3 giu 2014

La parabola discendente della sinistra. Da Marx a Tsipras

La struttura analitica isola il sostantivo dominante da quei contenuti che potrebbero invalidare o quantomeno disturbare l'uso accettato del sostantivo stesso nei programmi politici e nell'opinione pubblica. Il concetto ritualizzato è reso immune alla contraddizione.

 Herbert Marcuse, L'uomo a una dimensione


Il fallimento teorico e pratico della sinistra, nel porsi come strumento emancipativo delle masse, ha il suo inizio con una scelta precisa del ceto dirigente. Quello di distaccarsi progressivamente dal pensiero di Marx, dal marxismo e dall'anti-imperialismo come da tutte le pratiche di lotta connesse.
Questa scelta viene concretizzandosi sempre più verso la fine degli anni '70, ad opera di alcuni dirigenti dei partiti socialisti e comunisti europei. I loro nomi, da Mitterand a Napolitano sono noti.
In Italia i primi tentativi di sganciamento del partito comunista dal marxismo e dall'anti-imperialismo sono riconducibili alla corrente migliorista del PCI. Lo scopo di questa corrente è non solo emancipare del tutto il PCI rispetto all'Unione sovietica, ma anche ricondurlo sotto l'egida della NATO. Rispetto alla linea dell'eurocomunismo berlingueriano i miglioristi ne adottarono una atlantista, operando per tessere i rapporti con i funzionari americani.
Lo scopo era quello di ricondurre il PCI nella sfera di influenza americana, proponendolo come partito di governo non avverso alle élite occidentali.
Il tentativo, si può dire sia riuscito in pieno. Ma quella strategia va vista non solo in un'ottica squisitamente geopolitica, ma anche in rapporto alla collocazione socio-politica nazionale dell'apparato comunista. Il PCI non solo finì per abbracciare del tutto l'atlantismo (cui anche Berlinguer quando era in vita fece delle concessioni) ma per ristrutturarsi sul piano della dialettica politica interna. Ovviamente i due aspetti sono connessi tra di loro, poiché si doveva rendere accettabile all'establishment americano il Partito Comunista Italiano che fino ad allora era stato considerato dagli statunitensi una minaccia all'ordine internazionale vigente.
Il PCI attraversò un processo di trasformazione che lo avrebbe del tutto snaturato.
Sebbene infatti, da Togliatti in poi, non fosse mai stato rivoluzionario, costituiva, con tutte le sue inemendabili contraddizioni, un blocco politico a sostegno del lavoro, per quanto all'interno di una prospettiva capitalistica.
Il PCI, con le organizzazioni sindacali, contribuiva a porre un argine alle pretese egemoniche del Capitale quantomeno entro i confini nazionali.
L'operazione dei miglioristi fu quella di riposizionare il PCI rendendolo non più strumento di legittimazione giuridica del lavoro e del compromesso di questo con gli interessi del capitalismo nazionale, ma apparato burocratico funzionale agli interessi del capitale non solo nazionale.
Questo apparato burocratico svolse il compito storico di dirigere i lavoratori e le classi popolari verso la resa, parziale prima e totale poi, a quegli interessi.
Per far questo dovette abiurare anche dichiaratamente la dialettica marxiana. Il nuovo PDS (diventato poi Ulivo e infine PD) non si posizionava più, come il vecchio PCI, su un terreno di critica e di antitesi (seppure non rivoluzionaria) rispetto al Capitale, ma diventava contiguo ad esso, ed anzi suo strumento. In questo modo le élite capitalistiche riuscirono a far accettare ai lavoratori e alle classi più ostili il loro disegno egemonico, con una maschera progressista.
Il ceto dirigente (ex) comunista riuscì in questa missione contribuendo a ridefinire alcuni concetti politici. Uno è quello di “sinistra”.
Se prima la “sinistra” era un'espressione linguistica per designare le forze anti-capitalistiche e socialiste, ovvero quelle forze che credevano in una struttura socialista dello stato, con la svolta anti-marxiana la “sinistra” rappresenterà un'entità astratta priva di una connotazione ideologica precisa, al più vagamente ispirata a un liberalismo progressista. Anche la collocazione in ambito internazionale come “socialdemocratico” non rende ragione della vera natura del PDS-PD. Gli stessi concetti di “socialdemocrazia” o “socialismo” hanno subito uno slittamento di significato che ha finito per includerli all'interno dell'orizzonte capitalistico. Così, può dirsi socialista chi non desidera lo stato socialista.
In questo senso l'opera compiuta dall'ex PCI è soltanto una manifestazione di una strategia comunicativa attuata a livello europeo.
Si può dire che in Italia abbia avuto particolare successo, forse perché ha giovato della figura catalizzatrice di Silvio Berlusconi, che ha finito per fungere da “parafulmine” per il ceto dirigente “progressista”.
La ridefinizione della sinistra ha permesso l'attuazione di tutte quelle riforme neoliberali che hanno indebolito i lavoratori. Tuttavia qui bisogna fare un distinguo. Perché se una parte della sinistra finirà per abbracciare l'ideologia neoliberale, diventando, nei fatti, una “nuova destra”, un'altra, cosiddetta nella vulgata mainstream, “radicale” o “estrema” si è posta in modo critico rispetto a questa ideologia e alle sue politiche. Tuttavia, anch'essa, in modo forse più travagliato e lento, ha finito per abbandonare il marxismo e collocarsi nella definizione astratta di sinistra.
Se la prima sinistra ha terminato il suo percorso di mutazione negando se stessa e lo stesso concetto astratto di sé che aveva elaborato, questa seconda specie vi si identifica appieno, radicalizzandolo.
Ma accettando l'astratto progressismo delle élite e la “diluizione” nel mare dell'indefinitezza del nuovo concetto, si è autocondannata al fallimento storico.
Così, questa sinistra, non può che rivendicare lo stesso progressismo astratto di chi vorrebbe criticare, magari radicalizzandolo per quanto possibile, ma sempre restando all'interno dell'orizzonte descritto dalle élite. Smarrito l'apparato teorico di interpretazione della realtà capitalistica e gli strumenti pratici per cambiarlo, poiché dispersi nell'astrattezza della sua nuova immagine, non poteva che far proprie rivendicazioni particolari e isolate, del tutto avulse da qualsiasi paradigma di comprensione del presente. Queste rivendicazioni, scollegate tra loro, potevano avere come unico debole collante quell'“etica dei diritti” propria di una sorta di nuovo giusnaturalismo universalistico che è tanto in voga nel gergo politico odierno. Questo giusnaturalismo non poggia su un solido fondamento filosofico e razionale, ma si limita ad erigere allo status di “diritti” determinate rivendicazioni, quasi come fossero un fatto naturale. Il fondamento non è però né storico né politico, ma proprio di un moralismo incoerente.
Ma accettando e inscrivendosi all'interno di questo progressismo astratto si accettava l'ordine socio-economico vigente di cui è figlio. Non c'era spazio per la lotta di classe, e quindi per la lotta per “l'abolizione dello stato di cose presente” come diceva Marx, e nemmeno per pensarlo, ma la permanenza nell'orizzonte del capitalismo diveniva ineluttabile, al più si poteva pensare di migliorarlo un po', con rivendicazioni “radicali” ma senza minare la struttura dei rapporti sociali alla base. In questo senso questa sinistra può giustamente essere definita “estrema” o “radicale” perché non che è la propaggine periferica dello status quo.
Ed essendosi autoproclamata periferia dello stato di cose attuale era quindi inevitabile che finisse per diventare marginale come forza politica; abiurata la lotta di classe, e qualsiasi tentativo di ribaltamento dell'ordinamento sociale acquisito come dato ineluttabile, e quindi abbandonata la classe lavoratrice in quanto soggetto storico potenzialmente rivoluzionario, non restavano che proteste isolate come sui “diritti civili” (degli omosessuali, delle donne, degli extracomunitari, ecc.) proteste sicuramente condivisibili nei contenuti specifici, ma non dialettizzate e non elaborate criticamente in funzione di uno scopo emancipativo collettivo. Questa sinistra desidera soltanto assegnare ad ognuno i suoi “diritti”, come se ciascuno debba usufruirne individualmente ma sempre all'interno dello stato di cose acquisito.
In questo modo si è andati incontro a una perdita di senso. Perché smarrendo gli strumenti critici dell'esistente ogni avvenimento diviene incomprensibile in quanto sganciato da una realtà che non si è più in grado di comprendere e interpretare ma soltanto di elaborarla in modo pulsionale, reagendo quindi in maniera disorganica e incoerente. Di fronte all'incomprensibile, all'ineffabile, che in quanto tale diviene ineluttabile e insuperabile, l'asserzione di “diritti” appare uno sterile esercizio di intellettuali snob. Ed è questo, nell'immaginario collettivo, che finisce per diventare la sinistra. Laddove, invece, essa riesce a scavarsi delle nicchie, avrà disinnescato una potenziale rivolta contro l'esistente, riconducendola ai nidi sicuri e “politicamente corretti” della protesta interna al sistema di dominio che essa non scalfisce.
Forse, questa, è la tragicomica conclusione della parabola della sinistra, da strumento rivoluzionario a strategia di controllo sociale. Da parte nostra auspichiamo un ripensamento, invece, di essa, che non butti via l'acqua sporca con tutto il bambino. Per quanto l'attuale concetto di sinistra sia inutilizzabile, questo non significa che non possa esserne ricostruito uno nuovo, purché sappia però, emanciparsi dal progressismo astratto cui si è malauguratamente approdati, e riesca a recuperare in modo originale il pensiero di Marx e del marxismo, ritrovando una chiave di volta rivoluzionaria da opporre allo strapotere dell'odierno ineluttabile.


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