta finanziaria e del governo tedesco, che sono quelli che dettano la linea delle politiche economiche europee. Una riforma dell'eurozona che possa sortire qualche effetto significativo dovrebbe somigliare più a una rivoluzione. Per cominciare agli stati dovrebbero essere concessi limiti di deficit molto più alti di quelli attuali, attraverso i quali ciascun governo possa aumentare la spesa pubblica e ridurre le tasse, in modo da rilanciare la domanda. Per non parlare di misure ancora più rigide, come il Fiscal Compact, che andrebbero semplicemente abolite. Del resto questo provvedimento potrebbe non essere sufficiente per i paesi mediterranei, a causa degli svantaggi competitivi dovuti al cambio fisso. Questo mette costantemente fuori mercato le merci dei paesi dell'Europa del Sud che sono privi della leva valutaria e si trovano così costretti a ridurre il costo del lavoro alimentando la spirale deflazionistica. Perciò si richiederebbe l'ideazione di meccanismi correttivi che trasferiscano risorse dai paesi più competitivi a tutti gli altri. Ma pensare che la Germania accetti misure del genere, andando a minare il proprio vantaggio competitivo, appare lontano da qualsiasi realismo. Sicuramente la deflazione dell'eurozona danneggia la stessa industria tedesca, la quale vede calare la domanda dei paesi europei che costituiscono la maggior parte del suo mercato. Ma piuttosto che accettare correttivi del genere, politicamente poco digeribili, tanto varrebbe per il governo della Merkel tornare al marco e accettare una rivalutazione.
Si potrebbe pensare che la BCE potrebbe ricorrere nuovamente al “whatever it takes” di Draghi, per salvare la moneta unica ed essere disposta a fare concessioni prima impensabili. Ma perché questi siano più di semplici palliativi che si limitino soltanto a rimandare la questione di pochi mesi, occorrerebbe che la Banca Centrale invece di continuare a prestare soldi alle banche, alimentando bolle finanziarie, intervenisse come “prestatore di ultima istanza”, finanziando, invece, gli stati. Ma per far questo dovrebbe modificare in misura rilevante il proprio statuto. L'unione monetaria sembra un congengo ideato proprio per evitare qualsiasi cambiamento radicale. Essa è una burocrazia verticistica priva di qualsivoglia controllo democratico dominata da un ceto che si ostina a seguire teorie macroeconomiche palesemente errate e smentite dai più autorevoli studi scientifici, oltre che dal riscontro empirico. Dall'epoca dei Trattati di Maastricht, che ne hanno sancito l'inizio, ad oggi, nulla è mutato, se non in un ulteriore irrigidimento di norme folli e senza alcuna logica economica. Credere che un manipolo di burocrati che finora non ha fatto altro che decantarne le lodi possa all'improvviso sconfessare la propria creatura, vuol dire non avere alcuna cognizione della realtà.
Mentre i sacerdoti dell'euro continuano a oliare la macchina della propaganda (sebbene una così larga fetta di opinione pubblica sia contraria alla moneta unica sui media mainstream quasi mai si accenna a un dibattito serio sul tema) e a proporre astrusi palliativi di nessuna o scarsa efficacia, nei paesi più colpiti dalla crisi monta il malcontento. In Francia già da diversi mesi il Front National di Marine Le Pen è in testa ai sondaggi e non ha mai nascosto che se vincesse le elezioni guiderebbe il paese transalpino fuori dall'euro. In Grecia Syriza sembra avere buone possibilità di vincere le elezioni e si rifiuta di applicare ulteriori misure di austerità e secondo qualcuno potrebbe anche decidere di tornare alla dracma. In Spagna i due partiti storici di potere, il Partito Popolare e il PSOE, attraversano un'emorragia di consensi senza precedenti, a tutto vantaggio della neonata coalizione di PODEMOS, già primo partito iberico, che prevede nel proprio programma l'abbandono dell'eurozona e la cessazione di tutte le politiche di austerità. Insomma, sembra che sempre più la domanda sulla possibile fine dell'euro non sia se, ma quando.
In tutti questi paesi, comunque, a guidare la rivolta sovranista sono partiti che hanno allo stesso tempo rigettato le politiche liberiste promosse in questi anni e propongono programmi con una forte impronta sociale. In Italia, invece, la questione è più complessa.
I partiti che si oppongono ufficialmente all'euro sono il Movimento Cinque Stelle e la Lega Nord; ad essi va aggiunta qualche voce della minoranza del PD. Di questi, il primo non mostra di avere le idee molto chiare circa le politiche da adottare in caso di ritorno alla Lira. Casaleggio ha affermato qualche tempo fa di voler tagliare la spesa pubblica, mentre Grillo pare riproporre le stesse teorie dell'avanzo primario che hanno devastato l'Italia, ma con una moneta diversa. Questo partito non sembra voler proporre un deciso affrancamento dalle politiche neoliberali che in questi anni hanno clamorosamente fallito, come del resto testimonia la scelta di allearsi, a livello europeo, col partito ultra-thatcheriano dell'UKIP di Nigel Farage. D'altro canto non pare esserci, nei Cinque Stelle, una proposta coerente di politica economica, ma si procede per suggestioni, spesso contraddittorie. Lo stesso cavallo di battaglia del “reddito di cittadinanza” rischia di essere seriamente controproducente, in quanto garantirebbe un reddito improduttivo, che cioè non crea occupazione e che sarebbe perciò soltanto foriero di inflazione. La Lega Nord, invece, una proposta ce l'ha. Però, anch'essa, non fa che rispolverare vecchie ricette neoliberali di epoca reaganiana, con una obsoleta “flat tax” (ovvero aliquota unica) che dovrebbe produrre crescita del PIL. Nella crisi economica più lunga da oltre un secolo, limitarsi a ridurre le tasse non produrrebbe gli effetti sperati. Peraltro, facendolo con un metodo iniquo, ovvero abolendo la progressività della tassazione, cosa che, oltre ad essere incostituzionale, avrebbe scarsi effetti sui consumi, porché avvantagerebbe principalmente i ceti più abbienti. Gli unici approcci che si avvicinano ad essere keynesiani si trovano nella minoranza del PD. Ma sarebbe credibile che un partito che ha traghettato l'Italia nell'euro, e che si è fatto promotore delle politiche di austerità (da Ciampi a Prodi) possa gestire un'“eurexit” e un rovesciamento dei paradigmi economici finora in voga?
È necessario, infatti, non solo interrogarsi sull'eventualità di un'uscita dall'euro, ma anche sulle modalità della sua gestione, e sul tipo di politica da adottare con il ritorno a una sovranità monetaria. Se si guarda al passato recente, quello che accadde all'Italia nel '92 può essere un'utile lezione. Anche allora l'Italia aderiva a un'unione monetaria, lo SME. In quell'anno lo SME crollò, per l'impossibilità di mantenere un tasso di cambio fisso tra le monete, ma i governi non mutarono politiche e applicarono misure di austerità, tutte volte a ridurre i deficit di bilancio e il debito pubblico, a forza di privatizzazioni, tasse e tagli della spesa pubblica. Nonostante il boom delle esportazioni delle aziende italiane, le quali godettero del riallineamento del cambio, la crescita italiana fu fortemente frenata da quegli interventi. Fu così che si arrivò al Trattato di Maastricht e all'euro che diedero la mazzata finale all'economia italiana, un'economia fino ad allora, nonostante tutto, e a dispetto di quanto dicono certi “moralizzatori” della finanza pubblica, tra le prime in Europa e nel Mondo.
Quello che bisogna capire è che l'euro è stata una scelta sciagurata dei ceti dirigenti e una imperdonabile leggerezza degli italiani che si sono lasciati trascinare in questa follia credendo a tutta la favolistica inventata dei media. Ma pensare che la sua fine produrrà magicamente benessere e progresso vuol dire svegliarsi da un sogno per cader vittime di un altro. Finché non si recupera non solo la sovranità monetaria, ma anche un approccio in politica economica che rimetta al centro lo Stato, sarà impossibile che l'Italia torni a essere una delle principali economie del continente. Il primo e importante passo da compiere, per ribaltare il paradigma politico-economico finora in voga, sarebbe quello di potenziare la spesa pubblica e non, come una volgare pubblicistica induce a fare, tagliarla, ridurla, “riqualificarla”, o qualsiasi altro sinonimo vogliamo utilizzare. Lo Stato dovrebbe invece attuare un piano per la piena occupazione, che intervenga per assegnare un impiego pubblico ai disoccupati. Una riduzione delle tasse (soprattutto indirette) che è senz'altro auspicabile, produrrà scarsi o nulli benefici se non è preceduta da un potenziamento della spesa pubblica che la riporti ai livelli che merita un paese civile. Uscire dall'euro è doveroso, ma non basta. È solo la precondizione per attuare una rivoluzione copernicana della finanza pubblica che recuperi i principi dello Stato keynesiano produttore di redditto e di ricchezza. L'unico vero strumento contro la crisi.


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