24 mag 2014

Uscire dall'inferno dell'Euro

Il sistema monetario europeo è stato un progetto salutato dalla classe dirigente alla sua entrata in vigore come il migliore dei mondi possibili. Attorno ad esso è nata una ideologia che descrive la moneta unica come garanzia di pace e prosperità economica.
A tre lustri dalla sua nascita possiamo oggi dire che questa narrazione si è rivelata del tutto falsa e completamente sganciata dalla realtà.
Non che non ci fossero stati avvertimenti in questo senso. La crisi dell'Argentina causata dal rapporto di cambio fisso col dollaro aveva già dimostrato l'insostenibilità di un unione monetaria in aree valutarie non ottimali
Il ciclo Frenkel ben descrive questa situazione, in cui un paese che si aggancia a una valuta più forte vede inizialmente una crescita del proprio Pil per l'afflusso di capitali, poiché gli investimenti diventano sempre più convenienti grazie alla stabilità del cambio. Ma questa situazione è destinata a lungo andare a produrre crescenti squilibri in ragione del forte indebitamento privato della creazione di bolle immobiliari. La recessione è inevitabile.
Questa parabola è valida anche per i paesi della zona euro, in particolare per quelli dell'Europa del Sud, dotati di una valuta fissata a un cambio forzatamente tenuto stabile.
Le bolle immobiliari scoppiate in Grecia e in Spagna sono la precisa realizzazione del ciclo valutario descritto da Frenkel. Con il crescente indebitamento privato si crea una situazione di insolvenza cronica e finiscono per risentirne gli istituti di credito che sospendono i prestiti.
Il calo del Pil ha indotto i governi pressati dai trattati e dalle direttive europee a tentare di ridurre i deficit attraverso tagli della spesa pubblica e aumento delle tasse. A differenza della situazione argentina quella europea si contraddistingue per la presenza di una valuta internazionale emessa da una banca sovranazionale. Inoltre la crisi viene aggravata da trattati (come il patto di stabilità o il Six pack act) che irrigidiscono i bilanci pubblici e impediscono agli stati di attuare politiche anticicliche attraverso un'espansione della spesa pubblica.
In questa crisi le aziende dei paesi più in difficoltà, come Spagna, Irlanda, Grecia, Portogallo e Italia (i cosiddetti PIIGS) si trovano a dover affrontare uno svantaggio competitivo impossibile da superare, poiché pagano un tasso di cambio che mette i loro prodotti fuori mercato. In particolare l'Italia, che è il principale competitore del paese la cui industria ha beneficiato della moneta unica, la Germania. Nonostante dall'uscita dallo SME fino ai Trattati di Maastricht le industrie italiane avessero conosciuto un boom delle esportazioni a danni di quelle tedesche, con la rivalutazione dovuta all'entrata dell'euro la situazione della bilancia dei pagamenti si è capovolta, e specularmente quella della Germania (vedi figura 1)
Figura 1
L'attivo dell'ultimo anno è dovuto non tanto a una ripresa delle esportazioni, quanto a una riduzione delle importazioni conseguente al calo della domanda interna.
La bassa inflazione, non ha procurato alcun beneficio al potere d'acquisto dei ceti medi e bassi, poiché non è stata seguita da una tenuta dei redditi.
Chi ha invece tratto beneficio da questa condizione sono stati soprattutto i redditi più elevati che hanno potuto beneficiare della crescente deflazione; i creditori hanno avuto per un pezzo il beneficio di una moneta stabile e forte. Ma di fronte alla crescita delle sofferenze bancarie e delle insolvenze ha finito per compromettere anche loro. La finanza speculativa, perciò, si sta ancora espandendo, a danno del credito.
Le industrie importatrici hanno potuto contare su una riduzione del costo delle merci estere, ma questo ovviamente non ha certo favorito l'industria nazionale e sostenuto l'occupazione.
Il grande capitale ha potuto ammortizzare i danni e persino aumentare i profitti delocalizzando la produzione e riducendo il costo del lavoro, anche grazie a una moneta forte. Ma le piccole imprese italiane si sono trovate in difficoltà sempre più insormontabili.
In questo contesto appare ben difficile continuare a difendere la moneta unica.
Tuttavia la propaganda neoliberale, impaurita dall'avanzare della sfiducia nei confronti della moneta unica sta intensificando gli sforzi.
Ma questa difesa fa leva su argomenti per forza di cose fragili.
Cerchiamo di analizzare le “sirene” della propaganda eurofila.
1. La svalutazione crea inflazione. Forse il principale argomento avanzato in difesa dell'Euro è la tesi secondo la quale la conseguente svalutazione della nuova moneta nazionale comporterà un aumento vertiginoso dell'inflazione e quindi una riduzione del potere d'acquisto.
Questa teoria è chiaramente falsa. Come mostra il grafico seguente (figura 2)
Figura 2

non c'è alcuna correlazione tra svalutazione e inflazione. Mutando il tasso di cambio, cambierà soltanto il prezzo della moneta estera, e quindi delle merci estere, non di quelle locali. La moneta estera rivalutata potrà comprare più merci locali e quindi si verificherà un miglioramento della bilancia dei pagamenti. Inoltre la stessa domanda interna sosterrà le merci nazionali e quindi l'occupazione.
Chi muove questa obiezione ragiona come se esistesse una tasso di cambio fisso con un'altra moneta. In questo caso realmente la svalutazione genererebbe inflazione, poiché i prezzi leviteranno per ammortizzare il maggior costo della valuta di riferimento.
2. L'emissione di moneta genera inflazione; la cancellazione dei vincoli monetari spingerà i governi ad aumentare i deficit attraverso l'emissione di moneta e questo comporterà inflazione. Questo argomento si basa su una premessa inaccettabile: che le uniche variabili in gioco siano la quantità di moneta e i prezzi. Aumentando la prima aumentano anche i secondi.
In realtà questa lettura trascura altre due variabili fondamentali: ovvero la velocità di circolazione della moneta e la quantità di beni e servizi. Un incremento della massa monetaria, incide su queste ultime due variabili, quindi o la velocità di circolazione si riduce, o aumenta la quantità di beni e servizi prodotti, o una combinazione di queste due eventualità. Molto probabilmente è questo che si verificherebbe se le politiche pubbliche sostenessero i redditi e l'occupazione.
Ma anche se si verificasse un aumento dei prezzi questo non sarà per forza un male se ad esso corrisponderà un più veloce aumento dei redditi. Forme di indicizzazione delle retribuzioni potrebbero essere un valido meccanismo di recupero automatico del potere d'acquisto
3. La svalutazione farà contrarre i risparmi. Ancora una volta si confonde svalutazione e inflazione. I conti correnti in Euro saranno ridenominati in valuta nazionale e di conseguenza anche i prezzi si adegueranno al tasso di conversione. Una svalutazione come si è visto non farà aumentare i prezzi e quindi non ci sarà nessuna aggressione ai risparmi.
Per quanto riguarda gli investimenti in titoli di stato questi frutteranno un interesse allo stesso modo che con la precedente valuta. Semmai il problema sarà per chi effettua operazioni finanziarie e vuole vendere titoli di debito italiani dopo la svalutazione. Ma questo non ha nulla a che fare con la garanzie del risparmio.
3. I prezzi delle materie prime aumenteranno e sarà più costoso importare. Chi muove questa obiezione trascura che i prezzi delle materie prime sono soltanto una parte e per altro minima dell'intero costo di produzione. In un paese industriale come l'Italia la materia prima è comprata per essere trasformata e quindi il maggior costo resterà quello industriale. Inoltre il recupero della sovranità monetaria permetterà ai governi di ridurre le imposte sul consumo (IVA, accise, ecc.) e dunque il prezzo del prodotto finale potrebbe anche subire contrazioni, senza che questo danneggi i produttori.
4. La paura della svalutazione produrrà una corsa agli sportelli e le banche saranno prive di liquidità. Anche questo argomento, come per il punto 1, presuppone un contesto di area valutaria agganciata a un'altra divisa con un tasso di cambio fisso. In questo caso effettivamente la minaccia di una svalutazione può realmente produrre una corsa agli sportelli con conseguenze catastrofiche. Infatti si vorranno convertire i depositi nell'altra valuta, di conseguenza la moneta nazionale sarà sempre meno costosa, generando inflazione, peraltro, poiché a seguito del bank run gli istituti rimarranno privi della moneta di riferimento, la bancarotta è inevitabile
Ma con un cambio floating la valuta locale non è convertibile, quindi anche in caso di corsa agli sportelli generata da paura irrazionale non ci saranno alcune conseguenze sui prezzi né questo causerà bancarotta. Infatti la moneta locale non sarà convertita in altra moneta e il cambio non ne risentirà, semplicemente la moneta da elettronica diverrà cartacea.
In caso di possibile uscita dall'Euro esiste questa eventualità e le persone accumuleranno Euro. Quando entrerà in vigore la nuova valuta però dovranno riconvertire necessariamente gli Euro in moneta locale, poiché questa è stata assunta dal nuovo corso legale. Avendo risparmiato in moneta forte questo aumenterà persino il tasso di risparmio privato e quindi il potere d'acquisto. Tuttavia a un certo momento l'acquisto continuato di valuta locale porterà quest'ultima ad apprezzarsi e l'Euro a deprezzarsi, riducendo fino ad annullare del tutto i margini di guadagno. Ma queste operazioni rientrano nel normale mercato valutario dove gli operatori acquistano di continuo in una data moneta prima che si apprezzi per poi comprare moneta debole.
Tantomeno le banche rimarranno prive di liquidità. I prestiti, i versamenti e i trasferimenti di valuta infatti non avvengono certo attingendo ad altri conti correnti. Se una data banca, ad esempio, deve finanziare un prestito non lo fa attingendo ai depositi dei sui correntisti! Se così fosse la banca non sarebbe un posto sicuro in cui depositare i risparmi. Al contrario, l'istituto semplicemente accrediterà la somma sul conto corrente del debitore senza intaccare i risparmi di nessuno.
L'uscita dall'Euro, quindi, non comporterebbe alcuno svantaggio apprezzabile, mentre farebbe guadagnare competitività all'industria nazionale, potere d'acquisto ai redditi e produrrebbe una crescita dell'occupazione. Naturalmente esistono vari scenari a seconda di come l'abbandono dell'unione monetaria viene gestito dai governi. Ma in ogni caso i benefici saranno tali da superare gli eventuali svantaggi.
Occorre però un'uscita rapida, per impedire una reazione negativa dai mercati e dalle lobby di pressione. Per questo tutte le soluzioni che comporterebbero un prolungamento del periodo di transizione (referendum) sono da scartare. Anche un'uscita concordata con gli altri paesi, sebbene preferibile sul piano tecnico, potrebbe imbrigliare il paese uscente in una lunga ed estenuante trattativa.
Quel che dovrebbe fare un governo di transizione è dichiarare l'immediato recupero della sovranità monetaria, ridenominando il proprio debito nella nuova valuta (non occorrono ristrutturazioni, o moratorie) restituendo alla banca centrale nazionale gli strumenti di intervento sul cambio e sulla base monetaria e ponendola sotto il controllo del Tesoro. Per quest'ultima operazione non sono necessarie nazionalizzazioni (che invece sarebbero auspicabili per il settore bancario) ma una legislazione che autorizzi i governi a saldi negativi del proprio conto presso la banca centrale, o quanto meno che obblighi quest'ultima a comprare i titoli di stato invenduti.


Grafici e immagini tratti da:

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