15 giu 2014

Non c'è antifascismo senza anticapitalismo

Non si può dire che oggi la gloriosa tradizione dell'antifascismo non sia screditata, per colpa, soprattutto, degli stessi antifascisti.
In passato l'antifascismo ha svolto un ruolo importante, non solo nell'opposizione ai regimi fascisti tradizionali come si sono venuti a creare in seguito al primo conflitto bellico mondiale – ovvero al nazi-fascismo mussoliniano e hitleriano – culminata nella Resistenza; ma anche come risposta all'estrema destra golpistica e terroristica sviluppatasi nella seconda metà del Novecento.
All'antifascismo sono state mosse diverse critiche, anche da parte di alcuni pensatori marxisti e anticapitalisti. Ne sono un esempio quelle di Costanzo Preve e di Diego Fusaro, che vedono nell'antifascismo una strategia del Capitale finalizzata a dividere le masse popolari in uno scontro ideologico per allontanarle da un'opposizione al capitalismo. Questa tesi vede nell'antifascismo un retaggio ideologico ormai inservibile per gli anticapitalisti che viene usato per fini egemonici dalle élite. Una simile critica si estende anche alla sinistra nel suo complesso, come principale forza antifascista divenuta completamente organica al Capitale. Occorre abolire, dicono, le divisioni tra fascisti e antifascisti, come tra destra e sinistra, perché superate e utili solo a perpetuare divisioni dell'unico fronte che dovrebbe combattere unitamente il capitalismo.
Una simile lettura non deve essere demonizzata né superbamente ignorata dalla sinistra. Essa coglie un punto fondamentale: la degenerazione che l'antifascismo (e con esso tutta la sinistra) ha subito; questo ha finito per diventare una mera discriminante ideologica senza nessuna prospettiva critica dell'esistente, ma nel migliore dei casi acritica e nel peggiore apologetica. Questa deriva si inscrive in quella più ampia della sinistra di cui si è parlato su questo blog (v. La parabola discendente della sinistra. Da Marx a Tsipras).
Da una parte vi è chi usa la discriminante antifascista per portare l'acqua al mulino del neoliberismo, ovvero per giustificare l'erosione della sovranità nazionale operata dal globalismo economico. In questa narrazione gli stati sono ridotti ad apparato dei nazionalismi e dunque portatori di conflitti e di pratiche oppressive. Dall'altra vi è invece la sinistra odierna che, rigettato Marx, l'anticapitalismo e l'antimperialismo, ha abbracciato un progressismo astratto costruito su un'“etica dei diritti” astorica e disarticolata, sganciata dal reale contesto socio-economico. Questa specie di sinistra motiva le sue rivendicazioni affermando dei diritti generici, con una ragionamento di tipo circolare. Così tutti i soggetti vengono astrattamente equiparati, asserendone le libertà individuali, ma senza includerli in un progetto di emancipazione collettiva.
Venuto a mancare l'anticapitalismo, questa sinistra ha sentito il bisogno di individuare un discrimine con la destra che potesse motivare ancora la propria esistenza. E questo è stato appunto l'antifascismo. Ma tale antifascismo è stato del tutto sottratto alla dialettica storica, per diventare una opposizione ideologica a un fascismo altrettanto ideologico. Più che porsi sul piano del reale divenire storico e contestare il fascismo alla radice, la sinistra è rimasta al livello della sovrastruttura superficiale, in un'opposizione frontale alle “parole d'ordine” dell'estrema destra. Così al militarismo ha opposto il pacifismo, al tradizionalismo religioso il laicismo, all'autoritarismo un individualismo libertario, al nazionalismo un generico multiculturalismo.
Non ha saputo, questa sinistra, comprendere le mutate condizioni storico-sociali, e il diverso ruolo che ha assunto il fascismo nel corso del tempo. Così, essa si è armata contro quei reperti archeologici del tutto superati e ridotti al ruolo di mera testimonianza simbolica. Il risultato è stato, di conseguenza, che essa stessa è diventata un reperto archeologico. Ma, paradossalmente, ha resuscitato un cadavere; essa, infatti, doveva tenere in vita quel nemico per tenere in vita se stessa. Senza comprendere, e non volendo comprendere, quanto quel nemico rappresentasse un fascismo ormai superato ed esposto nei musei. Non si poteva, non si può andare oltre, perché ciò vorrebbe dire andare oltre quell'astratto progressismo che si è assunto alla base della propria rappresentazione. È stato pertanto facile per il neoliberalismo globalista reclutare questa sinistra nelle proprie guerre. Qualsiasi opposizione al globalismo dei mercati è stata presentata come reazionaria. Qualsiasi difesa della sovranità degli stati è stata descritta come nazionalistica. Qualsiasi stato che si opponesse all'imperialismo occidentale come fascista o dispotico.
E non è un caso se spesso la sinistra (anche se non senza voci di dissenso interno, bisogna dirlo) ha marciato al fianco del neoliberismo, come nel sostegno alle “rivoluzioni colorate” ovvero al tentativo di penetrazione degli Usa nell'est europeo; o nella mistificante esaltazione dei neonazisti ucraini (paradosso dell'antifascismo astratto) presentati come dei partigiani in lotta contro il tiranno Putin; nella glorificazione dei monaci tibetani anticinesi in nome di un candido irenismo come sempre a senso unico (ovvero quello dei piani imperialistici dell'Occidente); nell'avversione ai regimi arabo-isalmici, in nome della difesa della dignità femminile. Non che la Russia, la Cina, l'Iran, siano nazioni prive di contraddizioni e dotate di un assetto interno desiderabile. Ma il risveglio delle coscienze che giunge puntuale sempre quando fa comodo ai padroni americani, e mai, ovviamente, contro di essi (per lo meno quando alla Casa Bianca c'è un Obama o un Clinton) dovrebbe come minimo destare sospetto. Invece la sinistra, essendo diventata antistoricista, non comprende il particolare contesto nel quale maturano e si evolvono i conflitti su scala mondiale, finendo per ridursi al servizio, in nome dei “diritti”, del Capitale.
Quale più vivido esempio può essere portato a sostegno di questa analisi se non il modo in cui la sinistra, italiana in particolare, ha difeso a oltranza l'Euro e l'Unione Europea, ovvero i principali strumenti del capitalismo finanziario e del neoliberismo dominante? Limitata dal suo universalismo antistorico e individualista ha creduto all'ideologia del cosmopolitismo europeista. La sinistra si è così resa complice della “globalizzazione” (parola anch'essa mistificatoria) che a parole contestava.
In questo la critica di Preve e Fusaro è corretta. L'antifascismo della sinistra è oggi un mero gingillo ideologico che serve a ravvivare un conflitto puramente immaginario, il quale finisce per essere funzionale alle strategie delle élite dominanti.
Ma riconoscere questo, non significa che si debba gettare il bambino con l'acqua sporca, e rinunciare del tutto a una connotazione antifascista. La tesi di Preve e Fusaro trascura un evidente fatto storico. Ovvero il ruolo che hanno giocato i fascismi nella difesa dell'ordine capitalistico. Il loro compito è stato quello di fermare l'avanzata del proletariato, del socialismo e del comunismo in Occidente. Nel momento in cui il Capitale si è sentito minacciato da queste forze popolari non ha esitato a ricorrere a metodi duramente repressivi e tirannici. Il fascismo è stato il “sicario” del capitalismo in questa fase. Il quale non ha esitato nemmeno a sbarazzarsene una volta raggiunti i suoi scopi e quando il fascismo ha cominciato a diventare un alleato un po' troppo ingombrante. Questo è soltanto il primo fascismo. Esso ha una connotazione nazionalistica, statalista e colonialista.
Il secondo stadio del fascismo, che si afferma nel secondo Dopoguerra, si salda con l'imperialismo americano e il neoliberismo (l'uno o l'altro o entrambi). La sua più esemplare manifestazione è il Cile di Pinochet, teatro degli “esperimenti sociali” della Scuola di Chicago. Esso è stato lo strumento con cui gli apparati americani hanno ribaltato regimi o contrastato movimenti e partiti politici ad essi non graditi, al fine di conservare la propria egemonia geopolitica e militare, oltreché economica, in Occidente, inserendosi nel contesto del conflitto con l'Unione Sovietica.
Vi è, poi, un terzo stadio di fascismo, il quale si afferma in seguito al crollo del Muro di Berlino, ed è per certi versi la continuazione del secondo. É caratterizzato da una ancor più spiccata saldatura con il neoliberismo e un ormai dichiarato atlantismo. In Sud America è sostenuto dalle élite locali in funzione anticastrista e antichavista, in opposizione ai governi di socialismo “ibrido” dell'America latina. Nell'Europa dell'Est, in particolare in Ucraina, è invece antirusso e rappresenta il tentativo dell'imperialismo di conquistare i territori oltre l'ex cortina di ferro e di ridimensionare il peso geopolitico della Russia.
Vi è infine un quarto stadio, il quale non è più tanto funzionale agli interessi dell'Impero nordamericano, quanto ai disegni dell'aristocrazia finanziaria che domina l'Europa. Esso ha una impronta fortemente neomercantilista, antinazionale, antistatale, economicista. Ha lo scopo di demolire gli stati nazionali europei, abolire qualunque limite ai movimenti di merci e di capitali e concentrare il potere politico in istituzioni sovranazionali e oligarchiche. Gli strumenti di questo fascismo sono l'Euro e l'Unione Europea. Si rivela in un'ideologia segreta delle classi dominanti europee che è elitista, moralistica, antipopolare, anticonsumistica e contraria alla democrazia sotto qualsiasi forma. Gli ideologi e gli individui di questa aristocrazia sono a volte legati al vecchio nazi-fascismo e ad apparati massonici.
Quest'ultimo stadio del fascismo si caratterizza per il fatto che non si avvale di un consenso popolare diretto, non è dichiarato, e non ha un ruolo oppositivo, cioè puramente antimarxista, anticomunista e antioperaio, ma mira a piegare qualsiasi resistenza all'egemonia capitalistica e a sottomettere del tutto l'autorità politica ai suoi progetti economici. Esso si identifica del tutto con le élite, senza nessuna mediazione politica (come il vecchio fascismo).
Il fascismo oggi, dunque, non è soltanto un fossile, ma è un fenomeno reale, capace di riciclarsi e di adattarsi alle mutate condizioni storiche. Perciò tentare di liquidare l'antifascismo sarebbe un errore.
È necessario, semmai, attualizzarlo. Per far questo però la sinistra deve prima recuperare la sua tradizione anticapitalista e marxista, magari avvalendosi degli orizzonti aperti dalle teorie economiche antiliberiste degli ultimi decenni, in particolare keynesiane e post-keynesiane. In seconda istanza ha bisogno di comprendere come l'attuale fascismo si innesti nella odierna struttura socio-economica e il suo ruolo nel difendere ed estendere il dominio capitalistico. Infine, deve trovare un modo efficace di contrastarlo, che parta quindi da un'analisi della realtà sociale ed economica, invece che da un'“etica dei diritti”.
Da questo punto di vista, quindi, la tesi “post-antifascista” e “post-sinistra” di Fusaro e Preve presenta gli stessi limiti di coloro che accusano: ovvero di concepire il fascismo come una mera patologia avulsa dal contesto storico, senza vedere il suo ruolo di supporto del capitalismo, nelle diverse epoche. Essa, anzi, presta il fianco al travisamento della storia operato del post-modernismo da loro stessi criticato, il quale proclama la fine delle “grandi narrazioni” e dei “pensieri forti”. La tesi della fine della dicotomia destra/sinistra, come di quella fascismo/antifascismo, viene usata proprio da coloro che decretano frettolosamente la “morte delle ideologie” e con essa di qualsiasi pensiero anticapitalista e realmente emancipativo, e che infatti sono i più incalliti sostenitori dell'ordinamento economico attuale, al più perfezionato da qualche miglioria estemporanea. Non è un caso che la principale manifestazione politica del presunto superamento di questa dicotomia è un partito, il Movimento Cinque Stelle, che più che porsi entro un orizzonte “altro” ha accatastato in modo poco coerente proposte di destra e proposte di sinistra, dichiarandosi a favore, nello stesso tempo, ad esempio, della campagna a favore dell'acqua pubblica, come della drastica riduzione della spesa dello stato (v. I finti keynesiani). Un miscuglio poco coerente di chi è vittima di un astrattismo non meno nocivo di quello della sinistra odierna. Questo movimento, con la sua protesta pulsionale e disarticolata, è ben lontano dall'incarnare una critica al capitalismo.
Vanno allora distinti quei fenomeni di “folclore” fascista esclusivamente dediti all'esercizio di una memoria rituale e del tutto marginali, dal fascismo vero e proprio che opera attivamente e che è funzionale al Capitale e alle strategie delle élite. In questo senso si può e si deve tenere in vita una sinistra antifascista, ma solo a condizione che essa sia una declinazione di un maturo e consapevole anticapitalismo e non una mero momento autocelebrativo.


Immagine tratta da:
http://en.wikipedia.org/wiki/National_Liberation_Committee

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