6 mag 2017

Quale femminismo?

L’8 marzo scorso si è tenuto lo “sciopero generale delle donne”, la manifestazione internazionale delle femministe, in Italia vi hanno aderito diversi sindacati, con lo scopo di contrastare la violenza contro le donne e altre forme di discriminazione. Questa manifestazione ne richiama altre e si colloca sull’onda di una serie di iniziative per i diritti delle donne in Italia come all’estero (si ricorderà, negli Stati uniti, la marcia contro Trump).
Negli ultimi anni il femminismo ha ricevuto molta attenzione da parte dei media, così come alcuni suoi temi sono stati pubblicamente dibattuti e, in alcuni casi, hanno dettato anche l’agenda politica.
La domanda che ci porremo in questa sede è: il femminismo, oggi, è ancora un interprete affidabile non soltanto delle esigenze delle donne, ma anche delle questioni sociali più urgenti, come aspira ad essere?

Femminismo e questione sociale
Si tratta di un rapporto coltivato assiduamente, in passato, dal femminismo di matrice marxista. Tuttavia l’epoca attuale ha visto le femministe sempre più allontanarsi dalle questioni che allora venivano definite “di classe”. In altre parole, a un certo momento della storia, è fuoriuscito da più ampi movimenti di emancipazione delle classi sfruttate e ha finito per legittimare, implicitamente quando non apertamente, il modo di produzione e la struttura economica.
Dagli anni Settanta un filone del movimento femminista decise di rifiutare il marxismo e il socialismo, all’interno dei quali si era sviluppato; questa scelta, si deve al separatismo e in Italia è stata teorizzata soprattutto da Carla Lonzi, determinando gli esiti attuali.
Se il femminismo rompeva col socialismo accadeva, nel frattempo, una mutazione della società: il trionfo “definitivo” del capitalismo (non perché fosse realmente tale, come nulla è nella storia, ma perché come tale si rappresentava) e la rinuncia alle istanze anticapitaliste. Mentre questo avveniva, culminando con la caduta del Muro di Berlino, il femminismo aveva già distinto se stesso dalla lotta contro il Capitale e aveva designato come proprio nemico esclusivo il Patriarcato. Il problema è che ciò veniva affermato proprio in una fase di declino del Patriarcato e di una nuova “rivoluzione capitalistica”, quella del dominio oligarchico non mediato e del mercato globale, una rivoluzione che trovava per la prima volta pieno compimento dopo aver abbattuto tutti gli ostacoli politici, ideologici e culturali.
In questa “rivoluzione”, le formazioni ideologiche capitalistiche mutavano. Il capitalismo si sbarazzava (o perlomeno cominciava a farlo e oggi vediamo come questo processo sia giunto a compimento) di certi suoi strumenti repressivi, in particolare della inibizione e della castrazione del corpo e del desiderio sessuale. Se, infatti, nella fase precedente aveva bisogno di trattenere almeno in parte energie potenzialmente sovversive e di reprimere le pulsioni per includere gli individui nell’irregimentazione produttiva (magari permettendo, per altra via, uno “sfogo” controllato delle pulsioni represse) nella fase postmoderna esso deve, invece, modellare l’individuo consumatore, quindi svincolarlo dal corpo sociale e lasciare libero sfogo alle pulsioni; anzi, deve eccitare, provocare, amplificare e manipolare i desideri. Il Patriarcato, che in passato era servito a riprodurre le strutture sociali capitalistiche, diventa ora, perciò, strumento inservibile, di cui disfarsi.
Ecco, dunque, che il Capitale trova, a questo scopo, un utile alleato nel femminismo separatista e “post-ideologico”, che gli consente, per di più, di incanalare la protesta a proprio favore.
Le femministe hanno finito per far proprie istanze propriamente pro-capitalistiche, ne è un esempio la rivendicata aspirazione delle donne a ricoprire i massimi gradi della gerarchia sociale. Se il capitalismo a uno stadio di “arretratezza” escludeva le donne, prima come produttrici e poi come consumatrici, il suo nuovo movimento tende sempre più a includerle. Il femminismo si è allineato a questa tendenza generale, considerandola fattore di emancipazione per le donne nella lotta contro il Patriarcato. Tuttavia, non è più in grado di cogliere – proprio perché si è ormai distaccato dai mezzi ideologici adeguati – il carattere di classe di questa “emancipazione”. Mentre si celebra la “liberazione” delle donne dalle catene della castrazione maschilista, lo sfruttamento delle donne, come degli uomini, delle classi inferiori si inasprisce, venendo a mancare tutte le protezioni sociali.
Il femminismo assume un profilo “progressivo” solo di fronte a configurazioni arcaiche del potere (quelle repressive e castranti) ma accetta nella sostanza e supporta la restaurazione postmoderna (de-inibita e sessualizzante). E ciò si deve al fatto che il femminismo si è troppo concentrato nel contrasto e nell’analisi dei mezzi del potere, che, in quanto mezzi, possono essere sostituiti, ma non sulla critica della struttura del potere. Il potere, infatti, non si esercita soltanto negativamente, ma anche in positivo: “un dispositivo molto diverso dalla legge, anche se poggia localmente su procedure d’interdizione, assicura, attraverso una rete di meccanismi connessi gli uni agli altri, la proliferazione di piaceri specifici e la moltiplicazione di sessualità disparate”*.
Le femministe, nelle loro rivendicazioni, affermano “Scioperiamo contro l’immaginario misogino sessista, razzista, che discrimina lesbiche, gay e trans”. Nulla viene detto, però, sulla principale discriminazione della nostra epoca, ovvero quella di classe che distingue le persone in base al loro accesso alle merci. Una “assenza rivelatrice”, che dice quanto il femminismo, come del resto molti movimenti di protesta, sia oggi compromesso col sistema sociale di sfruttamento.

La mediatizzazione del femminismo
Le femministe combattono il Patriarcato, e non si può negare quanto quest’ultimo abbia oppresso e talvolta tutt’ora ancora opprime, nonostante sia in declino irreversibile, le donne.
Ma esiste una nuova forma di oppressione che, come si è detto, non reprime e non castra il corpo femminile, ma lo manipola e lo espone. Questo accade nella comunicazione, e non riguarda “il linguaggio sessista”, la vocale finale maschile al posto di quella femminile, ma qualcosa di molto più potente e colonizzante. Ed è l’esposizione del corpo della donna la sua iper-sessualizzazione e la sua mercificazione. La pubblicità tratta il corpo della donna come “merce universale”, ovvero un particolare tipo di merce che rende appetibile qualsiasi altra merce. Se si vuole vendere una merce le si attribuiscono caratteri sessuali femminili.
Il capitalismo consumista manipola il corpo della donna per renderlo universalmente fruibile (altro che “il corpo è mio e lo gestisco io”!) esso deve essere sempre mostrato e deve sempre sedurre e attirare, provocare ed eccitare. Il corpo della donna deve essere sempre, costantemente, desiderato e deve quindi farsi desiderare. Le femministe non sembrano essere consapevoli di ciò, anzi, esse hanno spesso contribuito a rendere il corpo e l’immagine della donna sempre più fruibile per la società dei consumi, sempre più merce universale, partecipando al processo di mediatizzazione della figura femminile.
“Agiamo” scrivono le promotrici della manifestazione “con ogni media e in ogni media per comunicare le nostre parole, i nostri volti, i nostri corpi ribelli, non stereotipati e ricchi di inauditi desideri”. Inneggiano alla mostra del corpo e all’eccitazione dei desideri di cui si serve il potere postmoderno, un potere manipolatore seppure non patriarcale. In numerose proteste le troviamo in atti provocatori a incitare e mostrare, a scandalizzare, quando lo scandalo (che per essendo inflazionato deve spostare l’asticella della provocazione sempre più in alto) serve proprio a eccitare il desiderio della donna e per la donna venditrice di se stessa.

Riformulare il femminismo
È inutile farsi illusioni, il femminismo non può operare oggi con le stesse strategie di ieri. Bisognerebbe innanzitutto prendere atto che la corrente del femminismo oggi prevalente non si è rivelata fruttuosa. Ha partecipato di una tendenza già dominante, quella di rendere la donna consumatrice e oggetto di consumo, e ha esaurito il suo carattere dissidente.
Se il femminismo intende, oggi, farsi interprete della questione femminile, per come può oggi essere intesa, non può esimersi dalla critica della struttura economica e dai processi di esclusione non soltanto dei sessi – come conseguenza delle incrostazioni del passato – ma anche delle classi. Deve altresì rimodulare la sua strategia, esigendo non la mostra, l’esposizione e l’esibizione di sé, “diritto” già ampiamente concesso, quando non vero e proprio obbligo e metodo di inclusione della donna nei processi di riproduzione dell’ordine sociale. Hanno bisogno, le donne, di “rilassare” la propria immagine, desessualizzarsi, celarsi, sfuggire all’esibizione del corpo. Solo in questo modo potranno sganciarsi dal sistema di sfruttamento pubblicitario e rivendicare un’autentica emancipazione.




*Michel Foucault, La volontà di sapere – Storia della sessualità 1, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 48




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